Il "fattore T"
di Enrico Tomaselli - 17/07/2024
Fonte: Giubbe rosse
Essendo fortunosamente scampato all’attentato a Butler, Trump veleggia verso una assai probabile vittoria alle presidenziali di novembre. Ed è assai probabile che anche l’America sia scampata – almeno per ora – allo scoppio di una guerra civile; se fosse morto, le possibilità che si innescasse una reazione a catena erano davvero forti.
Chiaramente, l’attentato in sé è stato un evento game changer; a questo punto per i democratici la partita è sostanzialmente persa, e quindi non ha più senso cercare un candidato alternativo a Biden. Non avrebbe senso bruciare adesso una candidatura spendibile tra quattro anni. Ma faranno bene a trovare in fretta un frontman (o una frontwoman…), ed a prepararlo per la sfida: J.D. Vance è giovane e grintoso (e la sua biografia, ‘Elegia americana’, è un bestseller).
Se Trump confermerà le previsioni, e verrà eletto presidente per la seconda volta, avrà dinanzi a sé un arco di tempo limitato per sviluppare la sua politica; e anche se Vance è – come dice qualcuno – un suo clone, non è detto che verrà eletto nel 2028.
In questa finestra temporale si troverà di fronte numerose sfide, sia interne che internazionali, e i due aspetti sono intrecciati.
Tanto per cominciare dovrà risanare l’economia del paese – anzi, dovrà risanare il paese. Che ha un debito pubblico di 33.000 e passa miliardi. Dovrà probabilmente scontrarsi con una fortissima resistenza istituzionale da parte dei dem, ad ogni livello, e ovviamente fare i conti col deep state (che è totalmente bipartisan, quindi saldamente presente anche tra le fila repubblicane). Per quanto la sua elezione sarà probabilmente trionfale, e questo taciterà il dissenso tra i rep, le divergenze non tarderanno ad emergere.
E infine, dovrà evitare che l’estrema polarizzazione del paese non precipiti in una crisi violenta.
Ma naturalmente le sue sfide più grandi sono quelle internazionali: Ucraina, Palestina, Cina.
Per quanto riguarda il conflitto in Ucraina, la posizione trumpiana è nota: porre fine. Ma pensare che basti la generica volontà di una nuova amministrazione per risolvere il grumo di questioni legate al conflitto, è pura ingenuità.
Tanto per cominciare, non bisogna dimenticare che, per quanto in posizione subordinata, la guerra in questione coinvolge altri due attori, oltre USA e Russia: l’Europa (UE) e l’Ucraina stessa, il primo dei quali è anche legato a Washington dall’Alleanza Atlantica. Qualunque mossa statunitense, quindi, deve quantomeno tener conto delle possibili reazioni anche di questi soggetti. Ma, ovviamente, la questione prioritaria è la Russia.
Sicuramente Mosca ha interesse a porre fine alla guerra, sia per fermare l’emorragia delle perdite umane (che ormai viaggiano probabilmente verso le centomila), sia per allentare la pressione sulla società russa, sia per riorganizzare/riarmare le forze armate con calma e non più in corso d’opera, sia – non ultimo – perché è ciò che il resto del mondo vorrebbe veder accadere.
Ma certamente la Russia non è disposta a buttar via tutto ciò che è costato arrivare a questo punto, pertanto può essere raggiunta una posizione di compromesso, ma pur sempre tenendo conto che c’è un soggetto che vince – la Russia – ed uno che perde – la NATO. Sostanzialmente, quindi, la questione è principalmente cosa questa può offrire, e cosa è invece irrinunciabile per Mosca.
Spazziamo subito via la ridicola ipotesi, più volte affacciatasi, del congelamento del conflitto (sul modello coreano), o della concessione dei territori occupati: la Russia quei territori già li controlla saldamente, e non intende comunque considerare l’ipotesi di un ritorno all’Ucraina, e quanto al congelare la guerra, è chiaro che – soprattutto dopo la beffa degli accordi di Minsk – qualsiasi ipotesi che non dia garanzie sulla fine definitiva della guerra, non verrà presa in considerazione.
Ciò detto, non resta molto da offrire, per Washington. Teoricamente potrebbe mettere sul piatto la revoca delle sanzioni [1] e la restituzione dei fondi congelati (magari in una seconda fase), sarebbe politicamente assai difficile da gestire – ed assai indigesto per gli europei… – in quanto sarebbe come riconoscere che la OSM russa era giustificata. Inoltre, dal punto di vista russo, queste sono questioni importanti ma accessorie.
L’esplicita rinuncia – da ambo le parti, Ucraina e NATO – all’adesione all’Alleanza Atlantica sarebbe, ancora un volta, politicamente problematica, poiché suonerebbe come una sconfitta – anche se tutti sanno che in realtà Kiev non entrerà mai nella NATO. E di ciò, peraltro, anche Mosca è consapevole. Già maggior rilevanza potrebbe avere una dichiarazione di neutralità con annesso disarmo sostanziale, da parte dell’Ucraina. E meglio ancora una rinuncia a schierare nuove armi e nuove truppe troppo a ridosso dei confini della Federazione Russa.
Ovviamente Mosca sa di non poter ottenere il 100%, ma non può permettersi di ottenere troppo poco, da nessun punto di vista. E sicuramente ci sono almeno due condizioni non negoziabili: qualsiasi clausola prevista deve essere effettivamente attuata, e ci deve essere una sorta di garanzia internazionale.
La leadership russa sa fin troppo bene che gli Stati Uniti sono sempre pronti a recedere unilateralmente dai patti sottoscritti, quando lo ritengono opportuno.
Considerato che una eventuale presidenza Trump si insedierà il 20 gennaio prossimo, e che una trattativa così complessa non potrà che prendere mesi, è estremamente improbabile che la guerra finisca prima di un anno.
Se tutto va bene per la nuova amministrazione, per l’estate-autunno del 2025 si potrebbe arrivare alla fine effettiva del conflitto, con la smilitarizzazione ucraina e la garanzia internazionale – ad esempio – di India e/o Brasile (Trump non darebbe mai questa opportunità alla Cina). Ma, trattandosi davvero della quadratura del cerchio, è assai più probabile che la strategia trumpiana ripieghi su un piano B, che si svilupperà su due binari: drastica riduzione degli aiuti militari a Kiev e veloce delega del sostegno agli europei, il che porterà, nel giro di un anno o poco più, alla fine del conflitto per semplice estinzione della capacità di combattimento ucraina, e della capacità europea di sostenere Kiev.
In entrambe i casi, le ripercussioni sull’Ucraina, sull’UE – e sui singoli paesi europei – nonché sulla NATO stessa, saranno considerevoli. Per un verso, la reazione delle forze nazionalista ucraine (pesantemente armate) è imprevedibile; per un altro, è chiaro che il contraccolpo politico sulle classi dirigenti europee sarebbe fortissimo, provocando uno smottamento forse decisivo che farà traballare l’Unione Europea, e probabilmente insinuerebbe delle linee di frattura interne alla NATO – e questo potrebbe essere un problema anche per Trump, che magari non ama molto la struttura attuale dell’Alleanza (che ritiene sbilanciata per quanto riguarda i costi), ma che è necessaria agli USA sia per mantenere la presa sull’Europa, sia per coinvolgerla nel contenimento (oggi) e nel conflitto (forse, domani) con la Cina [2].
La seconda sfida è quella mediorientale. Va qui tenuto conto che, nonostante la nuova amministrazione sarebbe certamente non meno filo-israeliana di quella attuale, questo conflitto non rientra negli interessi strategici degli Stati Uniti. Dal punto di vista di Washington rappresenta una sorta di deviazione indesiderata dalla propria road map; non per una qualche simpatia nei confronti della causa palestinese, comunque declinata, né tantomeno per una mancanza di avversione verso l’Asse della Resistenza (Iran in testa), quanto piuttosto perché costringe ad uno stop per occuparsene, perché aumenta l’impopolarità internazionale degli Stati Uniti, e soprattutto perché inevitabilmente destabilizza una regione sulla quale, al contrario, i piano statunitensi prevedevano esattamente la stabilizzazione (Accordi di Abramo). Come mostra chiaramente la vicenda yemenita, si tratta di un quadrante strategico in cui è estremamente facile, per gli avversari dell’egemonia americana, creare problemi enormi con pochissimo sforzo.
Ovviamente, Netanyahu è convinto di poter ottenere da Trump un sostegno ancora più deciso, ma questa probabilmente potrebbe rivelarsi una scommessa sbagliata. Il candidato vice-presidente Vance, anche lui filo-sionista sfegatato, sostenutissimo dalla lobby ebraica statunitense, ha infatti dichiarato che Israele dovrebbe concludere velocemente la guerra a Gaza. Peccato che questo non sia possibile (l’IDF ha recentemente parlato di una prospettiva quinquennale, per sconfiggere Hamas…), e sia comunque contrario agli interessi personali e politici di Netanyahu.
Sicuramente, e per più di una ragione, la politica mediorientale trumpiana sarà caratterizzata da un forte sostegno ad Israele ma, a differenza che durante l’attuale amministrazione, anche da una decisa pressione sul governo di Tel Aviv. Il che, in qualche modo, si potrebbe riassumere in una sorta di breve programma: vi daremo tutto il sostegno che occorre, se necessario vi daremo limitatamente una mano in modo diretto, ma dovete chiudere in fretta questa faccenda. Il che, come già detto, è praticamente impossibile, per varie ragioni.
Certamente Trump non vuole essere coinvolto in una guerra regionale con l’Iran, né con Libano e/o Siria. Il che però non toglie che potrebbe essere disponibile – ad esempio – ad attacchi mirati sul Libano meridionale o sulla Siria. Naturalmente il problema, in tal caso, sarebbe l’esposizione delle basi americane nella regione ad una possibile, e proporzionata, reazione. Per non parlare delle navi USA nel mar Rosso.
Si tratta in effetti di una situazione abbastanza tipica di equilibrio pericoloso. Nessuno dei due avversari (né gli USA né l’Asse della Resistenza) vuole arrivare allo scontro diretto, ed entrambi sono consapevoli di questo. In un certo senso, è come se due auto procedessero a gran velocità l’una contro l’altra: nessuno vuole lo schianto, ma entrambe puntano al fatto che sia l’avversario a sterzare per primo. Una guerra di nervi, insomma. E ovviamente, in questi caso, la cosa più sicura è non accendere proprio il motore dell’auto…
Per ottenere ciò che vuole, probabilmente Trump necessita di un cambio di governo a Tel Aviv, e per ottenerlo dovrebbe offrire una via d’uscita personale a Netanyahu. Ma ciò potrebbe non essere sufficiente, ed anche qui si tratta di trovare la quadratura del cerchio: mantenere in piedi Israele, senza che appaia sconfitta dalla Resistenza palestinese, e al tempo stesso evitare che gli equilibri regionali si modifichino troppo radicalmente. A questo punto, più che cercare di rivitalizzare gli Accordi di Abramo, probabilmente potrebbe essere più funzionale trovare un’altra seconda gamba per il controllo della regione. Tradizionalmente, infatti, gli USA hanno cercato di avere due alleati di ferro in Medio Oriente; inizialmente erano Israele e l’Iran dello Shah Reza Pahlevi, e dopo la rivoluzione khomeinista a questo è subentrata l’Arabia Saudita. Ora che questa, sotto la guida di Mohammad Bin Salman si sta sganciando, e si orienta verso il multipolarismo (BRICS+), diventa ancor più necessario avere un altro partner – anche per riequilibrare l’importanza di Israele.
Ciò potrebbe essere ottenuto, prendendo due piccioni con una fava, fermando progressivamente il conflitto a Gaza, avviando una poderosa ricostruzione finanziata dai paesi arabi del Golfo, e ponendo a garante di tutto l’Egitto (che andrebbe così a prendere il posto dell’Arabia). Anche se attualmente Il Cairo ha una posizione un po’ ambigua (come del resto la Turchia di Erdogan e la stessa Russia), saldamente filo-israeliana per un verso, ma anche che flirta con la Russia (ad esempio in Libia e Sudan), con un robusto apporto di finanziamenti (arabi, USA, FMI) potrebbe essere possibile ricondurlo all’ovile, e farne oltretutto un pretoriano statunitense, sia verso il Medio Oriente che verso l’Africa sub-sahariana.
Naturalmente con ciò il cerchio non diventerebbe quadrato, ma d’altro canto – non va dimenticato… – la prospettiva temporale di Trump è di soli quattro anni, non essendo rieleggibile una terza volta.
La terza sfida, infine, è quella cinese. Sicuramente, anche in questo caso, non verrà fatta alcuna accelerazione verso il conflitto con Pechino. Anzi, dalle prime dichiarazioni, sembrerebbe procedere in una direzione quasi opposta. Come riporta il Financial Times [3], infatti, Trump ha dichiarato che Taiwan dovrebbe pagare gli Stati Uniti, per le sue garanzie di difesa. Questo, a ben vedere, è un po’ il liet motiv del suo pensiero politico – è esattamente quello che sostanzialmente chiede ai paesi europei della NATO – e che pone gli USA non più nella posizione dell’egemone globale (ti proteggo perché sei un mio possedimento), quanto in quella di una sorta di agenzia di security globale (paga per avere la mia protezione).
Una posizione, questa, in linea con una certa pulsione isolazionista da sempre presente tra i repubblicani, e che a sua volta trova anche una sua giustificazione nella difficoltà della fase storica che sta attraversando l’imperialismo americano, ma che ovviamente non potrà che alimentare frizioni con gli alleati storici.
Il confronto con la Cina, pertanto, sarà probabilmente meno muscolare, ma non meno determinato. Il che farà certamente piacere a Pechino, che non ha alcun interesse nell’arrivare ad uno scontro militare, neanche con Taipei, ma che d’altro canto sa bene come questo appeasement sarà sostanzialmente di facciata, e che lo scontro è solo rimandato. In ogni caso, per continuare a sviluppare la costruzione di un cordone sanitario intorno alla Cina continentale, mettendo insieme Giappone, Corea del Sud, Filippine e Australia, alimentare la narrazione della minaccia cinese è fondamentale.
Quella di Pechino è comunque la sfida più facile, poiché in ogni caso non è destinata a giungere al punto di rottura nell’arco del mandato presidenziale del tycoon. E infatti proprio l’essere un conflitto ancora in fase fredda – diversamente dagli altri due, che sono caldissimi – è il principale vantaggio per Trump, in quanto lo mette al riparo dal fare mosse vistosamente sbagliate, mentre aumenta le sue possibilità di apparire – sul breve termine, almeno – come un pacificatore, un leader che affronta i problemi con decisione ma non con un arma in pugno.
A ben vedere, quindi, le tre grandi sfide che attendono Trump, se otterrà la presidenza, si presentano con un diverso grado di complessità, ma verranno affrontate con un approccio simile, fondamentalmente basato sul principio della suddivisione degli oneri con gli alleati, ma con la capitalizzazione degli onori.
Di là da quelli che sono – o saranno – gli orientamenti di una amministrazione Trump, e da quali saranno gli equilibri che si verranno a determinare tra questa e lo stato profondo (quello che pianifica strategie imperiali con una prospettiva quantomeno ventennale, e che necessariamente non possono subire scossoni fondamentali ad ogni trasloco alla Casa Bianca), l’elemento fondamentale della sua presidenza sarà la brevità del mandato. Quattro anni sono certo sufficienti per cercare, e magari trovare, soluzioni temporanee alle crisi più urgenti, ma di certo non consentono di affrontare in modo strategico l’intera complessità del quadro. Né è facilmente ipotizzabile che, in questo arco di tempo, si possano realizzare mutamenti tali da condizionare – in un modo o in un altro – i decenni a venire.
Sotto questo punto di vista, il secondo mandato trumpiano potrebbe risolversi in una parentesi, un semplice scartare momentaneo dalla rotta prestabilita. Magari è solo un caso, ma tutti coloro che ormai parlano apertamente di guerra con la Russia, fanno riferimento al 2029 come data d’inizio. Proprio l’anno, guarda caso, in cui comunque ci sarà qualcun altro nello Studio Ovale.
1 – Secondo Bloomberg, Trump sarebbe addirittura intenzionato a revocare, o comunque attenuare le sanzioni contro la Russia, appena insediato. Se così fosse, evidentemente le considera inefficaci come strumento di trattativa, e preferisce usarle come gesto di buona volontà, finalizzato a facilitare la riapertura dei contatti Washington-Mosca, e non soltanto sulla questione ucraina. Questo gesto però non mancherà di mettere in imbarazzo gli europei.
2 – Va detto anche che, nell’ipotesi che una eventuale trattativa di pace sembri avviarsi verso il successo, aumentano le possibilità che alcuni settori che non la vedono di buon occhio (UK, pezzi dell’establishment politico-militare ucraino, alcuni paesi NATO orientali…), possano a quel punto decidere di fare una qualche contromossa, capace di far saltare il tavolo delle trattative, e magari anche di innescare un allargamento-inasprimento del conflitto.
Ugualmente, se Mosca non dovesse vedere spiragli di trattativa credibili ed interessanti, potrebbe decidere di imporre una accelerazione della guerra, e puntare ad una capitolazione totale ucraina, imposta manu militari sul campo di battaglia.
3 – Cfr. “Donald Trump calls for Taiwan to ‘pay’ for its own defence”, Financial Times