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A Donald Trump seve una pace

di Enrico Tomaselli - 17/02/2025

A Donald Trump seve una pace

Fonte: Giubbe rosse

“Se vuoi avere successo, devi proiettare un'immagine di successo”
(da ‘American beauty’, 1999)

La rivoluzione trumpiana è appena all’inizio ma, com’era del resto prevedibile, è tutt’altro che facile, e soprattutto tutt’altro che veloce. Come ogni cambiamento radicale che si rispetti, adotta un linguaggio a volte brutale - il che però non è sempre la cosa migliore da fare, soprattutto per quel che riguarda le relazioni internazionali - è questo ovviamente inasprisce le tensioni.
Questa rivoluzione è innanzitutto una risposta endogena delle oligarchie statunitensi alla crisi del sistema di dominio americano, e quindi il suo primo obiettivo è rimettere in forze questo sistema, affinché possa affrontare - in un futuro prossimo - le sfide sistemiche all’egemonia degli Stati Uniti.
Ovviamente questo processo scuote fortemente l’intera architettura occidentale, cioè del sistema reticolare che per quasi un secolo ha regolato i rapporti tra centro (imperiale) e periferia (stati vassalli), anche perché i tempi sono ristretti, e quindi l’accelerazione produce scosse. E lo si sta vedendo nella crisi che si sta producendo tra le due coste dell’Atlantico. Ma queste scosse non fanno parte di un processo di disgregazione dell’occidente, quanto piuttosto di un suo riassestamento. Probabilmente le attuali leadership europee sono troppo compromesse col vecchio mondo, e alla fine dovranno essere sostituite; ma - appunto - si tratterà di una sostituzione operata da Washington, non di una rivolta delle colonie europee. L’urgenza di trarre fuori la NATO dall’impiccio ucraino, non è semplicemente dovuta all’esigenza di sottrarsi all’ennesima sconfitta militare americana (gli USA non vincono una guerra dal 1945...), ma risponde anche alla necessità di impedire che una vittoria della Russia travolga non solo le élite politiche europee, ma il sistema su cui si reggono. Riportare brutalmente all’ordine i vassalli europei, imponendo la legge del più forte, è funzionale a difendere il sistema del vassallaggio, a tenere l’Europa all’interno del sistema imperiale americano.
Tutto ciò, per affermarsi, ha bisogno non solo che le cose si muovano in fretta (perché il tempo lavora a favore dei nemici dell’impero), ma di impedire che le resistenze - interne ed esterne - al cambiamento, possano raggiungere una soglia critica.
Tutti i mutamenti sostanziali che il trumpismo prefigura e promette, hanno bisogno di tempo per concretizzarsi, è quindi chiaro che necessita di ottenere successi simbolici di grande effetto, sul breve termine.
La grande scommessa del nuovo corso statunitense è quella di rimettere al centro lo scontro con la Cina, e quindi di riorientare le risorse in funzione di questo. Ma per fare ciò deve dividere il fronte nemico; impedire la saldatura tra Russia e Cina (e tra queste e Iran e Corea del Nord) serve non solo ad isolare Pechino, ma anche a liberare risorse economiche e militari, disimpegnandole da fronti secondari. La pace in Ucraina, quindi, è sì innanzitutto un modo per cercare di attutire l’impatto di una sconfitta, ma anche una occasione per provare ad insinuare un cuneo tra i due giganti euroasiatici. E, se il focus si sposta verso il Pacifico, anche grazie ad una qualche forma di appeasement con la Russia, è chiaro che l’Europa perde importanza, non è più la frontiera principale dell’impero, ma soltanto una vasta provincia da saccheggiare.
La grande scommessa di Trump - porre fine alla guerra in Ucraina, con tutto quel che ne consegue - si sta però rivelando assai più complicata di quanto immaginassero a Washington. Se prima del voto millantava una sua capacità di chiuderla in 24 ore, nel giro di un mese dal suo insediamento siamo via via scivolati alla prospettiva di un anno. E non è detto che si concluda nei termini auspicati. Diventa insomma sempre più chiaro che non sarà da Kiev che verrà quel successo simbolico di cui la rivoluzione trumpiana necessita.
D’altro canto, la politica del divide et impera si fonda sulle profferte di pace, non sulla guerra. E, oltretutto, gli Stati Uniti hanno bisogno di rimodellare la propria macchina bellica, e per farlo devono concentrare le risorse, senza più disperderle in guerre periferiche, prive di valore strategico. Il successo simbolico, quindi, potrebbe inaspettatamente arrivare dal Medio Oriente.
Esattamente come l’Europa, anche questa regione non ha più l’importanza di una volta, ed è divenuta a sua volta periferica rispetto al baricentro strategico statunitense. Ferma restando la garanzia all’esistenza di Israele, è chiaro che anche qui si rende necessario un ridisegno delle relazioni centro-periferia; e anche se la lobby ebraica americana è assai potente, la sua relazione con Tel Aviv è preminentemente affettiva, mentre gli interessi dei grandi oligarchi ebrei americani sono negli Stati Uniti, e si identificano con essi. Quindi porre fine al conflitto israelo-palestinese (sia pure temporaneamente), non solo potrebbe offrire quel successo simbolico di cui Trump abbisogna, ma potrebbe anche servire a molto altro (riduzione della presenza militare nella regione, riduzione degli aiuti allo stato ebraico, ridimensionamento della sua influenza sulla politica USA...).
Indubbiamente Washington dispone di leve ben più potenti in Medio Oriente, che non in Ucraina, per determinare l’esito del conflitto. Qui, infatti, non ha di fronte a sé una potenza come la Russia, non solo ben determinata a difendere i propri interessi strategici, ma anche vincente sul campo di battaglia. Diametralmente opposta è la situazione mediorientale, dove Israele (che la guerra l’ha persa) è semmai equiparabile all’Ucraina, poiché esattamente come questa è completamente dipendente dal sostegno statunitense. Se vuole, quindi, è in grado di esercitare il suo potere, e costringere Tel Aviv ad una tregua prolungata, magari anche offrendo in cambio una ripresa delle buone relazioni con alcuni paesi arabi (Accordi di Abramo). Per certi versi, portare (apparentemente) la pace in Terra Santa avrebbe un impatto simbolico molto più forte che altrove. Dietro la cortina fumogena (pulizia etnica a Gaza) si sta forse cercando di depotenziare le ragioni di un conflitto quasi secolare. Che poi l’operazione riesca davvero, è tutta un’altra faccenda.