25 Aprile
di Claudio Auria - 25/04/2023
Fonte: Il secondo mestiere
Quest’anno il 25 Aprile sarà più divisivo del solito. Sento dire che la destra italiana sta perdendo l’occasione per una «riconciliazione nazionale», cioè per medicare finalmente la profonda ferita che ancora oggi divide gli italiani in fascisti e antifascisti. I mezzi d’informazione, poi, non perdono occasione per persuaderci che il ventennio fascista è stato il periodo più tragico della nostra storia nazionale, da cui si è usciti solo grazie all’eroismo dei partigiani e all’intervento degli Alleati, a quali dobbiamo eterna riconoscenza per il ripristino in Italia della libertà e della democrazia.
C’è qualcosa che non mi convince. Nel parlare di “riconciliazione” si sostiene, di fatto, che prima del ventennio fascista si fosse “conciliati”. Io, invece, credo che noi italiani non eravamo “conciliati” neppure allora: nel Mezzogiorno milioni di persone percepivano l’unificazione nazionale come una mera estensione territoriale dei Savoia, dei quali non comprendevano neppure la lingua; le donne, non solo le meridionali, subivano evidenti discriminazioni; la ricchezza era in mano a poche persone, così come i diritti politici.
Nel 1861 aveva diritto al voto meno del 2% della popolazione, percentuale che ancora nel 1911 non superava il 9%. Persino dopo l’introduzione del suffragio “universale” (1912) le cose non erano cambiate più di tanto: nel 1919 aveva diritto di voto il 30% della popolazione; inoltre, i rappresentanti, anche se eletti nei partiti popolari, erano distanti per condizione sociale dai loro rappresentati. Infatti, nelle file dei parlamentari abbondavano avvocati e professori universitari, ed era raro trovarvi qualcuno privo di laurea.
Oggi il fascismo ci viene presentato come il periodo più buio della nostra storia, preceduto e seguito da periodi in cui democrazia, equità, diritti civili, libertà e pace erano di casa.
Tuttavia, che i governi “liberali” italiani precedenti al fascismo non fossero democratici, e neanche attenti ai diritti civili, l’abbiamo appena visto. In realtà non furono neppure particolarmente pacifisti, avendo accresciuto la propria potenza economica dapprima acquisendo i porti africani di Assab e Massaua, sul mar Rosso; poi estendendosi in Eritrea, Somalia, Cirenaica, Tripolitania e Isole egee; infine instaurando un “protettorato” in Albania meridionale. Naturalmente ho tratto da wikipedia l’elenco dei territori conquistati dai governi italiani. Ignoravo del tutto, invece, che l’Italia nel 1901 ottenne una “concessione” addirittura in Cina, nelle zone di Amoy, Shanghai e T’ientsin.
Non è stato Mussolini (e neppure Putin) ad inventare il sopruso del forte sul debole: il colonialismo; la sopraffazione dell’uomo sulla donna, degli adulti sui giovani e sugli anziani, dei ricchi sui poveri; lo sfruttamento dell’uomo sulla natura.
Questa tendenza del forte a sopraffare il debole c’era prima del fascismo e continua ancora oggi. Peraltro la violenza (nelle sue varie forme) non è una prerogativa delle «autocrazie», come oggi si usano definire le nazioni non rientranti fra le democrazie occidentali. Non è esercizio di violenza la pena di morte, a prescindere dalla modalità e dal luogo in cui viene attuata?
Non ho affermato cose straordinarie, lo so. E neppure le ho scritte particolarmente bene, anzi; so anche questo. Così come so di non essere portato per la scrittura. Nella mia famiglia d’origine non si parlava mai di libri, né ne giravano per casa; e ciò spiega il fatto che anch’io non ne leggessi. Spiega anche, credo, le profonde lacune “culturali” che ancora oggi mi porto dietro. Eppure, mio padre e mia madre, m’hanno insegnato tanto, trasmettendomi una sapienza, non accademica, ma pur sempre sapiente. In miei genitori sognavano, nonostante potessero fare affidamento sul solo stipendio di papà, di comprare una casetta in campagna dove trascorrere all’aria aperta gli ultimi anni delle loro esistenze. Mia madre – oltre a sbrigare le faccende di casa, preparare marmellate e altre confetture, badare ai tre figli – s’arrangiava come sarta. Ricordo che quando la vecchia Singer a pedale fu sostituita da una Necchi elettrica acquistata a rate, in casa si respirava un clima di contagiosa euforia. Mio padre ogni pomeriggio, tornato a casa e riposta nell’armadio la sua divisa da maresciallo, indossava di volta in volta i panni necessari per il suo secondo mestiere: muratore, falegname, elettricista, idraulico, meccanico. Ricordo che un’intera parete del grande ripostiglio della casa era occupata da una profonda scaffalatura per gli attrezzi e i materiali da lavoro, mentre un robusto tubo dell’acqua, che attraversava la stanza da un lato all’altro, era la palestra di famiglia, dove ci allenavamo con l’unico esercizio possibile: le trazioni alla sbarra.
Ogni tanto svolgevamo attività più impegnative: una volta sostituimmo la carta da parati in tutta la casa, dopo aver tolto la precedente, stuccato e scartavetrato le pareti; ricordo ancora la porta della mia stanza con gli estremi appoggiatati su due sedie, e usata per incollare le lunghe strisce di carta. Un capitolo a parte meritano le attività in trasferta al Forte Prenestino, a Centocelle: ogni anno vi si svolgeva il rito della preparazione artigianale della pummarola (io avevo il compito di infilare un foglia di basilico in ogni bottiglia); là inoltre mio padre cambiava l’olio alla macchina e sostituiva le pasticche dei freni. In seguito, realizzato il sogno della casa in campagna con annesso garage, l’attività di meccanico divenne sempre più impegnativa, giungendo fino alla sostituzione di componenti del motore.
Riassumendo: la mattina andavo a scuola; il pomeriggio, finiti i compiti, correvo al Borgo ragazzi don Bosco sulla Via Prenestina (scavalcando, per far prima, il muro di cinta che separa il Borgo dal Forte Prenestino), oppure davo una mano ai miei in qualche “attività pratica”; la sera invece, almeno fin quando non presi l’abitudine d’uscire con gli amici, chiacchieravamo o giocavamo a carte. Qualche volta mamma, mentre lavorava con i ferri da calza, raccontava qualche episodio avvenuto negli anni trascorsi in collegio a Firenze o durante il periodo trascorso da sfollata in provincia di Pordenone. Ancor più affascinanti erano i racconti di mio padre: la guerra in Etiopia, vissuta da volontario; gli anni trascorsi in Africa in una società che esportava caffè; le battute di caccia grossa; un viaggio in mare durato più d’un mese, di cui ricordo solo la scena del vomito dei prigionieri che arrivava fin oltre le ginocchia di mio padre; la seconda guerra mondiale, per lui durata poco perché ben presto fatto prigioniero dagli Inglesi, che non avevano esitato a trucidare, mitragliandoli alle spalle, decide di patrioti etiopici (alleati degli Inglesi) per impedirgli di catturare e uccidere il reparto di cui mio padre faceva parte; gli anni trascorsi nei campi di prigionia in Africa.
Tutto questo per dire che se persino io, che certo non sono un intellettuale, sento puzza di bruciato quando ascolto parlare di fascismo e antifascismo, è giunto il momento di rimboccarci le maniche. Penso d’aver fatto bene a creare il «Secondo mestiere». E anche a lanciare l’idea di un Festival letterario per il prossimo 9 dicembre.