Abolire il CNEL?
di Luca Mancini - 15/11/2016
Fonte: Appelloalpopolo
Uno dei punti meno discussi dell’attuale riforma costituzionale è quello riguardante l’abolizione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, meglio noto come CNEL. Esso è un organo della Repubblica Italiana, previsto dall’articolo 99 della Costituzione che recita: “Il consiglio nazionale dell’economia e del lavoro è composto, nei modi stabiliti dalla legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa. È organo di consulenza delle Camere e del Governo per le materie e secondo le funzioni che gli sono attribuite dalla legge. Ha l’iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge.”
Il CNEL, sconosciuto a molti italiani, ha fondamentalmente due funzioni: esprime pareri e ha la fondamentale facoltà di promuovere iniziative legislative riguardo i campi che gli competono. I pareri vengono forniti solo su richiesta del Governo, delle Camere o delle Regioni e anche se forniti non risultano vincolanti. L’iniziativa legislativa, invece, riguarda esclusivamente il campo della legislazione economica e sociale, fatta eccezione per le leggi tributarie e di bilancio. Tuttavia la genialità del CNEL sta nella sua composizione: esso è composto da un Presidente, nominato direttamente dal Presidente della Repubblica; dieci esperti, esponenti della cultura economica, sociale e giuridica; sei rappresentanti delle associazioni di promozione sociale e, soprattutto, quarantotto rappresentanti delle categorie produttive sia del settore pubblico che di quello privato. Questi ultimi sono ulteriormente divisi in: ventidue rappresentanti dei lavoratori dipendenti, nove rappresentanti dei lavoratori autonomi e delle professioni e diciassette rappresentanti delle imprese. Pertanto all’interno del CNEL si trovano faccia a faccia i rappresentanti dei lavoratori e quelli degli imprenditori, i quali hanno il compito di collaborare, invece che di combattersi e trovare degli accordi per il bene della Nazione e dello Stato. Lo si può definire un luogo di concertazione, dove si cerca di superare, magari solo temporaneamente, la dicotomica lotta di classe. Quest’organo nasce dall’esigenza, fortemente sentita dai nostri padri costituenti, di dare uno sbocco istituzionale alle masse lavoratrici. Esso costituisce il tentativo di includerle nel nuovo sistema repubblicano, al fine di non farle sentire nuovamente escluse, come era già successo nella storia d’Italia evitando così l’acuirsi della conflittualità sociale, che avrebbe solamente minato il tessuto produttivo della nazione. Nella loro ottica il CNEL poteva costituire un tentativo di assorbimento di alcune istanze della lotta di classe in seno alle istituzioni statali. Tale idea del superamento del conflitto di classe ha origini antiche: la troviamo già espressamente citata nell’enciclica Rerum Novarum (1891) di Papa Leone XIII, che costituisce la base della dottrina sociale della Chiesa cattolica e che, sicuramente, l’ala riformatrice della Democrazia Cristiana conosceva benissimo. In essa, il pontefice auspicava che fra le parti sociali potesse nascere armonia e accordo, mentre per la difesa dei diritti dei lavoratori propone sia associazioni di soli operai, sia miste di operai e datori di lavoro, ossia delle corporazioni: “Nella presente questione, lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra; quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile; cosa tanto contraria alla ragione e alla verità. Invece è verissimo che, come nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento che si chiama simmetria, così la natura volle che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra: né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie”.
La medesima idea era stata uno dei cardini della politica economica fascista. Mussolini stesso affermò più volte: “Il fascismo o è corporativo o non è fascismo”, proprio per rimarcare la netta differenza con il capitalismo e il comunismo per ciò che riguarda la dottrina economica e sociale. Infatti, nel 1930 venne inaugurato il Consiglio Nazionale delle Corporazioni. In esso erano presenti i presidenti delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali e i rappresentanti delle medesime, oltre che svariati membri del governo e un discreto numero di esperti di diritto ed economia corporativa. Esso non possedeva l’iniziativa legislativa come il CNEL, ma aveva un mero ruolo consultivo, ossia poteva formulare pareri su qualsiasi questione che interessasse la produzione nazionale e, in particolar modo, sulle proposte di legge riguardanti la disciplina della produzione e del lavoro, perciò in quest’ottica era un organo più debole del CNEL. Il potere legislativo per le corporazioni giunse solo nel 1939, quando la Camera dei Deputati venne trasformata in Camera dei Fasci e delle Corporazioni della quale, come suggerisce il nome, facevano parte i componenti del Consiglio Nazionale delle Corporazioni, oltre che i membri del Gran Consiglio e del Consiglio Nazionale del PNF. Persino nell’Italia liberale pre-fascista, che di certo non brillava per la partecipazione delle masse popolari e lavoratrici alla politica del Paese (basti pensare che le prime elezioni a suffragio universale maschile si tennero nel 1919), esisteva un organo simile: il Consiglio Superiore del Lavoro. Esso venne istituito nel 1902 e fu attivo dall’anno successivo. Era un organo meramente consultivo per ciò che riguarda la legislazione sociale ed era stato fortemente voluto dal primo ministro Giuseppe Zanardelli e dal suo successore Giovanni Giolitti. Non possedeva l’iniziativa legislativa e perciò il suo potere era fortemente limitato, tuttavia esso costituiva sempre un piccolo sbocco istituzionale per le masse lavoratrici del Paese e questo, per l’Italia liberale di inizio secolo, costituiva sicuramente un risultato considerevole.
Nell’attuale campagna referendaria del CNEL si parla veramente troppo poco. Ne parlano perlopiù coloro che sono favorevoli alla sua abolizione, additandolo come uno dei grandi mali del Paese, in quanto sarebbe un inutile sperpero di denaro pubblico. Forse il CNEL non ha funzionato come avrebbe dovuto e guardando alla storia della cosiddetta prima repubblica si comprende come i luoghi di concertazione siano diventati altri. Tuttavia il dato allarmante è un altro: la manifesta volontà politica di abolire definitivamente un luogo dove i lavoratori, dipendenti e autonomi, vengono rappresentati in quanto tali. Per la dottrina liberista, che mira a far sì che tutti i rapporti vengano regolati dal libero mercato senza intermediari di nessun tipo, un qualsiasi rappresentante intermedio dei lavoratori come soggetto collettivo costituisce indubbiamente un problema e perciò va spazzato via. Oggi gli spazi di ascolto delle necessità dei lavoratori sono ridotti al minimo, ammesso che possa essere considerato lavoratore chi lavora saltuariamente durante l’anno, con pochissimi diritti e in condizioni precarie. La conflittualità sociale è in costante aumento e sarebbe sufficiente aprire un qualsiasi libro di storia per capire che questo non è un bene, soprattutto per chi si ostina a difendere e a rendere più efficiente questo folle sistema.