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Affrontare il mondialismo (I parte)

di Alain de Benoist - 20/07/2021

Affrontare il mondialismo (I parte)

Fonte: GRECE Italia

Oggi tutti parlano di mondialismo, un fenomeno importante del nostro tempo a cui diamo ancora più importanza perché generalmente lo consideriamo irreversibile. Questo fenomeno sembra infatti imporsi come un movimento di trasformazione del mondo sul quale nessuno ha più controllo. Un maremoto, in un certo senso, irreversibile sull’orizzonte di almeno diverse generazioni. Gli anglosassoni preferiscono parlare di «globalizzazione». Non è senza interesse sapere che questa nozione di globalizzazione è stata messa in circolazione dall’altra parte dell’Atlantico da strateghi del marketing di massa che, a partire dagli anni ’80 del 900, hanno iniziato a parlare di «prodotto globale» o di «comunicazione globale» , alludendo così al principio secondo cui la stessa merce deve, grazie appunto alla pubblicità, raggiungere il più rapidamente possibile il maggior numero possibile di potenziali clienti, non adattandosi a culture diverse, ma veicolando una cultura globale. Ma cosa dovremmo intendere per «globalizzazione»? Nonostante il gran numero di lavori recenti su questo argomento (1), il concetto rimane confuso. Per alcuni, la globalizzazione è soprattutto un fenomeno di superamento dello Stato nazionale; per altri, tale termine definisce un nuovo tipo di opposizione tra capitale e lavoro indotta dalla finanziarizzazione del capitale; o, addirittura, esprime una nuova scissione tra lavoro qualificato e non qualificato. Alcuni la vedono come l’irruzione nel commercio mondiale di nuovi attori del Sud del globo, contemporaneamente alla strategia di globalizzazione delle imprese multinazionali; altri pongono l’accento sull’espansione del commercio dovuta all’integrazione dei servizi nel commercio mondiale; ma anche al grande cambiamento determinato dalla rivoluzione informatica. Di cosa si tratta esattamente?
Penso che dobbiamo primariamente distinguere, da un lato, la globalizzazione culturale e, dall’altro, la globalizzazione economica e finanziaria. Sono due fenomeni che si sovrappongono in larga misura, ma che non vanno confusi tra loro. Una delle caratteristiche più evidenti della globalizzazione economica è l’esplosione degli scambi commerciali e dei flussi finanziari. Il commercio internazionale sta oggi crescendo più velocemente della produzione nazionale (PIL). Nel 1990, la quota del commercio internazionale rappresentava il 15% del PIL mondiale. In soli cinque anni, dal 1985 al 1990, le esportazioni mondiali sono aumentate del 13,9%. Il commercio di merci è raddoppiato tra il 1960 e il 1989, mentre i flussi di capitali sono quadruplicati. Allo stesso tempo, la natura dei flussi finanziari è cambiata: il continuo sviluppo degli investimenti diretti all’estero è stato accompagnato da un’esplosione di movimenti di capitali a breve termine. Questi investimenti diretti stanno aumentando anche più velocemente della ricchezza mondiale: il loro tasso di crescita annuale è passato dal 15% tra il 1970 e il 1985 al 28% tra il 1985 e il 1990, periodo durante il quale sono quadruplicati in volume, da 43 miliardi di dollari nel 1985 a 167 miliardi nel 1990. Stiamo quindi assistendo all’avvento di un’economia globale, con una quota crescente del PIL che dipende direttamente dal commercio estero e dai flussi di capitali internazionali. L’altra grande caratteristica è ovviamente quella rappresentata dal ruolo crescente dell’informatica e dell’elettronica. Riducendo il costo delle transazioni a lunga distanza e rendendo possibile conoscere in «tempo reale», ovunque nel mondo, le informazioni che contribuiscono alla formazione dei prezzi, cosa che prima richiedeva settimane affinché fossero conosciuti in pochi centri finanziari, le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione consentono ora una mobilità dei flussi finanziari senza precedenti. Il sole non tramonta più sulle borse interconnesse. Il capitale si muove alla velocità della luce, da un capo all’altro del globo, alla ricerca del miglior ritorno degli investimenti. Questa globalizzazione finanziaria è particolarmente importante: il mercato dei capitali è infatti l’unico in cui l’arbitrato istantaneo ha un senso. Grazie a questa mobilità istantanea resa possibile dall’interconnessione IT, le transazioni nel mercato forex sono cresciute enormemente. Adesso raggiungono i 1.200 miliardi di dollari al giorno! Queste somme provengono contemporaneamente dalle attività bancarie, dalle tesorerie delle imprese multinazionali, dalla massa del capitale flottante e dalle somme detenute dalle società finanziarie appositamente costituite per svolgere questo esercizio. Le fondamenta del sistema stanno nelle differenze di cambio che, da un giorno all’altro, e anche da un’ora all’altra, possono garantire notevoli guadagni di plusvalore, molto maggiori di quelli derivanti dalle attività industriali o commerciali classiche. In funzione dell’anticipazione dei tassi di scambio, l’informatizzazione consente l’immediato spostamento virtuale di grandi masse di capitali, che sfuggono quasi completamente alle banche centrali. Abbiamo giustamente parlato di «economia da casinò» per designare questo fenomeno. Il risultato è una sempre maggiore instabilità monetaria e una tendenza dei tassi di interesse ad allinearsi al rialzo con i migliori rendimenti assicurati dall’apprezzamento globale del capitale. Alcuni autori fanno cominciare la globalizzazione all’inizio degli anni ’70, segnata in particolare dal doppio shock petrolifero e dalla crisi del sistema dei cambi internazionali. È in questo periodo che abbiamo assistito al rallentamento della produttività e del tasso di crescita nei paesi industrializzati; a una graduale saturazione della domanda di beni di consumo durevoli classici, di cui il rinnovamento è diventato la componente principale; all’aumento del vincolo finanziario esterno; mentre l’abbandono dei tassi di cambio fissi e l’esplosione del deficit dei pagamenti americano portano alla proliferazione di prodotti finanziari puramente speculativi. Il processo è proseguito negli anni ’80, con l’esplosione del debito pubblico, che ha favorito lo sviluppo di un vasto mercato dei capitali, e soprattutto con l’ondata di deregolamentazione che, a partire dalla presidenza Reagan negli Stati Uniti, ha preso piede rapidamente in tutti i Paesi sviluppati. Gli Stati iniziano quindi a battere in ritirata di fronte al crescente potere dell’integrazione finanziaria adottando le «tre D» di decompartimentazione, disintermediazione e deregolamentazione, che, liberalizzando completamente il mercato dei capitali, consentono di realizzare arbitrati a livello globale e di aprire il mercato dei crediti dello Stato e delle grandi imprese a favore di operatori esteri. Allo stesso tempo, a cavallo degli anni Novanta, la scomparsa quasi improvvisa del sistema sovietico e l’improvvisa transizione dei paesi ex comunisti al sistema del capitalismo selvaggio hanno portato all’irruzione di 2,5 miliardi di persone in più sul mercato mondiale, diffondendo allo stesso tempo l’illusione di un pianeta unitario in cui ci sarebbe stato un solo blocco. Questa serie di eventi, tuttavia, deve essere collocata in una sequenza temporale molto più ampia. Lungi dal rappresentare una deviazione aberrante dal sistema capitalista, o da poter essere interpretata come una novità radicale, o addirittura come il risultato di una cospirazione, la globalizzazione è infatti in linea con una dinamica secolare propria della natura stessa del capitalismo. «La tendenza a creare un mercato mondiale è inclusa nel concetto stesso di capitale», osservava Karl Marx nel secolo scorso (2). Philippe Engelhard non ha torto a scrivere che «la globalizzazione è senza dubbio solo l’ultimo spettacolo pirotecnico nell’esplosione della modernità occidentale» (3). La globalizzazione è infatti il ​​culmine di tutta una serie di metamorfosi che hanno scandito, nel corso della sua storia, un’economia di mercato caratterizzata fin dall’inizio dall’apertura degli scambi in un clima di individualismo-universalismo basato sulla metafisica della soggettività e sulla valorizzazione del solo successo materiale. Inizia con lo sviluppo del commercio a lungo raggio, durante il periodo delle città-stato italiane, nel XIV secolo. È continuato con le «grandi scoperte» e la rivoluzione industriale, e poi con il colonialismo. Tra il 1860 e il 1873, l’Inghilterra era già riuscita a creare un nucleo del nuovo sistema commerciale mondiale. Nel luglio 1885, Jules Ferry dichiarò alla Camera dei deputati che «la fondazione di una colonia è la creazione di un mercato». Favorendo la disintegrazione delle culture e delle società tradizionali dell’Africa e dell’Asia, il colonialismo favorisce quindi la penetrazione dei prodotti occidentali e apre nuove postazioni commerciali, una pratica che non verrà abbandonata finché non avrà perso la sua redditività, cioè quando le colonie iniziano a costare più di quanto fruttino (4). L’istituzione del mercato è essa stessa storicamente inseparabile da un vasto movimento di internazionalizzazione del commercio. Nella teoria economica classica, come affermato nel XVIII secolo, la libera circolazione di beni e servizi dovrebbe già portare a un’equalizzazione dei sistemi produttivi e degli standard di vita. Il capitalismo appare così fin dall’inizio come nomade. Come nota Jacques Adda, la globalizzazione «restituisce al capitalismo solo la sua originaria vocazione transnazionale, piuttosto che internazionale, che è quella di abbattere i confini statali, le tradizioni nazionali, per meglio sottomettere tutto all’unica legge del valore» (5). Tuttavia, se è indiscutibile che la globalizzazione rappresenti per molti aspetti solo un’accelerazione improvvisa di un processo secolare, è altrettanto certo che presenta un certo numero di nuove caratteristiche, che si possono passare in rassegna rapidamente.
Oltre alla rivoluzione informatica, di cui ho già parlato, oltre al fatto che, nel commercio internazionale, sono ormai i manufatti a predominare sulle materie prime, occorre registrare lo straordinario guadagno di autonomia della sfera finanziaria in relazione alla produzione economica propriamente detta. La grande deregolamentazione del mercato azionario degli anni ’80 ha infatti consacrato l’avvento di un capitalismo che non è principalmente industriale, ma speculatore. L’offerta di moneta in circolazione nel mondo oggi è stimata in più di quindici volte il valore della produzione! Questa «bolla» finanziaria raccoglie fondi sia dall’economia privata che dall’economia pubblica e sociale, sia che si tratti della gestione del debito pubblico dello Stato che dei fondi pensione di anzianità. In modo del tutto naturale, impone una logica speculativa, persino criminale: droga e corruzione stanno diventando elementi strutturali del nuovo ordine economico. Un altro fatto nuovo: la mercificazione generalizzata. Le transazioni odierne riguardano settori che prima ne erano in larga misura escluse. La cultura, il mondo dell’arte, le competizioni sportive, i servizi, le risorse naturali, i prodotti di proprietà intellettuale vengono trasferiti al libero scambio. Il gioco del mercato opera nel senso di trasformare tutte le cose in beni economici. Ciò che entra nel sistema come un essere vivente ne esce come una merce, come un prodotto morto.
Ma soprattutto gli attori non sono più gli stessi. Ieri questi attori erano soprattutto gli Stati. Oggi, le multinazionali dominano gli investimenti e il commercio, mentre i mercati finanziari dettano le loro regole e le banche gestiscono un settore finanziario sempre più disconnesso dall’economia reale. Stiamo così passando da un mondo organizzato intorno agli Stati-nazione a una «economia-mondo» strutturata attorno ad attori globali. Questa è ovviamente una trasformazione essenziale. Alcuni decenni fa, gli Stati nazionali borghesi costituivano il naturale quadro politico e sociale per la gestione dei sistemi produttivi nazionali. Fondamentalmente, la concorrenza intercapitalista aveva luogo tra gli Stati. La caratteristica dominante del sistema capitalista era allora la sua territorializzazione, cioè il suo radicamento entro i limiti di una nazione industriale. Anche il mercato, seppur in espansione, era prevalentemente nazionale. Lo stesso valeva anche per le imprese con società controllate all’estero dove la centralità strategica rimaneva situata nel Paese di riferimento della società guida di tale gruppo. Economia e politica coincidevano quindi in termini generali, da qui l’importanza della politica economica portata avanti dallo Stato. Infine, il Terzo Mondo non era ancora entrato nel sistema industriale, determinando un contrasto estremamente marcato tra i grandi centri industrializzati e le periferie.
Oggi, l’integrazione globale del capitale ha frantumato i sistemi produttivi nazionali e avviato la loro ricostruzione come tanti segmenti di un sistema produttivo globalizzato. Le diverse componenti della produzione sono ormai disperse in una cornice spaziale molto lontana dalle origini geografiche dell’azienda, e talvolta anche indipendente dal suo controllo finanziario. I prodotti incorporano componenti tecnologiche di origine così varia che non si può più riconoscere quella complessiva, né il contributo specifico di ciascuna nazione, né la nazionalità della forza lavoro impegnata nella produzione. Robert Reich sottolinea, ad esempio, che quando un americano acquista un’auto dalla General Motors che paga $ 20.000, di questa somma che paga, meno di $ 800 vanno ai produttori americani. La globalizzazione produce quindi una riorganizzazione dello spazio planetario, caratterizzata prima di tutto da una deterritorializzazione generalizzata del capitale. Si passa così da uno «spazio di luoghi» a uno «spazio di flusso», cioè dal territorio alla rete (6). La rete non corrisponde più a nessun territorio, ma si inscrive nel mercato globale, e si emancipa da ogni vincolo politico-statale. Per la prima volta nella storia, lo spazio dell’economia e lo spazio della politica sono separati. Questa è una delle caratteristiche più essenziali della globalizzazione.
Ho appena citato le multinazionali. La comparsa di imprese industriali capaci di pensare fin dall’inizio del loro sviluppo su scala mondiale e di attuare strategie globali integrate è un’altra caratteristica della globalizzazione. Le multinazionali sono imprese che realizzano più della metà del proprio fatturato all’estero. Nel 1970 erano 7.000, oggi sono 40.000, controllano 206.000 filiali, ma danno lavoro solo al 3% della popolazione mondiale (cioè 73 milioni di persone). Per avere un’idea della loro importanza e del loro potere, basti sapere che nel 1991 hanno realizzato da sole un fatturato superiore alle esportazioni mondiali di beni e servizi (cioè 4.800 miliardi di dollari), che controllano direttamente o indirettamente un buon terzo del reddito mondiale, e che le 200 più importanti tra loro monopolizzano un quarto dell’attività economica del pianeta. Va inoltre notato che quasi il 33% del commercio mondiale è ormai effettuato tra filiali della stessa impresa, e non tra imprese diverse. Queste aziende di rete hanno risorse che sfidano l’immaginazione. Il fatturato annuo di General Motors (177,2 miliardi di dollari nel 2001) supera il PIL dell’Indonesia; quello di Ford (177,2 miliardi di dollari) supera il PIL della Turchia; quello di Toyota, il PIL del Portogallo; quello di Unilever, il PIL del Pakistan; quello di Nestlé, il PIL dell’Egitto. La prima azienda americana, la catena di distribuzione Wal-Mart (219,8 miliardi di dollari di fatturato, 1,3 milioni di dipendenti), il cui valore di borsa è cresciuto di oltre il 400% negli ultimi cinque anni, ha registrato un utile di 6,67 miliardi di dollari nel 2001. Queste imprese, la cui origine nazionale non è altro che un riferimento puramente formale, hanno da tempo imparato a sostituire obiettivi di minima redditività con obiettivi di massimizzazione dei guadagni finanziari, quali che siano le conseguenze sociali. Meno interessati alla produzione che al controllo dei mercati e dei brevetti, sono soprattutto i gruppi finanziari che investono la maggior parte dei loro profitti in valute estere o derivati, invece di ridistribuirli ai propri azionisti o investirli in attività creatrici di posti di lavoro. Essendo più ricchi di molti Stati, non è nemmeno difficile per loro comprare politici e corrompere funzionari o intere amministrazioni.
Anche per far fronte alla concorrenza le multinazionali hanno sviluppato una nuova strategia. Poiché i profitti della produzione non trovavano più sbocchi sufficienti negli investimenti convenzionali, ne hanno dovuto trovare altri per l’eccedenza dei capitali flottanti, per evitare la loro massiccia e brutale svalutazione, come era accaduto negli anni Trenta. La lotta per acquisire quote di mercato le ha quindi spinte a incorporare nel salariato mondiale una forza lavoro scarsamente qualificata e sottopagata, al fine di beneficiare di un vantaggio di costo assoluto (7). Mentre i Paesi occidentali un tempo si accontentavano di sfruttare il mercato interno di quelli del Sud, trasferendo le attività artigianali nelle loro proprie industrie, le multinazionali stanno ora lavorando per riesportare nei mercati occidentali prodotti assemblati o fabbricati in quei Paesi a prezzi bassi. La globalizzazione avviene quindi attraverso il rientro di una parte dell’attività economica dai Paesi del Sud, attraverso una riorganizzazione globale del ciclo produttivo e la mobilitazione di una forza lavoro locale trasformata in lavoratori salariati. Questo fenomeno cosiddetto di delocalizzazione, divenuto generale a partire dagli anni ’80 del 900, non è altro che l’estensione-riorganizzazione del rapporto salariale su scala globale, vale a dire un passo avanti verso la creazione di un mercato globale del lavoro. Va da sé che, in questa prospettiva, la libertà di movimento del capitale è essenziale, per deviare i profitti verso i centri decisionali responsabili della loro allocazione, movimento che ha il duplice effetto di ridurre la capacità di accumulazione locale e limitare l’aumento del potere d’acquisto (8).
Allo stesso tempo, assistiamo all’irruzione nel commercio mondiale di nuovi operatori provenienti dall’Asia e, in misura minore, dall’America Latina e dall’ex impero sovietico. Anche questo è un fatto nuovo. In passato, le differenze di costo del lavoro tra Nord e Sud valevano generalmente la metà rispetto alle differenze di produttività e qualità del prodotto. L’emergere di Nuovi Paesi Industrializzati (NPI) e la comparsa di multinazionali in alcuni paesi del Sud hanno cambiato radicalmente la situazione. Nel 1995, il reddito pro capite di Singapore aveva già superato quello della Francia. Questo fenomeno è ovviamente destinato ad aumentare. A tal proposito, si segnala che il successo dei NPI non consacra in alcun modo la verità delle tesi liberali. Il «miracolo asiatico» è infatti radicato prima di tutto in uno specifico tessuto culturale (9), dove anche il nazionalismo fa la sua parte, sia in Giappone che in Cina, in Corea o in Singapore. Si spiega anche con il volontarismo delle politiche industriali di questi Paesi che, lungi dall’allinearsi a una teoria dei vantaggi comparati che li avrebbe obbligati a specializzarsi, senza preoccuparsi della domanda effettiva, nelle produzioni con costi relativi più bassi, al contrario, si sono rivolti in via prioritaria a produzioni soggette a forte domanda su scala globale. La globalizzazione, ovviamente, cambia la competizione tra le nazioni, perché una volta che le imprese e i capitali possono muoversi liberamente nel Mondo, la competitività delle imprese nazionali non si fonda più automaticamente con quella delle nazioni. Lo spazio transnazionale in cui operano le grandi imprese non ha più motivo di coincidere con l’organizzazione ottimale degli spazi nazionali. La posizione di un Paese nel mondo non è più definita dal livello di capacità competitiva delle sue produzioni sul mercato mondiale, essendo i suoi imprenditori tenuti a posizionarsi in questo mercato secondo il miglior rapporto rendimento/rischio o vantaggio/costo. In definitiva, poiché le nazioni non sono altro che punti nello spazio produttivo delle grandi imprese, la nozione stessa di vantaggio comparativo diventa obsoleta. Gli Stati non hanno quindi altra risorsa che ripiegare su politiche di pura competitività, a discapito delle esigenze di coesione sociale. È proprio ciò che è accaduto in Europa a partire dagli anni Ottanta, prima sotto l’influenza delle teorie liberali attuate da Ronald Reagan negli Stati Uniti e da Margaret Thatcher in Gran Bretagna, poi sotto l’effetto dei «criteri di convergenza» del Trattato di Maastricht. Questo adeguamento alle esigenze della globalizzazione ha assunto le forme che conosciamo: deregolamentazione e liberalizzazione generalizzate; priorità data all’esportazione rispetto al consumo interno; privatizzazione delle imprese pubbliche; apertura agli investimenti internazionali; determinazione dei prezzi e dei salari da parte del mercato globale; graduale eliminazione di aiuti e sussidi; senza dimenticare la riduzione delle spese che dovrebbero rallentare la competitività, come l’istruzione, la protezione sociale o la tutela dell’ambiente. Uno dopo l’altro, gli Stati europei hanno così adottato una politica strettamente monetarista, nota come disinflazione competitiva, che consisteva nel combattere l’inflazione attraverso alti tassi di interesse, e il cui risultato più evidente è stato quello di rallentare la crescita e aumentare la disoccupazione, mentre il capitale finanziario, tassato meno del reddito da lavoro, contribuiva sempre meno al benessere generale della collettività.
Allo stesso tempo, la crisi del debito ha costretto i paesi del Terzo Mondo a intraprendere una svolta analoga: i programmi di aggiustamento strutturale richiesti dal FMI e dalla Banca Mondiale hanno portato la maggior parte di loro ad applicare le stesse ricette dei paesi industrializzati, con risultati ancora più catastrofici. Le organizzazioni internazionali sono così diventate strumenti al servizio della globalizzazione. Il ruolo del FMI e della Banca Mondiale è quello di imporre la deregolamentazione, di gestire la fluttuazione delle valute e di sottoporre le economie del Terzo Mondo all’assoluto imperativo dell’indebitamento. Il G8 sta cercando di coordinare le politiche di gestione delle crisi dei principali Paesi sviluppati, senza affrontare i problemi di fondo. Ma un ruolo molto speciale spetta alle organizzazioni responsabili della supervisione del commercio mondiale. In passato, i negoziati commerciali interstatali si concentravano su un piccolo numero di pratiche nazionali, come quote di importazione, tariffe, controllo dei movimenti di capitale, ecc. Oggi, le sfide della diplomazia commerciale si estendono ben oltre le questioni di confine concentrandosi sulle istituzioni interne dei Paesi: la struttura del loro sistema bancario, i termini dei loro diritti di proprietà privata, la loro legislazione sociale, le loro regole in materia di concorrenza, concentrazione o proprietà industriale, ecc. Il principio alla base di questi negoziati è che il commercio internazionale deve coinvolgere nazioni con più o meno le stesse istituzioni, orientarsi verso un diritto di proprietà e della sua regolamentazione uniformi, il più delle volte allineati con il diritto statunitense, in modo da ridurre l’incertezza e i rischi per gli investimenti diretti dall’estero. Il potere contrattuale delle imprese multinazionali risulta così rafforzato, dotate di una nuova capacità di pressione che consente loro di chiedere adeguamenti in termini normativi, salariali o fiscali, al fine di aumentare la propria redditività e competitività. In definitiva, «attraverso un numero crescente di negoziazioni locali e internazionali, le società si trovano di fronte alla richiesta di trasformare le proprie regole e istituzioni interne per conformarsi a un modello imposto dall’esterno» (10). Le clausole del GATT o dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) vanno quindi ben oltre gli obiettivi tradizionali degli accordi di libero scambio. Mirano soprattutto a promuovere la mobilità dei capitali. Gli accordi che ne derivano sono infatti non tanto accordi di libero scambio quanto accordi di libera circolazione dei capitali, volti a stabilire nuovi diritti di proprietà internazionali per gli investimenti esteri e creare nuove restrizioni alle normative nazionali e governative. Come scrive Ian Robinson, «gli accordi di libera circolazione dei capitali possono essere intesi come strumenti che, in nome della riduzione delle barriere al commercio, alterano o rinegoziano le leggi, le politiche e le pratiche esistenti, sulla via per un’economia di mercato globale» (11).
Infine, un’altra novità, non meno importante poiché è questa che permette di comprendere la natura della globalizzazione culturale: il capitalismo non vende più solo, come ieri, merci e beni, ma vende anche segni, suoni, immagini, software, plug-in e collegamenti. Non arreda solo le case, colonizza l’immaginario e domina la comunicazione. Mentre negli anni Sessanta la società dei consumi si nutriva ancora di beni materiali identificabili (automobili, elettrodomestici, ecc.), il sistema che Benjamin R. Barber ha recentemente proposto di chiamare «McWorld» – come Macintosh o McDonald’s – costituisce un universo essenzialmente virtuale, risultante dall’intensificarsi di flussi transnazionali di ogni tipo che convergono a produrre una crescente omogeneizzazione degli stili di vita. Barber afferma che «i supporti del sistema McWorld non sono più le automobili, ma il parco a tema Eurodisney, il canale musicale MTV, i film di Hollywood, i programmi per computer. Insomma, concetti e immagini considerati tanto quanto oggetti» (12). Questa mercificazione diffusa instaura il consumo pubblicitario-spettacolare come forma unica di integrazione sociale, mentre esacerba sentimenti di esclusione e impulsi aggressivi in ​​coloro che non possono permetterselo. Contribuisce, attraverso un diluvio di immagini e suoni universali, alla già avviata standardizzazione degli stili di vita, alla riduzione delle differenze e delle peculiarità, all’allineamento di atteggiamenti e comportamenti, allo sradicamento delle identità collettive e delle culture tradizionali. La globalizzazione non può quindi essere confusa con la semplice internazionalizzazione, che era il sistema creato e organizzato dagli Stati per definire le forme delle loro relazioni internazionali (13). Piuttosto, si definisce come il passaggio da un’economia internazionale concepita come un aggregato di economie nazionali e locali differenti tra loro nei principi operativi e regolatori, ad una vera e propria economia di mercato planetaria, governata da un sistema di regole uniformi, nel modo definito da Karl Polanyi (14). Consiste in «una crescente interdipendenza che unisce tra loro tutte le componenti del nostro spazio mondiale per condurle verso una sempre più esigente uniformità e integrazione» (15). Coloro che la guidano sono nuovi attori extra-statali ed extranazionali, che aspirano solo a massimizzare i propri dividendi e profitti pianificando e ottimizzando l’organizzazione planetaria delle loro attività, ed eliminando tutto ciò che può ostacolare la loro libertà di azione. E questi nuovi attori, che rafforzano ogni giorno di più la loro autonomia, sono essi stessi sempre più interdipendenti, fino a costituire un’unica immensa organizzazione commerciale.

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Una volta compresa l’esatta natura della globalizzazione economica e finanziaria, è facile coglierne le conseguenze. La prima è ovviamente quella di un tragico aggravarsi delle disuguaglianze economiche. Già Hegel evidenziava come le società ricche non lo sono abbastanza da assorbire la crescente miseria che generano. Oggi la povertà non è più il risultato della scarsità, ma della cattiva distribuzione, della ricchezza prodotta, insieme a un blocco psicologico e culturale che impedisce di considerare il ritorno a società che non si definiscono principalmente intorno ai concetti di lavoro e di produzione. Tra il 1975 e il 1985 il prodotto lordo mondiale è aumentato del 40%; dal 1950, il commercio mondiale è aumentato di undici volte e la crescita economica di cinque volte. Tuttavia, nello stesso periodo, abbiamo assistito non a un aumento regolare del tenore di vita medio, ma a un aumento senza precedenti della povertà, della disoccupazione, della disgregazione dei legami sociali e della distruzione dell’ambiente. Il PIL reale pro capite nei paesi del Sud rappresenta oggi solo il 17% di quello del Nord. Il mondo industriale, che comprende solo un quarto dell’umanità, detiene da solo l’85% della ricchezza globale. I paesi membri del G8 rappresentano l’11% della popolazione mondiale, ma possiedono i due terzi del PIL del pianeta. La sola città di New York consuma più elettricità di tutta l’Africa subsahariana. Tra il 1975 e il 1995, la ricchezza americana è aumentata complessivamente del 60%, ma questo aumento è stato accaparrato dall’1% della popolazione. Un ultimo dato rivelatore: la ricchezza in dollari dei 358 miliardari oggi presenti nel Mondo da sola supera i redditi anni cumulati dai 2,3 miliardi più poveri, ovvero l’equivalente di quasi la metà dell’umanità. Vediamo che più c’è ricchezza, più ci sono poveri, il che rovina la teoria liberale secondo la quale tutta la società dovrebbe finire per beneficiare dei profitti generati dai più ricchi. In realtà, poiché restituisce alle forze di mercato un quasi monopolio, la globalizzazione contribuisce allo sviluppo delle disuguaglianze e dell’esclusione sociale, minacciando così la coesione delle società. Allo stesso tempo, il colonialismo continua in modo informale. Gli aiuti al Terzo Mondo hanno perfezionato la tecnica del prestito e dell’usura come mezzo di controllo. L’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) “avverte” ora i Paesi del Sud di concedere un trattamento «nazionale» agli investimenti esteri, eliminando ogni ostacolo rappresentato dalla legislazione sul lavoro, sull’ambiente o sulla salute. Tuttavia, ovunque siano stati posti in essere sistemi liberali di adeguamento strutturale, i risultati sono stati il ​​peggioramento delle condizioni di vita della maggior parte delle persone e l’aumento dell’instabilità sociale – la quale, attraverso un giusto ritorno alle azioni, provoca peraltro la fuga di capitale, che permette di evidenziare la natura fondamentalmente parassitaria di questo sistema. Per quanto riguarda i Paesi che si rifiutano di soddisfare questi requisiti, essi sono semplicemente emarginati, lasciati indietro e infine respinti dai circuiti internazionali.
Ma ovviamente non è solo nei paesi del Sud che queste conseguenze si fanno sentire. Al Nord, la globalizzazione si traduce in un’esacerbata competizione transnazionale che, attraverso le esportazioni e gli investimenti diretti, sta provocando un vero e proprio abbattimento dei salari e dell’occupazione. Qualsiasi bene o servizio prodotto localmente, ma che potrebbe essere prodotto altrove a un costo inferiore, diventa vulnerabile alla pressione esercitata dal capitale a favore di salari e oneri sociali più bassi, mentre, per converso, l’aumento del costo del lavoro legato alla scarsità di capitale umano e i costi dell’invecchiamento demografico incoraggiano gli imprenditori a spostare le proprie attività in Paesi in cui la manodopera è più economica e più «flessibile». Le produzioni competitive nei Paesi in via di sviluppo, essendo soprattutto quelle che incorporano molta manodopera non qualificata, sono incoraggiate e sfruttate al Sud, e progressivamente escluse dall’occupazione nei Paesi del Nord, cosa che contribuisce all’aumento della disoccupazione strutturale. In assenza di sbocchi per la crescita, le imprese dal canto loro possono raggiungere la dimensione critica per sopravvivere nei mercati globali solo sottraendo quote di mercato ai concorrenti e migliorando costantemente la propria competitività, cosa che si traduce in un continuo movimento di ristrutturazione e ridimensionamento industriale (downsizing) con effetti sociali devastanti. Tuttavia, le delocalizzazioni sono solo all’inizio. Nel 1990, i manufatti esportati dai Paesi di nuova industrializzazione (PNI) del sud-est asiatico verso i paesi OCSE rappresentavano ancora solo l’1,61% del PIL di quest’ultimo. In Francia, il commercio con i PNI genera al massimo un punto dell’attuale tasso di disoccupazione. Ma il fenomeno è destinato a svilupparsi. Tra il 1970 e il 1990 la quota dei Paesi emergenti nel commercio OCSE è passata dallo 0,70% al 6,44 %. A questo ritmo, potrebbe raggiungere il 55% in vent’anni. La rivoluzione industriale aveva reso possibile l’integrazione di personale non qualificato nella società globale. Con la globalizzazione, al contrario, si assiste alla sistematica esclusione di chi non ha competenze utili. Si tratta, rispetto alla precedente fase del capitalismo, di una rottura fondamentale che mette in discussione tutti i compromessi sociali adottati dal welfare state keynesiano. Globalizzazione dei salari e globalizzazione finanziaria concorrono infatti a invertire il corso della politica economica e sociale che aveva presieduto ai decenni di crescita del dopoguerra. Durante i Trent’anni gloriosi, che corrispondevano all’apice del sistema fordista, il capitalismo dovette fare i conti con le rivendicazioni sociali formulate nelle società industriali, nonché con la volontà degli Stati di porre le basi di un ordine economico internazionale. Il Welfare State aveva rappresentato il risultato di questo storico compromesso tra capitale e lavoro, cioè di questo adeguamento delle strategie del capitale ad un certo numero di domande sociali. La globalizzazione ha rotto questo contratto sociale. A partire dagli anni ’70, la logica economica del capitalismo ha iniziato a disconnettersi dalle rivendicazioni sociali, il che ha portato a una messa in discussione generalizzata della gerarchia dei salari e dei meccanismi di solidarietà collettiva. Questa sconnessione dell’economia e del sociale è andata di pari passo con la dislocazione della coppia stato sociale/classe media, attorno alla quale si è costruita la crescita dei decenni precedenti. Con la globalizzazione stiamo assistendo all’emergere di un modello di società a clessidra – dove la stragrande maggioranza degli abitanti tende a cadere verso il basso sotto l’effetto della precarietà, mentre il denaro è polarizzato nelle alte sfere – fenomeno che segna l’inizio della destrutturazione delle classi medie, cioè di quelle classi «che i capitalismi del primo Novecento non solo avevano addirittura generato, ma sulle quali avevano anche basato la loro crescita» (16). Durante i Trent’anni gloriosi, queste classi medie continuarono a consolidarsi, portando all’integrazione al loro interno di fasce sempre più ampie della popolazione, e quindi ad una relativa riduzione delle disuguaglianze. È questo modello di classe media, che si espanderà gradualmente fino a includere la classe operaia in un modo che si credeva irreversibile, che viene messo in discussione oggi. Il risultato è una profonda trasformazione dei rapporti di classe e di interesse all’interno dei Paesi capitalistici. In effetti, alla destrutturazione delle classi medie corrisponde  una parallela destrutturazione delle classi lavoratrici, che stanno assistendo alla messa in discussione delle loro conquiste sociali, ma anche dei loro tradizionali strumenti di difesa, che i sindacati ovviamente non hanno nei confronti delle imprese multinazionali abituate a giocare sull’aumento delle differenze salariali all’interno del mercato globale e dei poteri di pressione che hanno nei confronti delle autorità pubbliche con cui sono abituati a negoziare. Questo sviluppo equivale a una formidabile regressione, poiché equivale a ripristinare situazioni di sovrasfruttamento paragonabili a quelle che il movimento operaio dovette combattere agli albori del capitalismo industriale. Karl Marx, nonostante la sua filosofia difettosa della storia, aveva almeno capito che la logica della cattura delle passioni che è all’opera nel capitalismo si traduce nella reificazione delle relazioni umane. Si può apprezzare l’ironia della storia  nel momento in cui il sistema comunista sovietico è crollato, le sue tesi trovano una certa rilevanza di fronte a una logica del profitto che si impone senza il minimo ritegno, mentre la disoccupazione e la povertà ancora una volta diventano fattori strutturali della società, poiché nel XXI secolo, precarietà ed esclusione si diffondono ogni giorno di più, e il reddito da capitale continua ad aumentare a discapito del reddito da lavoro, e che le garanzie ottenute dai lavoratori dopo decenni di lotte vengono messe in discussione una dopo l’altra.
Ultima conseguenza della globalizzazione: la crescente impotenza degli Stati nazionali. A causa dell’accelerazione della mobilità internazionale dei capitali, della globalizzazione dei mercati e dell’integrazione delle economie, i governi vedono ridursi il proprio margine di azione macroeconomica. In materia monetaria, il loro margine di manovra è già quasi nullo, poiché i tassi di interesse e i tassi di cambio sono ora soggetti all’autorità di banche centrali indipendenti che prendono le loro decisioni in base all’andamento del mercato: un Paese (o un gruppo di Paesi) che decidesse unilateralmente di tagliare i suoi tassi di interesse causerebbe immediatamente una fuga di capitali verso Paesi che offrono maggiori possibilità di guadagno. Allo stesso tempo, la capacità di mobilitazione monetaria delle banche centrali è scesa al di sotto del volume delle transazioni: nel luglio 1993, in un solo giorno di attacco speculativo contro il franco, la Banque de France ha perso tutte le sue riserve valutarie! Anche in materia di bilancio, gli Stati vedono ridursi il proprio margine di libertà a causa di un elevato debito pubblico che impedisce loro ogni stimolo non concertato. In termini di politica industriale, infine, i governi non hanno altra soluzione per resistere alla concorrenza che cercare di attirare le imprese estere attraverso sussidi e trattamenti fiscali privilegiati, che li mettono in balia delle richieste delle imprese multinazionali. Tuttavia, esse non si fermano a trascendere i confini. Come abbiamo visto, pesano anche sui quadri legislativi che dovrebbero regolarne l’operatività. Tasse o salari troppo alti, condizioni di lavoro socialmente troppo pesanti, li spaventano. Di conseguenza, «qualsiasi forma di regolamentazione può essere soggetta a pressioni al ribasso da parte del mercato semplicemente perché le multinazionali vi vedono un costo» (17). Il potere fiscale degli Stati non è più sovrano, ma contrattuale, perché necessariamente negoziato con capitali sempre più erratici, e quindi sempre più capaci di imporre le proprie condizioni. «Nessun governo, nemmeno al Nord», spiega Edward Goldsmith, «ha più controllo sulle multinazionali. Se una legge interferisce con la loro espansione, queste minacciano di andarsene e possono farlo all’istante. Sono libere di girare il pianeta per scegliere la manodopera più economica, l’ambiente meno protetto dalla legge, il sistema fiscale più economico, i sussidi più generosi. Non hanno bisogno di identificarsi con una nazione o di lasciare che un attaccamento sentimentale ostacoli i loro progetti. Sono totalmente fuori controllo» (18). In definitiva, aggiunge Jacques Adda, «la globalizzazione finanziaria può essere analizzata come un processo di elusione delle regole stabilite dagli Stati più sviluppati nel quadro di un sistema multilaterale di regolamentazione dell’economia mondiale» (19). L’economia globalizzata pone quindi vincoli così severi agli Stati e questi ultimi stanno gradualmente vedendo tutti i loro mezzi d’azione tradizionali relegati al deposito merci. Di fronte alle crescenti difficoltà nel controllo della ricchezza, gli Stati si trovano privati ​​di una leva politica essenziale: lo sviluppo coerente sul loro territorio. E poiché ogni sforzo di bilancio in campo sociale sembra essere stato sottratto alla loro capacità di competitività economica, non possono più svolgere il loro ruolo di gestione dei compromessi sociali. I politici allora diventano impotenti e lo Stato cambia natura: da mediatore sociale quale era, gli viene affidato un semplice ruolo di gestione territoriale dei flussi che lo oltrepassano. Ridotto al ruolo di spettatore, non è altro che «una sorta di impiegato che registra decisioni prese altrove» (20).
Un tale cambiamento è rivoluzionario, in quanto mina quello che era stato uno dei fondamenti della politica moderna: la sovranità degli Stati. Come scrive Bertrand Badie, «la globalizzazione rompe le sovranità, squarcia i territori, abusa delle comunità costituite, sfida i contratti sociali e rende obsolete certe concezioni di sicurezza internazionale […] Quindi la sovranità non è più questo valore fondamentale indiscusso quale era in precedenza a causa del fatto che l’idea di ingerenza cambia lentamente ma inesorabilmente di connotazione» (21).
Ma sono anche e soprattutto i principi democratici a essere colpiti. La legittimità che i dirigenti traggono dalla loro elezione da parte del popolo (dai cittadini) viene messa in discussione non appena essi non hanno più i mezzi per interporsi tra le esigenze del capitale e i bisogni del corpo sociale. D’altra parte, la libera circolazione dei capitali restringe anche il campo del controllo democratico sulle politiche economiche e sociali, poiché queste politiche sono soggette a vincoli esterni ai quali i governi non possono più sottrarsi, e per i quali stiamo assistendo al trasferimento del potere decisionale a beneficio di attori economici globali che non sono responsabili nei confronti di chicchessia. La cittadinanza diventa così inoperante e priva di significato – al punto che ci si può chiedere cosa possa volere significare «prendere il potere» in un mondo come questo.

Traduzione a cura di Manuel Zanarini