Nonostante sia un po’ datata, riteniamo molto interessante questa intervista che Alain de Benoist ha rilasciato nel 2018 sul tema del Maggio ’68, un momento di “rivoluzione” sociale che, come in tanti altri casi della storia, è servito a rafforzare un determinato paradigma.
Secondo il filosofo francese, quel periodo è corrisposto, infatti, alla vittoria dell’individualismo e del capitalismo liberista; è stato il culmine della modernità e dei suoi valori in contrapposizione a una struttura sociale ancora, all’epoca, caratterizzata da tradizionalismi. Con il Maggio ’68 si è dato il là alla società liquida – come l’ha definita Bauman – e si sono spalancate le porte alle storture odierne.
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Il maggio ‘68 evoca, per le generazioni che non hanno conosciuto quest’avvenimento, una rottura storica che, oltre al suo aspetto rivoluzionario, è all’origine di una nuova concezione della società, apertamente ostile alla tradizione. Alain de Benoist, contemporaneo del Maggio ’68 e pensatore eterodosso della destra, torna su questo momento annunciatore del disincanto politico.PHILITT: Oggi quello che commemoriamo in maniera informale sono i cinquant’anni di un «evento». Aderisce a questa concezione del Maggio ‘68 come evento?
Alain de Benoist: Il presidente della Repubblica Emmanuel Macron ha pensato di commemorare il Maggio ‘68. Potremmo ravvedervi un paradosso, ma ciò darebbe credito alla strategia di comunicazione nella quale egli eccelle. Ma comporterebbe soprattutto il dar credito a un evento che si è gonfiato retrospettivamente. Naturalmente c’è un elemento di verità nella definizione del Maggio ‘68 come di un evento, ma è piuttosto caricaturale. Il Maggio ‘68 è in realtà una ricostruzione. Si fanno risalire tutte le trasformazioni sociali o di Società a questo evento, tanto che «sessantottino» è diventato un aggettivo che ricorda quello di «comunardo» che combatteva dietro le barricate. La realtà però è ben diversa, essenzialmente per due ragioni. La prima è che il Maggio ‘68 non è tanto un evento fondativo quanto un momento che si inscrive in una tendenza più profonda, già in atto nella società. Ciò che chiamiamo “Maggio ‘68” non è altro che la cristallizzazione di trasformazioni che operano dagli anni Cinquanta, durante i quali si affermarono i nuovi stili di vita basati sul consumismo dei Trent’anni Gloriosi (diffusione massiccia della televisione, degli elettrodomestici, ecc.), nonché innovazioni civiche ed economiche come il nuovo posto che le donne acquisiscono nella società. Che ci fosse stato o meno il Maggio ‘68, le trasformazioni sociali che abbiamo vissuto sarebbero comunque avvenute. Gli altri Paesi europei, che non hanno avuto il loro Maggio ‘68, ne sono testimonianza: anch’essi hanno pienamente integrato i nuovi paradigmi sociali del capitalismo liberale.
La seconda ragione è che il Maggio ‘68 non è un evento unitario, come lo valutiamo oggi in retrospettiva. È, da un lato, l’ultimo grande sciopero generale vissuto in Francia, che ha toccato l’insieme delle categorie professionali, dal più piccolo operaio ai più grandi mass media. È, dall’altro, una rivolta studentesca che, in realtà, aveva poco a che fare sia con i comunisti che con il mondo del lavoro: come osservava molto giustamente Pasolini, si trattava di studenti figli della borghesia che si scontravano con poliziotti figli di proletari. C’erano quindi due correnti quasi in competizione: una, la maggioritaria, che purtroppo ha prevalso, caratterizzata dal suo rigetto dell’autorità in generale, dei punti di riferimento e delle norme costitutive del tessuto sociale francese; l’altra, minoritaria, ispirata al situazionismo e guidata da grandi pensatori come Jean Baudrillard, Guy Debord, Henri Lefebvre o Herbert Marcuse. Si tratta quindi di un movimento storico complesso, che in definitiva può essere compreso solo avendo partecipato, direttamente o indirettamente, agli eventi nella loro attualità vivente.
PHILITT: Nel 1968 lei aveva per l’appunto 25 anni. Quale è stato il suo atteggiamento e le sue prese di posizione durante gli eventi in questione?
Alain de Benoist: Facevo parte della generazione che aveva vissuto la fine della Guerra d’Algeria e il clima febbrile degli anni ’60, veri anni di incubazione dei successivi sconvolgimenti del 1968. Vivendo a Parigi, ero nel cuore degli eventi di quell’anno. Tuttavia, non ero attore, ma semplicemente spettatore. C’è da dire che, professionalmente, lavoravo presso l’“Eco della Stampa e della Pubblicità”, diretta dal pittoresco Noël Jacquemart. Il giornale mi mandava sul posto per raccogliere quanti più giornali e documenti possibili che si producevano nel mezzo dell’effervescenza politica della gioventù studentesca e dei movimenti di protesta. Io non facevo parte di quegli studenti di destra che volevano opporsi al movimento: ce ne sono stati, Bernard Lugan era uno di questi, e ne testimonia in modo molto ammirevole. Ma per parte mia, ero semplicemente mosso da una curiosità priva di particolari simpatie o antipatie. Ricordo tuttavia con piacere l’entusiasmo politico che era in atto, perché il raffronto con la società contemporanea è desolante: la popolazione, studentesca compresa, si è nettamente depoliticizzata, nei suoi discorsi come nelle sue realizzazioni concrete. Nel maggio 1968, i cortei, le bandiere rosse, i canti, costituivano invece un paesaggio politico il cui dinamismo era molto attraente, indipendentemente dalle idee politiche che erano mobilitate. Nonostante regnasse più un’atmosfera di festa che di rivoluzione, rispetto alla violenza della Guerra d’Algeria, sentivamo che qualcosa stava accadendo. Si esprimevano delle rotture storiche.
PHILITT: Lei parla di profonde trasformazioni sociali manifestatesi nel maggio ’68. Lei riscontra un senso della Storia che si è più ampiamente espresso in questi eventi?
Alain de Benoist: In effetti, il Maggio ‘68 è il momento contingente di un processo strutturale ineluttabile: la modernizzazione della società. Il Maggio ‘68 rappresenta il culmine della modernità: il suo fallimento era previsto con anticipo. Ho criticato molto la modernità nelle mie varie pubblicazioni e, a tal riguardo, sono ostile alle idee che strutturano Maggio ‘68 in quello che la Storia ne ha conservato. Penso all’aborto delle speranze sociali nella costituzione di un «sinistrismo organizzativo», figlio delle rivendicazioni individualiste degli studenti parigini, che hanno fatto il gioco del capitalismo liberale. Oggi, la nuova sinistra che esibiva lo slogan «godiamo senza ostacoli» è composta da notabili ben radicati nell’apparato politico che preserva e riproduce i meccanismi da sempre denunciati dai comunisti. Sono quindi ostile a quanto si è culturalmente espresso nel Maggio ‘68 in quanto sono un critico della modernità, ma non in senso «restaurazionista»: bisogna pensare il reale come lo constatiamo in quello che ha a volte di ineluttabile. È una questione di lucidità e di onestà, secondo la formula di Péguy: «bisogna vedere quello che si vede». Non credo a un senso globale della Storia e ancor meno lineare, ma credo nell’esistenza di processi storici ciclici le cui possibilità non sono inesauribili. Questi processi hanno quindi la loro fine naturale. Non vedo come la modernizzazione dell’Europa e del mondo possa essere minata da fattori esterni: assistiamo veritabilmente alla distruzione del mondo antico. In compenso, non sono affatto fatalista, e credo che la causa dell’esaurimento del progetto moderno possa derivare dalle sue stesse contraddizioni. Ci sarebbe molto da dire a tal proposito, sul modo in cui il capitalismo liberale sega i rami su cui giace. Ho sempre pensato che il sistema monetario sarebbe perito a causa del denaro. Verrà il momento in cui il disordine moderno si scontrerà con il principio di realtà: più si diffonde il caos, più si costituisce il bisogno di ordine. Poiché la natura detesta il vuoto, la decostruzione di tutte le strutture tradizionali non può bastare a se stessa: bisognerà ricostruire dietro. La Storia è imprevedibile, e in questo senso è sempre aperta: un ribaltamento è sempre possibile, se prendiamo coscienza della gravità della crisi ecologica generalizzata così come della violenza delle grandi crisi finanziarie. Non sono quindi né fatalista né volontarista: occorre che la volontà si cristallizzi in un dato momento, cioè quando le circostanze sono favorevoli. Prestiamo attenzione alla saggezza pratica del kairos.
PHILITT: Il Maggio ’68 ha messo in discussione i riferimenti tradizionali del cristianesimo nella famiglia e nella società. Quale orizzonte potrebbe perseguire l’uomo moderno avendo rotto con un ideale collettivo di tipo religioso?
Alain de Benoist: Non credo che il Maggio ‘68 sia stato una contestazione dei valori specificamente cristiani. Si trattava di una contestazione ancora più profonda, contro tutti i valori dell’autorità, cristiani o meno, laici e non: è il caso, ad esempio, della messa in discussione dell’autorità del padre di famiglia, che poteva essere sia cristiana che repubblicana laica. La Chiesa stessa doveva già confrontarsi con i suoi problemi interni: era appena uscita dalla rottura provocata dal Concilio Vaticano II. Non credo che un ritorno ai valori cristiani porrebbe rimedio alla situazione: in primo luogo perché riconosco di non essere personalmente cristiano, ma soprattutto credo, con Marcel Gauchet, che il cristianesimo sia la religione dell’uscita dalla religione. Siamo entrati in un’epoca in cui i valori religiosi cristiani sono diventati un’opinione: la religione non ha più la funzione organizzativa della società che ricopriva prima. Va detto che il declino del paradigma cristiano è avvenuto in due tempi. C’è stato prima un movimento di secolarizzazione operato a partire da premesse cristiane: il futuro ha preso il posto dell’aldilà, la felicità ha preso il posto della salvezza, e la monarchia assoluta ha preso il posto del potere assoluto di Dio. In altre parole, il potere politico temporale si è arrogato l’esclusiva sulla funzione sacra, in opposizione alla casta sacerdotale. Si è verificata poi la desacralizzazione della politica stessa, sotto l’influenza dell’ideologia dei diritti dell’Uomo e dell’economia liberale: il governo politico degli uomini ha lasciato il posto alla gestione amministrativa delle cose. Detto questo, non arriverei ad affermare che il Maggio ‘68 sia stato una conseguenza del cristianesimo. Per quanto ci sia una correlazione tra cristianesimo e comunismo, poiché notiamo che le aree geografiche più cattoliche sono state le aree più permeabili alle idee comuniste, il Maggio ‘68 non ha assolutamente nulla a che vedere con il progetto cristiano. In realtà, si è verificato una sorta di «trasferimento di fede», dall’escatologia cristiana all’«escatologia marxista». Ma l’individualismo, espresso nettamente nel Maggio ‘68, ha posto fine a tutto ciò: ha posto fine a qualsiasi tipo di impegno di tipo sacerdotale così come ai grandi progetti collettivi. L’individualismo ha ridotto l’impegno alle cose effimere, limitandolo all’orizzonte minimo degli interessi individuali in una società diventata liquida, per usare i termini di Zygmunt Bauman. Non è quindi improbabile che il regno della tecnologia si affermi sempre più sfruttando il conformismo dell’uomo occidentale contemporaneo: transumanesimo e intelligenza artificiale costituiranno forse il volto del mondo di domani, per quanto ciò possa essere preoccupante.
PHILITT: La liberalizzazione dei costumi è stata la grande vittoria della borghesia ribelle del Maggio ‘68. Direbbe con Michel Clouscard che questi eventi esprimono meno una crisi politica o economica che una crisi del desiderio?
Alain de Benoist: Il grande merito di Michel Clouscard è che vede il lato farsesco del Maggio ‘68. Anch’io l’ho notato sul posto: ci si travestiva da Lenin, si metteva in scena la Comune al Théâtre de l’Odéon. In tal senso, il noto aforisma di Marx trova una sua perfetta realizzazione nel Maggio ‘68: «i grandi avvenimenti accadono sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa». Il Maggio ‘68 ha qualcosa della farsa. La critica molto violenta dei comunisti contro quelli che chiameremmo «sinistrorsi» è stata infatti aggiornata da Clouscard. Questo aspetto parodico del Maggio ‘68 è giustificato proprio dal fatto che tutti i rivoluzionari farlocchi si sono trasformati in riformisti da salotto. Nella loro rivolta contro il puritanesimo borghese – che era molto reale e insostenibile – è chiaro che hanno sostituito un eccesso con un altro: quello della dismisura. Esiste un discreto libertinismo, ma il problema è che il Maggio ‘68 ha contribuito a stabilire nuove norme. Tra queste norme c’è quella della normatività della prestazione: l’esperienza qualitativa dell’appagamento sessuale è sovvertita nell’ingiunzione quantitativa al godimento forzato e orgoglioso. A mio parere è davvero paradossale parlare di liberazione sessuale mentre si instaura una «sessocrazia». Un’autentica liberazione sessuale sarebbe consistita, al contrario, in un libero reinvestimento dell’eros, sbarazzato da ogni dimensione normativa esterna, vissuto nel segreto dei cuori e dei corpi. Gli antichi distinguevano chiaramente tra una sessualità sfrenata e dionisiaca da un lato, e un erotismo compiuto dall’altro: il criterio di discriminazione tra il bene e il male, in materia sessuale come in ogni altra cosa, resta infatti quello dell’hybris. Le mie considerazioni non sono quindi moralistiche: mi schiero dalla parte della misura contro ogni forma di eccesso, sia esso pornografico o encratico. Chiusa nei suoi corsetti o emancipata, la borghesia resta in effetti la stessa: la mancata liberazione del desiderio testimonia quindi, tra l’altro, la vittoria, attraverso il Maggio ‘68, della parodia ideologica sulle possibilità concrete di una Francia che credeva ancora nella politica ma con la quale aveva già perso il contatto.
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Paul Ducay è Professore di filosofia e medievalista di formazione. Erede della metafisica di Nicola Cusano e della fede di Xavier Grall. Guascone per lignaggio e francese per intelletto. “I devoti danno fastidio al mondo; le persone pie lo costruiscono.” – Marivaux.
Fonte: https://philitt.fr/2018/04/26/alain-de-benoist-mai-68-a-quelque-chose-dune-farce/
Traduzione di Samuele per ComeDonChisciotte.org