La tragedia degli autoctoni canadesi
di Claudio Antonelli - 04/09/2022
Fonte: EreticaMente
La visita del Papa
Nel corso del suo periplo in Canada, Papa Francesco ha chiesto scusa, a diverse riprese, per il comportamento di certi indegni membri della Chiesa nelle scuole-convitto create per figli degli autoctoni, strappati alle loro famiglie. E, addolorato, ha chiesto perdono anche per la distruzione culturale e l’assimilazione forzata di questi giovani.
Basteranno queste scuse alle Prime Nazioni del Canada?
La visita del papa è stata vista da loro come un inizio, e non come una conclusione. Lo stesso ministro canadese delle “Relazioni Corona-Autoctoni”, Marc Miller, ha detto che la peggior cosa sarebbe non fare nulla dopo il viaggio storico del Papa in Canada. E assai simile al suo è il giudizio della maggioranza degli stessi aborigeni, che aspettano, come dire, un risarcimento per i torti subiti ad opera dei colonizzatori.
Una questione controversa
Il tema è troppo complesso per poterlo presentare in qualche riga. Inoltre è un tema controverso. Farò solo un accenno a certe voci dissonanti rispetto alla recitazione corale del “confiteor” nei confronti dei nativi canadesi.
I loro leader non sono sempre un modello di virtù.
Il termine “genocidio”, relativamente alla disfatta della cultura dei popoli aborigeni ad opera della cultura europea, al quale i nativi ricorrono, e che è stato usato dallo stesso Papa, non è accettato da tutti. Ad esso alcuni preferiscono “etnocidio”. Altri: genocidio culturale.
Il giornalista quebecchese Christian Rioux (Le Devoir), difensore dei valori tradizionali dell’Occidente, mette in guardia contro chi vuol negare a generazioni intere, in Occidente, “il minimo motivo di orgoglio per una civiltà cristiana che, dopo aver praticato la schiavitù, è stata la sola ad averla abolita.” Gli accusatori dell’Occidente non si rendono conto che si contraddicono, continua Rioux, “poiché non hanno in bocca che i diritti dell’Uomo… invenzione prettamente occidentale, dopo tutto”.
Rioux ci mette in guardia contro il sensazionalismo mediatico, il delirio vittimistico, e “la volontà utopica di pulire il mondo (…) di tutte le sue macchie per renderlo perfetto” come scrive Chantal Delsol.
La Storia “non ha per scopo di confortare né i vincitori né i vinti”, asserisce questo intellettuale, spirito coraggioso e anticonformista.
Christian Rioux cita lo storico francese Frédéric Dorel, il quale si dichiara contro l’uso del termine genocidio, dal momento che “i cattolici videro nell’indiano un dimenticato da Dio da salvare attraverso il battesimo” e non certo da uccidere.
Una immane tragedia
Anch’io sono restio a questo continuo chiedere scusa degli occidentali al resto del mondo. La Chiesa, dopo tutto, ha certamente fatto anche del bene agli abitanti del Canada, aborigeni inclusi. Eppure, nell’intimo, riconosco pienamente la tragedia delle popolazioni indigene canadesi, anche se non è sempre facile indicare i colpevoli delle loro sfortune. E mi sento solidale con loro.
Dai giornali di non molto tempo fa: “I resti mortali di 215 bambini autoctoni ritrovati sul sito di un collegio.” Ma non è la sola notizia di questo genere. Ve ne sono state diverse altre, riguardanti i rozzi cimiteri – di cui non si sapeva nulla – scoperti nelle vicinanze di queste scuole-convitto, sorta di reclusori di rieducazione.
È il mio senso della Nazione, se vogliamo è il mio “nazionalismo”, unito ai miei sentimenti di umanità a farmi provare una sincera, profonda pietà per i popoli aborigeni del Nord America e per il loro tragico destino.
Neanche i nomi conosciamo di queste creature, sottratte di forza ai genitori e morte in un collegio lontano, dove venivano rieducate ai valori della civiltà bianca europea. Questi bambini senza nome, morti e sepolti in circostanze inumane, sono il simbolo tragico di un incontro fallito di civiltà.
Il mio pensiero va ai loro genitori, parenti, amici, che mai più seppero di loro. Ma il mio pensiero va anche, con riconoscenza, al nostro John (Giambattista) Ciaccia (1933-2018) che, sorprendente eccezione, sempre dimostrò come uomo e come politico – fu un ministro molto implicato con gli affari indiani – un genuino interesse e un profondo rispetto per gli autoctoni: “Vidi la loro miseria e le loro frustrazioni e le possibilità che vi erano di aiutarli”.
John Ciaccia, un vero amico degli aborigeni
John Ciaccia, questo avvocato di Montréal, nato in Italia (Jelsi, Molise), e giunto da bambino (nel 1937) a Montréal, una volta entrato in politica (una lunga carriera: 1973-1998) a contatto con la realtà degli aborigeni scopre la sua autentica vocazione di prammatico-idealista che capisce qualcosa di più, rispetto a tutti gli altri, dei sentimenti e dei bisogni degli aborigeni canadesi: popolo ridotto a un’ombra di ciò che era, e che il potere tratta con scarso rispetto perché incapace o non desideroso di capirne le esigenze, la psicologia, e il rapporto particolare che le popolazioni indigene hanno con la terra e con i valori del proprio passato.
Ciaccia sapeva fin troppo bene a cosa conduca l’etnocentrismo dei più forti, avendolo dovuto subire da immigrato italiano. E vi è da dire ch’egli era provvisto dell’umanità e della saggezza proprie della civiltà antica cui egli apparteneva – l’italiana – e che in lui si era arricchita dell’incomparabile esperienza che sa dare il vivere da minoritario in un paese straniero, ostile agli inizi ai nuovi arrivati e in particolare agli italiani.
La spiegazione del suo profondo rispetto per gli aborigeni del nostro Paese, è da ricercarsi nella grande lezione di umanità che l’esperienza dell’emigrazione aveva saputo dare a questo molisano, giunto in Canada da bambino: “Il mio passato mai mi ha abbandonato. Il bisogno del riconoscimento e dell’accettazione della mia cultura è rimasto sempre in me.”
Ma vi è qualcosa di più: nella sua autobiografia egli si dimostra fiero del padre perché questi aveva combattuto eroicamente, da volontario, prima guerra mondiale. Anche John Ciaccia nella sua lunga carriera darà sempre prova di coraggio. E mostrerà di capire che il sentimento nazionale è un sentimento normale attraverso il pianeta.
“Nationalism is a fact of life”, “Il nazionalismo è un fatto normale”, leggiamo, ad un certo punto, nella sua autobiografia. Una precisazione da parte mia: “Nationalism”, nella citata frase, è da intendere nel normale senso di “sentimento patriottico”, che è il significato del resto che i vocabolari correnti sia francesi che inglesi danno innanzitutto a questo termine, il quale ha due accezioni: una moderata e l’altra oltranzistica. Nei comuni vocabolari italiani, invece, c’è spazio solo per il significato oltranzistico del termine, quindi automaticamente “nazionalismo” è inteso dagli italiani come un nazionalismo aggressivo e sopraffattore.
Questa sua sensibilità al sentimento patriottico eviterà a John Ciaccia le posizioni miopi e intransigenti proprie di chi invece tende a ignorare una realtà evidente: l’amore per la propria cultura e il rispetto del proprio passato, individuale e collettivo, è un sentimento non solo normale ma lodevole.
Senso della patria, lealtà e anche amore per il Paese che ci ha accolti, difesa della cultura dei padri, accettazione del diverso e rispetto delle minoranze ossia rispetto della dignità di coloro che hanno un passato diverso dal nostro: su questi cardini poggia il mondo intellettuale, morale e politico di John Ciaccia.
Ciaccia non ignorava come era nato il suo desiderio di aiutare i “diversi”: “Crescendo da bambino come italiano canadese mi ero visto negare la mia cultura. Conoscevo tutto dei contrasti e tormenti nei campi da gioco. Stavo forse esprimendo i miei bisogni che proiettavo sui Nativi? Poiché rappresentavo il Governo, io ero il Governo. Mai avrei permesso che ingiustizie simili avvenissero ai Nativi”.
E ancora: “Dovevamo accettare il fatto che il popolo degli Aborigeni aveva una cultura diversa – la somma dei valori trasmessici che ognuno di noi ha.”
Alla sua morte (7 agosto 2018) la leader dei Mohawk, Ellen Gabriel, che durante l’esplosiva crisi di Oka (1990) ebbe diversi contatti con Ciaccia, allora ministro degli Affari Indiani, ha avuto per lui nobili parole: “He was actually the only person from any level of government in the summer of 1990 that held his hand up for peace and actually made an effort to have a peaceful resolution.”
Il capo dei Mohawk di Kanesatake (Oka) ha detto di lui: “I always respected that man, he was a guy who, when he said he was going to help, he wasn’t just saying it. He actually did it.”
Anche le “Prime Nazioni” della Baie James, con il consenso delle quali – ottenuto da Ciaccia – il governo del Québec poté attuare il grandioso progetto idroelettrico in quelle terre, hanno provato un sincero cordoglio per la morte di un uomo che seppe capire e rispettare gli aborigeni canadesi come pochi altri.
Alla base della sua capacità di capire gli aborigeni canadesi vi è una semplice verità: i nostri valori collettivi non sono uguali, proprio perché i nostri passati nazionali non sono sempre identici.
La Patria per gli Autoctoni canadesi
Occorrerebbe che anche noi, come fu per John Ciaccia, capissimo il loro amore per gli spazi, il movimento e i ritmi della natura – amore ridotto in brandelli dall’aggressione della società consumistica – così simile all’amore che noi rivolgiamo al nostro paese e al suo passato, ai suoi monumenti di marmo, ai suoi altari, alle sue pagine di storia; e così anche noi udiremmo il silenzioso urlo di disperazione delle popolazioni indigene, precipitate dalla sovranità orgogliosa alla passività e anche al parassitismo e all’alcolismo.
A Yellowknife un bianco mi descrisse la caduta psicologica che ancora oggi gli aborigeni – meticci, inuit e dene – subiscono quando sono in città in mezzo ai bianchi. Mi raccontò: “Con alcuni miei ospiti [i clienti delle sue escursioni in slitta, o in canoa a seconda della stagione] sono stato accolto da Jimmy, un mio amico dene. Lui e il figlio hanno pescato del magnifico pesce, e le numerose donne – mogli, figlie e parenti vari – ce lo hanno preparato alla maniera indiana. Jimmy andava e veniva dal fiume con questi magnifici pesci appena pescati. Sembrava un re. Fiero e felice. Era fra i suoi e provava un infinito piacere ad essere sé stesso: abile nella pesca, rispettato dal figlio e dalle donne, ospitale con me e gli altri bianchi. Due giorni dopo l’ho incontrato in un edificio pubblico nel centro di Yellowknife. Era silenzioso, schivo, dai movimenti timidi. Lo avresti detto rimpicciolito. Avevo notato che mi guardava, ma non osava rivolgermi la parola. Se non mi fossi fatto avanti io, lui non mi sarebbe venuto vicino. L’ho salutato con calore e si è ripreso. Si vedeva chiaramente che quello non era il suo mondo.”
Sì, li ho visti anch’io gli autoctoni, nei bar e nelle taverne di Yellowknife. Mi ricordo di uno al “Miner’s Mess”. Se ne stava seduto con la schiena appoggiata alla parete, la sedia di sghimbescio. Immobile, con gli occhi socchiusi. Stanno così quando sono soli e non hanno soldi per comprarsi da bere. Si direbbe che aspettino. Hanno lo sguardo vagamente inebetito, i movimenti lenti. Se li guardate troppo, si schiudono in un sorriso largo, disarmante e un po’ vergognoso, con quelle loro facce butterate dal freddo e gli occhi mongoli che diventano una fessura, mentre fanno assumere alle braccia una posizione d’inconscia difesa.
Gli indigeni canadesi: un popolo ridotto a un’ombra di ciò che era, e del quale il potere si dimostra incapace di capire le esigenze, la psicologia, e il rapporto particolare ch’essi hanno avuto per millenni con la terra (Introduco una nota personale: “Noi non possediamo la terra. La terra ci possiede” è un loro detto che mi ha profondamente marcato rivelandomi la verità profonda che tormenta l’animo degli esuli.)
Il tristissimo episodio dei bambini aborigeni da “rieducare”, morti lontani dalla propria famiglia, ci dimostra che la Storia è fatta di conquiste e di vittorie, e anche di tremende sconfitte; e che, al di là di ogni retorica, gli autoctoni canadesi del “meraviglioso Canada multiculturale” sono l’esempio di un popolo sconfitto divenuto esule nella propria terra ancestrale.