A chi interessa la verità?
di Francesco Lamendola - 22/08/2018
Fonte: Accademia nuova Italia
È opinione abbastanza diffusa che, per svolgere una riflessione appropriata sulla questione del relativismo contemporaneo, sia necessario essenzialmente determinare cosa si intenda per verità. Questo, però, a nostro avviso, significa già porsi in una prospettiva relativista: perché chiedersi cosa sia la verità significa suggerire, implicitamente, che la verità sia tale in base a una definizione, il che implica, inevitabilmente, che si facciano avanti svariate definizioni, e quindi molteplici verità. La domanda essenziale, a nostro avviso, non deve essere cosa sia la verità, perché la verità si può definire, ma non la si può giustificare, così come non si possono giustificare i postulati della geometria, sui quali però si basa tutto il discorso della geometria. La verità è la corrispondenza fra la cosa e il giudizio: la vecchia definizione di san Tommaso d’Aquino basta e avanza, e non c’è pirandellismo che tenga. Dopo di che, si tratta di non cadere nella trappola delle interpretazioni, perché nel momento in cui si vuol non solo definire ma anche giustificare la verità, necessariamente si fa una operazione ermeneutica, il che apre la porta, ipso facto, al relativismo: equivale infatti ad ammettere che sono possibili contemporaneamente diverse verità. La verità, invece, per definizione, è una, o non è: e tutti quelli che sostengono di avere la loro verità, non sanno letteralmente quel che dicono, perché, se lo sapessero, non si renderebbero ridicoli con una affermazione così palesemente priva di senso. Questo però significa andare contro tutto ciò che la cultura moderna ci ha sempre ripetuto e martellato nella testa: ossia che bisogna diffidare di chi dice di sapere cosa sia la verità. Fra Gesù Cristo, che dice di essere venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità, e Ponzio Pilato, che gli replica chiedendo cosa sia la verità, gli uomini moderni stanno istintivamente dalla parte di Ponzio Pilato (anche se magari, a parole, si definiscono cristiani, e tali credono di essere), perché questa diffidenza nei confronti della verità è diventata parte del loro Dna intellettuale, anzi, emozionale. Sentir parlare della verità, specialmente dopo i tre grandi maestri del sospetto, Marx, Nietzsche e Freud, provoca alla maggior parte delle persone, specialmente quelle semicolte e che si credono particolarmente sapienti e informate, una reazione che somiglia molto ai riflessi condizionati di Pavlov: vedono rosso, schiumano, digrignano i denti e si preparano ad attaccare e azzannare l’impostore, ossia il ribaldo, certamente malintenzionato, che afferma di sapere cos’è la verità, o che si comporta come se lo sapesse.
La vera domanda, pertanto, a nostro parere, non deve essere: che cos’è la verità?, perché il solo fatto di porsela implica il fatto di non crederla possibile. Per avere le risposte giuste, bisogna sapersi fare le domande giuste: e che cos’è la verità non è una domanda giusta, perché non è una domanda intelligente; chi la fa, la fa in mala fede. La domanda essenziale deve essere, piuttosto: a chi interessa la verità?, perché solo se esiste qualcuno che abbia a cuore la verità, il discorso sulla verità diventa un discorso positivo, razionale e dotato di senso; diversamente, è solo un esercizio di retorica e una perdita di tempo. Anche questa domanda, tuttavia, equivale a uno scontro frontale con la cultura oggi dominante: perché è un dogma del politicamente corretto credere e professare che la verità importi a tutti, che tutti la desiderino, che tutti la cerchino. E invece è proprio qui che si annida il marcio, come direbbe Amleto (c’è del marcio in Danimarca), perché Shakespeare, dietro i fronzoli di un teatro rinascimentale che tende al barocco, è uno che sa andare dritto al cuore delle cose. Il desiderio della verità è, sì, una tendenza latente nella maggior parte degli uomini; però, come tutte le cose, deve essere costantemente coltivato, sostenuto, incoraggiato, altrimenti appassisce e muore. Esso implica, infatti, per sua natura, una tensione, e quindi uno sforzo. È una tendenza contemporaneamente naturale e innaturale: naturale, perché tutti, o quasi tutti, ne sentono istintivamente il bisogno, dato che senza di essa si sprofonda in un mondo caotico, fatto di apparenze e di menzogne; innaturale, perché è più naturale sedersi, riposarsi e possibilmente addormentarsi su qualche verità di comodo, senza andar tanto a scavare per giungere fino alla verità vera: quella che giace al fondo. E la maggioranza delle persone non ama la fatica, meno ancora i sacrifici o i pericoli; la maggioranza delle persone ama la vita comoda, senza crearsi tanti problemi laddove ciò non sia assolutamente indispensabile.
Giungiamo perciò a una prima, significativa conclusione, che è ben diversa da ciò che dice e ripete la cultura dominante: la maggior parte delle persone non desidera la verità, se la verità richiede sforzi e sacrifici; preferisce vivere in uno stato d’ignoranza che equivale alla menzogna, perché non riflette la corrispondenza fra la cosa e il giudizio. Però, nello stesso tempo, la quasi totalità delle persone si picca di essere amante della verità, e pretende di fondare su di essa la propria vita: chi non si vanta di essere una persona vera, una persona autentica? Questo è un altro aspetto tipico della società moderna: la finzione generalizzata che vi sia un amore universale per la verità. È una menzogna così capillarmente diffusa, che tentare di denunciarla equivale a esporsi alla lapidazione; e tuttavia è necessario farlo, perché l’amore della verità è fatto in primo luogo dalla testimonianza, e ciò che distingue il vero dal falso amore è la disponibilità a soffrire per guadagnarsi il diritto di esistere. Chi non è disposto a farsi lapidare per amore della verità, non crede nella verità; e se non ci crede, è meglio che smetta di parlarne e si occupi di qualcos’altro. Ora, il fatto che la pigrizia e la viltà istintive degli esseri umani tendano ad allontanarli dalla verità, perché la verità implica sforzo e sacrificio, determina una prima scrematura fra quanti sono degni della verità e quanti non lo sono. La verità bisogna meritarla: non basta dire di desiderarla, bisogna mostrarlo con i fatti. E i fatti sono che chi cerca davvero la verità, si crea ovunque dei nemici, mentre chi finge soltanto di cercarla, si fa un gran numero di amici. La cultura moderna è quindi in se stessa una cultura menzognera, perché è stata pensata ed instaurata dai philosophes e dai loro successori, i quali non sono mai stati, e non sono neppure oggi, degli amanti della verità, bensì degli amanti di quello status che viene assicurato a quanti accarezzano l’ipocrisia generalizzata, secondo la quale tutti amerebbero la verità, perché ciò li rende apprezzati e popolari e convoglia su di essi le simpatie e l’ammirazione dell’uomo comune, il mezzo sapiente e il semi-cosciente, cioè l’ignorante inconsapevole che però non sa di essere tale. Ma affinché non procediamo troppo chiuso, come direbbe Dante, proviamo a scendere su un terreno più pratico, per meglio rendere l’idea. La società moderna apprezza quegli intellettuali che dicono di amare la verità, e dicono che tutti la amano, però, di fatto, si limitano a denunciare la congiura contro la verità, e danno a intendere che tutti gli uomini, se fosse per loro, la cercherebbero e la vorrebbero, però, poverini, ne sono espropriati da una serie di circostanze esterne che sfuggono alla loro volontà, e che devono pertanto subire. In questo modo, i nemici della verità si spostano all’esterno, sono sempre gli altri; ma ciascuno, quanto a se stesso, riceve la patente di amante della verità, e ciò lo fa sentire nobile e giusto, e accende in lui, per contro, una sacra indignazione contro quei malvagi che gli sottraggono la verità e che vanificano il suo desiderio di essa. Molto semplice e molto ben pensato: la formula ideale per essere popolari, passando per intrepidi paladini della verità, mentre si è soltanto dei parassiti che vivono sfruttando l’ipocrisia generalizzata. Qualche nome? Ma sarebbero legione; tuttavia, se proprio dobbiamo farne uno, ecco, ci sembra che Umberto Eco li compendi tutti a meraviglia: il classico pseudo intellettuale (pseudo filosofo, pseudo sociologo, pseudo romanziere, eccetera) che ha scritto decine e decine di libri per non dire assolutamente nulla, ma facendo credere a tutti di aver detto grandi cose, e, soprattutto, di aver demistificato i bugiardi, il che è pur sempre un utile contributo, sebbene indiretto, alla sacra battaglia in difesa della verità. Eppure tutta la sua opera è un’unica, sfrontata bugia: nascondendosi dietro il dito che la verità è relativa, ha dato un contributo notevole al trionfo della menzogna sulla verità. Eppure, chi più di lui si è scagliato con sacra indignazione contro maghi, ciarlatani, complottisti, esoteristi e imbroglioni d’ogni sorta? È tipico del philosophe di matrice illuminista: se la prende sempre con un avversario visibile, ma debole; e mentre sta dalla parte dei poteri forti, assume però l’aria intrepida del coraggioso campione della verità. Un altro esempio è il fotografo Oliviero Toscani. Chi più di lui si è speso a favore di una società multietnica, multiculturale, aperta, tollerante, solidale? I suoi modelli di ogni età, di ogni razza e di ogni sesso (chi vuol capire, capisca) hanno educato, si fa per dire, le ultime due generazioni d’italioti. Ma è facile portare avanti quel discorso, quando si è pagati dai Benetton e si ha l’attico a New York.
Una seconda conclusione a cui giungiamo logicamente è che, se la tendenza alla pigrizia è, negli uomini, più forte dell’impulso verso la verità, è pressoché scontato che il sistema dominante, qualunque esso sia e qualunque sia la veste che indossa, fa di tutto per incoraggiare la pigrizia e per scoraggiare la ricerca, o anche solo il desiderio, della verità. L’ideale, per esso, sarebbe riuscire a spegnere addirittura il bisogno di verità che giace nelle pieghe più profonde dell’anima. Riuscire a trasformare egli esseri umani in un gregge di pecore, nelle quali non vi siano altro che pulsioni e funzioni animalesche, e, su tutto, la brama di soddisfare sempre nuovi capricci, in modo da tenerle occupate in tale utile esercizio (utile per il potere, non per esse), e tenerle, così, lontane dalla pericolosa tentazione di amare e cercare la verità: questo è l’obiettivo di massima perseguito da chi esercita un controllo sulla società e sulla cultura. Nel caso della società dei nostri giorni, non occorre andare tanto lontani per individuare questo soggetto: è la grande finanza internazionale, che si è impadronita di tutti i mezzi d’informazione e che controlla, direttamente o indirettamente, anche la scuola e l’università. Ma chi possiede tutti i mezzi, controlla anche i fini, diceva l’economista Fridrich von Hajek: ed è precisamente quello che sta accadendo. Il gregge di pecore crede di essere libero, e ciascun animale del branco proclama a gran voce di fare quel che gli pare, senza subire alcun condizionamento; mentre la verità (ecco la verità che si prende la sua vendetta su quanti la disprezzano!) è che ciascuno fa esattamene quel che il potere vuole che faccia, ciascuno sta recitando il proprio copione e non sgarra di un centimetro né di qua, né di là: se stesse seguendo degli ordini espliciti, forse ogni tanto esiterebbe, si mostrerebbe restio o recalcitrante; ma poiché gli ordini sono impliciti, li esegue al millimetro. E l’amara pillola della schiavitù è stata zuccherata così bene, fa tutto di buona voglia, senza protestare, anzi, con il massimo entusiasmo ancora possibile a degli zombie vacillanti, quali sono i membri di questa post-umanità decerebrata e totalmente manipolata. Di nuovo, c’è bisogno di un esempio? Fra i mille, prendiamo il caso del signore argentino che siede, indegnamente, sulla cattedra di san Pietro. Chiunque possieda ancora un barlume di raziocinio, si deve essere accorto di chi egli sia realmente, quali le sue intenzioni e cosa stia facendo sin dal primo istante della sua (dubbia) elezione, cioè distruggere la dottrina, la morale e la Chiesa cattolica in quanto tale. Di quali altre enormità, eresie e bestemmie c’è ancora bisogno, perché i cattolici, se ve ne sono ancora, capiscano di aver a che fare con una neochiesa eretica e perfidamente impegnata a trascinare anche i fedeli nella sua stessa apostasia? Eppure, la popolarità di quel signore è tuttora notevole; moltissime persone stravedono per lui, e neppure se si dimostra loro, citando le sue frasi, le sue interviste, le sue omelie e i suoi documenti “magisteriali” che si è radicalmente e volutamente allontanato dalla vera fede cattolica, sarebbero disposte a ricredersi. Ecco, il problema è questo: che le persone non sono disposte a credere alla verità, neppure se viene loro servita su un piatto d’argento; preferiscono accontentarsi delle loro verità, cioè delle menzogne nelle quali vivono sprofondate. Sono come dei dormienti, dei sonnambuli che non vogliono essere destati: se qualcuno li sveglia, s’infuriano contro il disturbatore della loro quiete.
A questo punto, che fare? Vale la pena di parlare della verità, in un clima culturale di questo tipo? Secondo noi, sì: ne vale sempre la pena. Ne va della nostra umanità: rinunciare alla tensione verso la verità significa regredire al livello delle bestie. La lapidazione è un prezzo accettabile per poter conservare lo status di esseri umani. Ed eccoci alla terza conclusione: il sistema della menzogna organizzata fa le pentole, ma non i coperchi. È possibile guardare quel che bolle in pentola e vedere la menzogna; di conseguenza è possibile riscuotersi, e rifiutarla, e tornare verso la verità. La verità si lascia trovare da chi la cerca con umiltà e con spirito di sacrificio, ma si nega ai superbi e ai fanfaroni. Perciò si pone come un segno di contraddizione: in una società che tende a selezionare i peggiori, e affida loro i ruoli dirigenti, la verità è amata e cercata da pochi; d’altra parte, son sempre stati i pochi, però fortemente motivati, a indirizzare la società nel suo insieme. Dieci persone che amano la verità e che son disposte a testimoniarla, pesano più di dieci milioni di pecore ipnotizzate, che brucano e ruminano l’erba stupidamente, paghe della loro esistenza etero-diretta, che credono autentica e verace. Martire in greco significa testimone. Fin dove si deve testimoniare la verità, fino al martirio? Forse; se non in senso fisico, in senso morale. E sia: quando mai le cose buone e belle si ottengono gratis? La verità è esigente: non si concede al primo che passa, ma vuole dei testimoni…