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Perchè gli Stati Uniti garantiscono l'impunità di Israele

di Marco Tarchi - 15/12/2024

Perchè gli Stati Uniti garantiscono l'impunità di Israele

Fonte: Insideover

Non sono bastate le oltre 32.000 vittime degli assalti e dei bombardamenti su Gaza – fra cui una grande maggioranza di civili inermi e un’ elevata percentuale di donne e bambini – denunciate, al momento in cui scriviamo (il 26 aprile) da chi le ha subite, e peraltro prevedibilmente contestate dalle fonti ebraiche. Non sono bastate le immagini delle devastazioni e distruzioni causate in ogni località della Striscia dalle truppe battenti la bandiera con la stella di David, né quelle dei soldati che, cani al guinzaglio, frugano tra le rovine di casa in casa nella ricerca di eventuali superstiti, ovviamente da loro sospettati di “terrorismo” per il solo fatto di essere rimasti in vita.

Non sono bastati i video che hanno testimoniato le raffiche di mitra sparate ad altezza d’uomo dagli uomini di Tasahal sulle folle ammassate di fronte ai camion che cercavano di distribuire (pochi) generi di prima necessità a una popolazione stremata. Non sono bastate le notizie, peraltro rapidamente scivolate fuori dal palinsesto dei programmi d’informazione, sulla scoperta di 340 corpi senza vita dentro tre fosse comuni presso l’ospedale Nasser di Khan Younis, e di altre decine all’interno di due buche scavate nel cortile del nosocomio Al-Shifa di Gaza City, molti dei quali con evidenti segni di torture.

Non sono bastate, soprattutto, le oltre settanta risoluzioni di condanna di violazioni dei diritti della popolazione palestinese, di attacchi militari nei territori di Stati circostanti (Giordania, Siria, Libano e di non rispetto della Convenzione di Ginevra approvate dall’assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e regolarmente disattese dai governi succedutisi a Tel Aviv e a Gerusalemme.

Non è bastato neppure l’assoluto mancato rispetto di una risoluzione del Consiglio di sicurezza della stessa istituzione, la 2334 del 23 dicembre 2016, che pure era stata adottata con 14 voti a favore su 15, con l’astensione – e non il consueto veto – degli Stati Uniti d’America ancora guidati da Barack Obama – in cui si chiedeva a Israele di porre fine alla sua politica di insediamenti nei territori palestinesi dal 1967, inclusa Gerusalemme Est, si ribadiva che non sarebbe stata riconosciuta alcuna modifica dei confini del 1967, se non quelle concordate dalle parti con i negoziati, e si insisteva sul fatto che la soluzione del conflitto israelo-palestinese sarebbe dovuta passare per una soluzione negoziale mirante alla soluzione dei due Stati per giungere ad una pace definitiva e complessiva.

E tantomeno è bastato l’identico atteggiamento di indifferenza, e di concreto rigetto, tenuto dall’esecutivo presieduto da Netanyahu, nei confronti della del Consiglio di Sicurezza del 24 marzo, passata di nuovo con l’astensione degli Usa, per un cessate il fuoco immediato durante il mese di Ramadan, volto a consentire ulteriori negoziati e giungere alla restituzione degli ostaggi e allo scambio con prigionieri.

Niente di tutto questo è stato sufficiente per convincere l’Unione europea e i suoi Stati membri, e tantomeno il consesso “occidentale” informale ma solidamente coordinato di cui essa fa parte ad assumere un atteggiamento di chiara condanna del disprezzo che Israele, dalla fondazione ad oggi, ha sistematicamente dimostrato verso il diritto internazionale e le sue regole – quelle stesse nel cui nome, proprio da parte dell’Onu, la sua nascita come Stato era stata perorata, consentita e fatta attuare (attraverso il bagno di sangue della nakba, primo di una lunga serie di atti di sopraffazione violenta degli abitanti palestinesi).

Nessuna protesta ufficiale, nessuna esplicita denuncia. Soltanto qualche dichiarazione verbale di Borrell, prontamente rintuzzata dai destinatari con commenti solo di poco meno offensivi di quelli rivolti al segretario generale delle Nazioni Unite Guterres ogni volta che si è azzardato a denunciare la situazione in atto. Anzi: è bastato che l’Iran reagisse, in modo poco più che dimostrativo, al sanguinoso bombardamento israeliano del suo consolato a Damasco per far riaprire l’inesauribile capitolo delle accuse e delle sanzioni della Commissione di Bruxelles contro il “regime” di Teheran.

E, come logica conseguenza di questa inazione, lo Stato ebraico ha potuto proseguire indisturbato sulla direttrice strategico-militare intrapresa ben prima del 7 ottobre 2023 con l’evidente obiettivo di una pulizia etnica definitiva, della quale sono tappe indispensabili non solo l’eliminazione fisica delle residue forze di resistenza alla sua occupazione, ma anche e soprattutto l’espulsione in massa della gran parte dei civili palestinesi e la riduzione di quelli che non sarebbe opportuno scacciare ad uno stato servile ancora peggiore di quello che già da tempo subiscono. Logiche conseguenze di questa politica sono la decisione, praticamente certa nel momento in cui scriviamo, dell’assalto militare finale a Rafah, l’intensificarsi delle violenze – sistematiche e non di rado omicide – dei coloni in Cisgiordania, il ripetersi delle provocazioni armate oltreconfine, spesso effettuate tramite agenti e collaboratori del Mossad, con la speranza che l’apertura di un sostanzioso secondo fronte bellico, quello libanese con Hezbollah, possa distogliere l’attenzione dalle prossime puntate del massacro in atto a Gaza.

Malgrado la cortina fumogena che il fronte politico-mediatico predisposto sempre e comunque a difendere, con impalpabili sfumature, le “ragioni” di Israele – esteso dalla sinistra alla destra e con una robusta presenza del centro – quotidianamente diffonde su questa ennesima tragica pagina delle vicende mediorientali, una frangia sempre più cospicua della pubblica opinione dei Paesi “occidentali” sembra prendere coscienza dell’anomalia costituita dalla totale impunità e immunità di cui lo Stato ebraico si fa forte. E reagisce. Le inchieste demoscopiche dimostrano che il capitale di simpatia e comprensione di cui esso godeva in virtù della memoria della persecuzione subita dagli ebrei europei fino al 1945, ha subìto negli ultimi mesi un netto calo. E ciò malgrado i continui richiami di giornali, Tv, radio, esponenti politici alle gravi violenze commesse da Hamas nella cosiddetta operazione «Alluvione Al-Aqsa». La spropositata e indiscriminata vendetta contro un intero popolo ha, insomma, sollevato un’ondata di indignazione diffusa.

Tuttavia, le forme che questa reazione ha assunto dimostrano che, ancora una volta, molti di coloro che non accettano la prigionia a cielo aperto imposta da più di mezzo secolo alla popolazione palestinese stanno sbagliando bersaglio. E rischiano di fare danni alla causa che difendono.

Se è vero, infatti, che le accuse di antisemitismo rivolte a chiunque critichi Israele sono nella gran parte dei casi infondate, strumentali e in malafede, qualunque – anche minima – sbavatura in tale direzione è destinata a trasformarsi in boomerang. E certi cori, slogans, atteggiamenti, per quanto ultraminoritari, registrati nelle recenti manifestazioni di solidarietà agli straziati abitanti di Gaza – inclusi quelli che, auspicando una fantasmagorica «Palestina rossa», servono solo a ridare fiato ad un’ultrasinistra asfittica e avvolta nella spirale dei deliri woke e no borders  sono armi nelle mani dei loro carnefici. E se altrettanto vero è che il Governo di Netanyahu è il più immediato responsabile della strage di civili a cui stiamo assistendo, non meno pesanti – ma anzi, più gravi – sono le colpe di chi, dello stato di eccezione grazie al quale Israele può commettere ogni genere di crimine che ritiene opportuno – è, da sempre, il garante. E cioè degli Stati Uniti d’America.

Nonostante gli sforzi che l’amministrazione Biden, come quella di Obama, sta compiendo per dare l’impressione di non condividere l’attuale più cruenta fase della politica israeliana – con le citate astensioni in Consiglio di sicurezza, alcune dichiarazioni e le pilotate indiscrezioni su telefonate in cui l’inquilino della Casa Bianca avrebbe cercato di dissuadere l’esecutivo di Tel Aviv dal procurare altre carneficine, è stata Washington a bloccare numerosissime altre iniziative sovranazionali per condannare gli atti illegittimi di Israele. Così come è stata Washington ad assicurare il sostegno economico e in armamenti che consente a Tsahal la sua indiscussa superiorità militare, a chiudere gli occhi (ma, più probabilmente, a fornire cospicui aiuti) quando la centrale di Dimona, già a metà degli anni Sessanta, ha iniziato a produrre le armi atomiche di cui Israele oggi dispone e a impedire che quell’arsenale sia ispezionato dall’apposita agenzia internazionale.

Nella strategia di dominio planetario degli Usa, Israele ha acquisito fin dall’inizio un ruolo-chiave. E se esso poteva essere (molto) parzialmente equilibrato dall’interesse che gli Stati Uniti avevano a non esasperare il conflitto con il mondo arabo quando questo rischiava di allinearsi completamente ai piani dell’Unione sovietica all’epoca del confronto bipolare, oggi anche questo limite è saltato, e la partnership/sponsorship fra i due Stati si è ulteriormente rafforzata. Il peso, documentato e da più parti autorevolmente studiato, della pressione organizzata della comunità ebraica sulla classe politica degli States assume in questo contesto una significativa importanza, ma non è il dato cruciale. Perché, se i presidenti americani di qualunque colore continueranno, come è certo, a dare carta bianca ai loro privilegiati alleati mediorientali e ad approvvigionarli di armi e denaro, come ha appena fatto il Congresso Usa in un generoso pacchetto di sussidi significativamente suddiviso fra Tel Aviv e Kiev, la loro prima motivazione è, come ha dichiarato a caldo Joe Biden e avrebbe detto al suo posto Donald Trump, riaffermare la leadership statunitense sul mondo. Cioè ribadire la sudditanza ai suoi voleri di tutti gli altri Stati e popoli sparsi sul pianeta. In questa prospettiva, nella fase attuale, Israele vale quanto Taiwan e Kiev.

 

Da “Diorama”, numero 379 (Maggio-Giugno 2024)  Dati, numeri e fatti riportati nel seguente articolo si riferiscono all’aprile 2024, uno dei momenti più duri della guerra nella Striscia di Gaza.