A cosa servono i poeti?
di Alessandro Sansoni - 25/03/2021
Fonte: Incursioni
“A cosa servono i poeti?”. Questa domanda, che oggi ha il sapore di un interrogativo adolescenziale che uno studente di liceo potrebbe porre all’insegnante di lettere o durante una chiacchierata tra amici, Martin Heidegger la riteneva così essenziale da farne il titolo di un suo testo fondamentale, non a caso scritto nel 1946, e confluito poi nella raccolta intitolata Sentieri interrotti (o erranti, a seconda del traduttore di Holzwege), quella della svolta (Kehre) con cui il filosofo tedesco si apprestava a sfidare, accompagnato dai versi di Rainer Maria Rilke e, soprattutto, di Hoelderlin, la crisi della metafisica occidentale e il diffondersi del nichilismo.
Naturalmente “i poeti” cui si riferiva il grande pensatore non è chiunque si diletti a verseggiare, in rima o liberamente, ma quelli in grado di esplorare, con la forza delle proprie parole, le profondità del linguaggio, inteso come luogo dell’Essere, e di arrischiarsi fino al punto di squarciare per un attimo il velo che copre il mondo, ponendo il lettore (o l’uditore) sulle tracce di quegli dei che lo hanno ormai abbandonato.
Insomma, Heidegger intende quella particolare e rarissima categoria di poeti che egli chiama dettatori e che, con la forza delle immagini che rappresentano attraverso le parole, ordinano l’universo, perché in fondo lo pensano.
E in effetti sono costoro che danno origine alle civiltà: da Omero sgorga la tradizione europea, Virgilio formalizza la latinitas, Goethe fonda la nazione tedesca moderna e l’elenco potrebbe continuare, ma i dettatori non svolgono una mera funzione politica, agendo con la forza del loro dettare sui popoli che utilizzano la loro stessa lingua, costruiscono addirittura vere e proprie cosmogonie dal valore universale: dis-velano la Luce e la Verità.
E l’interrogativo heideggeriano, con i complessi significati che dischiude, ci trascina inevitabilmente a riflettere su Dante Alighieri, forse il più consapevole tra i dettatori della potenza della sua Arte.
Dante codifica una Lingua, concepisce una Nazione, definisce un’Assiologia, legittima un’Ideologia (quella imperiale), cesella un Capolavoro artistico, ma soprattutto conduce sé stesso, e noi con lui, all’incontro con ciò che è primigenio. Non è un caso che l’intera impalcatura teologica della Chiesa Cattolica negli ultimi settecento anni, sia nel confronto tra i sapienti, sia nella rappresentazione popolare dell’Aldilà, non abbia potuto prescindere da quanto racchiuso nella Divina Commedia.
Quello che ci racconta Dante, in migliaia di endecasillabi in terzine incatenate, è un vero e proprio Pellegrinaggio, come ben comprende chi abbia intrapreso un’impresa del genere e abbia al tempo stesso riflettuto sul fatto che, alla fatica e al progressivo rafforzamento fisico e biologico che un cammino condotto a piedi nel corso dei giorni e delle settimane produce, corrisponde una lenta ma inesorabile trasformazione e progressione spirituale. Un viaggio interiore, che dalla ricerca e dall’adagiarsi nei ricordi più lussuriosi e peccaminosi volti ad alleggerire la sofferenza degli sforzi dei primi giorni di marcia, conduce lentamente, man mano che il fisico si allena e acquista vigore, prima a una più meditata riflessione intellettuale sulle cose del mondo e poi alla ricerca del senso autentico, trascendente, mistico a cui deve condurre alla fine l’itinerario intrapreso: l’apertura dello sguardo sull’Ineffabile.
A questo innanzitutto “servono i Poeti” e tanto più oggi, mentre, come dice Agamben, la casa brucia, le nostre certezze crollano e la preoccupazione per la pandemia e le misure prese per contrastarla sembrano volerci ridurre alla nostra sola matrice biologica, la cui salvaguardia medicale dovrebbe essere l’unico fine delle nostre azioni. Come se la Vita non fosse molto altro, non fosse innanzitutto Rischio (più o meno grande) per cogliere ciò che di Bello c’è nel mondo.
Un mondo divenuto indigente, per dirla ancora con Heidegger, proprio perché gli dèi e il Dio sono fuggiti, proprio perché tutto sembra ridursi alla paura e all’assurdità di voler scansare ad ogni costo la morte incombente: come se la Morte non incombesse sempre su di noi, essendo consustanziale alla Vita, completandola.
Insomma, ricordando Dante nei settecento anni dalla sua scomparsa, avvertiamo l’assenza dei dettatori e comprendiamo che ne avremmo bisogno, se non proprio perché vorremmo seguire le loro tracce in un’epoca così indigente da non essere più in grado nemmeno di notare la mancanza di Dio come mancanza, almeno per rendercela più sopportabile e meno spaesante, esteticamente gradevole, con un po’ di smalto sul nulla.