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2016: fotografia di una crisi globale

di Marco Tarchi - 16/09/2016

2016: fotografia di una crisi globale

Fonte: l'indro

L’Europa «non è in gran forma, possiamo parlare di crisi esistenziale», ha affermato ieri il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, e certamente guardando al vertice di Bratislava di domani. E poi, il perdurare del conflitto siriano, gli strascichi del fallito golpe in Turchia, lo stallo in Ucraina, la lenta implosione della Libia, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, le ondate migratorie che investono l’Europa, l’arenarsi del trattato transatlantico, l’avvicinarsi delle elezioni negli Usa, ecc. ‘Crisi‘ è, probabilmente, il concetto più adeguato a fotografare l’attuale congiuntura storica. Abbiamo parlato di questa situazione politicamente, economicamente e socialmente instabile con il professor Marco Tarchi, docente di Scienze Politiche presso l’Università di Firenze.
 
Professor Tarchi, tra pochi mesi si terranno le elezioni politiche negli Stati Uniti. Al momento Hillary Clinton è data per favorita da tutti i principali sondaggi, mentre Donald Trump sembra aver perso lo slancio propulsivo. Quale giudizio politico si sente di esprimere sui due candidati? Ritiene che l’affermazione di un candidato a scapito dell’altro sia destinata a produrre impatti sensibilmente differenti a livello internazionale?
Come quasi tutti hanno notato, la grande differenza tra i due candidati è data dal rapporto che hanno con l’establishment: outsider l’uno, insider al massimo grado l’altra. Non darei per scontata la ‘perdita di slancio propulsivo’ di Trump, se non altro per il forte livello di repulsione che anche la sua concorrente suscita in larga parte dell’elettorato e di cui danno testimonianza i sondaggi. Il problema, per entrambi, è riuscire a motivare al voto una parte significativa degli elettori scettici e indecisi, e da questo punto di vista Trump ha un potenziale vantaggio, perché può puntare su quel 30% di sostenitori di Sanders alle primarie che hanno dichiarato nelle indagini demoscopiche di non essere disposti a spostare le proprie preferenze sulla Clinton. Bisogna vedere se ci riuscirà. È notevole che, al momento, ben un 7% degli intervistati dica di voler votare per il terzo candidato indipendente. La cifra con ogni probabilità si ridimensionerà, m contribuisce a dimostrare quanto alto sia il rifiuto della classe politica statunitense oggi. Certamente ci sarebbero impatti differenti sullo scenario internazionale se vincesse l’uno o l’altro dei candidati in lizza, e non solo per il timore dei governi, in specie di quelli occidentali, dell’inesperienza e dell’imprevedibilità di un Trump alla Casa bianca. Il repubblicano ha fatto capire che punterebbe sull’isolazionismo e vorrebbe buoni rapporti con la Russia e forse persino con la Corea del Nord. Hillary Clinton è l’incarnazione dell’ambizione statunitense a proseguire e intensificare la politica di potenza del gendarme planetario, e si è già avuto modo di constatare come nella sua visione delle cose sia presente persino qualche tratto ereditato dallo storico messianismo made in Usa. Chi pensa che gli altri paesi debbano essere ‘protetti’ dagli Stati Uniti vedrà certo di buon occhio una presidenza Clinton; chi vorrebbe maggiore indipendenza sarebbe disposto a correre il rischio di una presidenza Trump, pur con i dovuti scrupoli.
In un suo libro del 2004 che raccoglieva alcuni saggi scritti in precedenza, lei ha analizzato le fasi attraverso cui la società europea era caduta in una sorta di sindrome celebrativa di tutto ciò che è legato o comunque riconducibile agli Stati Uniti, mettendo in risalto i numerosi effetti negativi provocati dal fenomeno. A 12 anni di distanza, ritiene che questa tendenza sia andata affievolendosi? In quali fenomeni si riscontra in maniera più evidente l’esaltazione acritica degli Usa che lei definisce ‘americanismo’?
Sotto il profilo puramente politico, viste le catastrofiche ricadute delle iniziative belliche statunitensi in Afghanistan e in Iraq, è probabile che la tendenza a prendere per buono, o comunque accettabile pressoché a scatola chiusa, tutto quello che viene da Washington si sia attenuata. Non così sul terreno culturale e societario, dove il modello dell’american dream continua a imperversare, ed anzi ha fatto progressi, visto che buona parte di ciò che ci si ostina a chiamare sinistra, anche in ambito intellettuale, vi si è convertita. Credo di aver ampiamente definito, nel Contro l’americanismo (Laterza) da Lei citato, cosa intendo per americanismo; in sintesi, è un atteggiamento positivo-elogiativo acritico verso tutto ciò che al di là dell’Oceano Atlantico viene celebrato e apprezzato, per il semplice fatto che proviene dalla ‘più grande democrazia del pianeta’ o dal ‘Paese-guida del mondo libero’. Va da sé che io non condivido affatto questa postura.
Negli ultimi anni si è assistito a un considerevole incremento dell’influenza russa in Medio Oriente, visibile soprattutto in Siria. Molti osservatori, di converso, hanno sottolineato che gli Usa stiano attuando un sostanziale ritiro strategico da quella cruciale area geografica per concentrare gli sforzi sulla macroregione dell’Asia/Pacifico, conformemente alla dottrina obamiana del ‘pivot to Asia’. Valuta corretta questa lettura? Crede che Mosca continuerà a sostenere la posizione di Bashar al-Assad?
Credo che continuerà a farlo almeno fino a quando le varie opposizioni, ‘moderate’ o jihadiste che siano – occorre far notare che, specialmente negli ultimi tempi, le due si sono spesso anche formalmente alleate per difendere o riconquistare porzioni contese del territorio, il che induce al dubbio circa il grado di consapevolezza dei governi e dei media europei che hanno sposato il dogma del ‘tutto fuorché Assad’ – fanno capire che, se riuscissero a scalzare l’attuale presidente, costruirebbero un regime ostile a Mosca. È opportuno sottolineare, anche perché l’informazione schierata si guarda bene dal farlo, che l’intervento deciso da Putin nel pericoloso scacchiere siriano è venuto non solo a salvaguardare la base militare di cui la Russia dispone nel paese, ma dopo il rovesciamento illegale del governo ucraino da parte delle forze filo-occidentali, che ha neutralizzato una zona-cuscinetto che i russi ritengono cruciale. L’attuale tentativo di creare un asse Mosca-Ankara va nella direzione di creare un contrappeso geopolitico all’espansione indiretta (ma non troppo: vedi alla voce Nato) dell’influenza degli Stati Uniti. Che, è vero, sotto Obama hanno spostato la propria attenzione sul versante del Pacifico, ma se dovesse vincere Hillary Clinton potrebbero aumentare la pressione anche sul fronte euromediterraneo.
Negli ultimi tempi, e specialmente dopo il fallito golpe a suo danno, il presidente turco Recep Tayyp Erdoğan è finito al centro del grande confronto geostrategico tra gli Stati Uniti e le forze che premono per l’instaurazione di un ordine multipolare. Quale è la sua opinione sulla linea operativa tenuta da Erdoğan in questi anni? Quale futuro intravede per la Turchia alla luce delle misure adottate dalle autorità a seguito del fallimento del colpo di Stato dello scorso luglio?
Non azzardo mai previsioni, consapevole della distanza che esiste tra la scienza politica e la chiaroveggenza. Quel che mi pare certo è che, in politica estera, gli ultimi tempi stanno facendo segnare un consistente mutamento di rotta del governo turco. Erdogan certamente dispone ancora di un forte seguito popolare, grazie all’azione messa in atto sul piano delle politiche sociali e infrastrutturali e all’enfasi posta sulla fierezza nazionale, che nel suo Paese è ancora un motivo di richiamo e di condivisione. Il suo braccio di ferro con Gülen dopo il tentato colpo di Stato (su cui retroscena ben poco sappiamo e si affastellano congetture fra le più disparate) ovviamente seminerà ulteriori fattori di tensione interna, ed è forse per questo che Erdoğan sta mettendo in atto un’offensiva di grande portata contro i curdi presenti in Siria e in Iraq, puntando a mostrarsi più potente di prima. Malgrado la caduta della stella Davutoğlu, la prospettiva neo-ottomana mi pare tutt’altro che evaporata, e gli Stati Uniti non possono ignorarlo.
Un dato rilevante che emerge dall’analisi dei contenziosi strategici ancora aperti è la sostanziale assenza dell’Europa, la quale sembra del tutto incapace di esprimere una politica condivisa e, di conseguenza, di far valere i propri interessi a livello internazionale. L’Ucraina e la Libia sono forse gli esempi più calzanti al riguardo. Quali sono le motivazioni che stanno alla base della debolezza europea? Quale genere di rapporto crede che il ‘vecchio continente’ debba instaurare con la Federazione Russa?
A me pare che in Ucraina e in Libia i Paesi europei abbiano fatto troppo, non troppo poco, sostenendo, o diplomaticamente o militarmente, iniziative che un tempo si sarebbero definite avventuristiche e le cui conseguenze sono più che discutibili. L’Unione europea ha un senso e un ruolo esclusivamente se i suoi dirigenti puntano a fare del vecchio continente un ‘grande spazio’ geopolitico indipendente rispetto alle grandi potenze, con i cui interessi dovrebbero cercare equilibri compatibili sulla base delle proprie necessità e convenienze. Le cose però, negli scorsi decenni, sono andate in tutt’altra direzione e l’Unione è andata configurandosi come un satellite degli Stati Uniti, per giunta rissoso al suo interno. Come se non bastasse, la crisi economica e l’afflusso di una massa migratoria di proporzioni ormai enormi l’hanno ulteriormente indebolita e divisa (ben più della Brexit). Vedremo cosa succederà con il Ttip, che è una trappola pericolosissima per le sue ambizioni future. Se continuerà così, il suo futuro è davvero a rischio. Quanto ai rapporti con la Russia, sono prima di tutto le leggi della geopolitica – e del buonsenso – a dire che dovrebbero essere i migliori possibili, ben diversamente da adesso. E non solo per la comune necessità di porre argini al terrorismo islamista.
Secondo diversi osservatori, tra gli attentati che hanno investito l’Europa, il flusso migratorio riversatosi sul ‘vecchio continente’ e il verificarsi di una serie di fenomeni criminosi (come l’ondata di molestie sessuali dello scorso capodanno in Germania) da un lato, e la crescita di consensi ottenuta dai partiti ‘populisti’ euroscettici dall’altro, esisterebbe un evidente nesso di causalità. Ritiene corretta questo tipo di analisi?
Sì, anche se sul successo populista hanno contribuito altri fattori importanti, come la crisi sociale determinata da taluni effetti della globalizzazione, a partire dalle delocalizzazioni e dalle politiche di austerità e di riduzione degli strumenti del welfare, e dal disgusto verso i sempre più frequenti casi di corruzione delle classi politiche. Di fronte ai problemi causati dai flussi migratori incontrollati, queste ultime hanno mostrato una vera e propria cecità, scegliendo la via della demonizzazione di chi esprimeva preoccupazione – ‘xenofobia’ è diventata una formula di scomunica e stigmatizzazione – e delle prediche moralistiche a suon di buone intenzioni. Anche da questo punto di vista, proseguire sulla strada intrapresa finirebbe per portare a una catastrofe politica delle odierne élites.
L’esito del referendum britannico ha sollevato un’ondata di previsioni catastrofiste circa il futuro che si prospettava dinnanzi alla Gran Bretagna. L’economista Joseph Stiglitz si è spinto oltre, esprimendo la convinzione che se la fuoriuscita di Londra dall’Unione Europea ha assestato un duro colpo all’architettura comunitaria, il fallimento del referendum circa la modifica della Costituzione italiana possa decretarne la fine. Quali motivazioni crede che abbiano spinto i cittadini britannici a votare in questo modo? Ritiene fondata la previsione di Stiglitz? Quale è il suo giudizio generale sulla proposta di riforma costituzionale promossa dal governo Renzi?
È presto per vergare bilanci, ma a giudicare dai primi mesi le previsioni catastrofistiche del dopo-Brexit non hanno colto nel segno. I profeti di sventura si ostinano a ribadire che è solo questione di tempo, ma per ora la Gran Bretagna, a parte una limitata svalutazione della sterlina, che ne sta favorendo il commercio estero, non ha subito gli squilibri economici preannunciati; anzi, se la cava piuttosto bene. Né credo che l’uscita del Regno Unito possa squassare l’Unione europea più di quanto non possono fare le sue divisioni interne su un numero crescente di temi. Perché poi una sconfitta referendaria della riforma renziana debba ‘decretare la fine’ dell’architettura comunitaria, non riesco a capirlo. Se l’Italia è fra i paesi che hanno finora dimostrato la maggiore assonanza (spinta in taluni casi fino all’acquiescenza) con le decisioni di Bruxelles, non vedo cosa cambierebbe se il progetto di riforma, che personalmente giudico insufficiente, confuso e legato ad una pessima legge elettorale, venisse bocciato dagli elettori. Immagino che Stiglitz, come tanti altri opinion makers reali o presunti, voglia portare acqua al mulino governativo agitando lo spauracchio dell’“instabilità”. Ma, come ha più volte scritto Giovanni Sartori, i governi stabili ma cattivi sono ancora peggio di quelli instabili.

a cura di Giacomo gabellini