Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Al Baghdadi e il bisogno americano di umiliare i nemici morti

Al Baghdadi e il bisogno americano di umiliare i nemici morti

di Massimo Fini - 02/11/2019

Al Baghdadi e il bisogno americano di umiliare i nemici morti

Fonte: Massimo Fini

“Vigliacco! Piangeva, gridava. Era terrorizzato. Altro che eroe, è morto come un codardo. Si è fatto esplodere, trascinando con sé tre bambini”. Questa la dichiarazione, a reti unificate, di un tronfio Donald Trump il giorno in cui ha dato la notizia dell’uccisione di Al Baghdadi.
Non mi pare che uno che si suicida facendosi saltare in aria possa essere accusato di vigliaccheria. E’ una morte da mujaheddin, da combattente. Mi piacerebbe sapere come si comporterebbe in una situazione analoga Donald Trump, comandante in capo dell’esercito statunitense, che fa il fenomeno dietro una scrivania. I precedenti non sono incoraggianti. Quando ci fu l’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono George W. Bush fu ficcato a forza sull’Air Force One e portato prudentemente lontano dal luogo delle operazioni. Un comportamento non precisamente da eroe, come ebbe il coraggio di far notare la scrittrice statunitense Susan Sontag.
Agli americani non basta vincere, hanno il morboso bisogno di umiliare il nemico sconfitto. Lo fecero anche con Osama Bin Laden quando finsero di averlo ucciso nel 2011 ad Abbottabad in Pakistan, affermando che il Califfo saudita al momento del dunque aveva vigliaccamente cercato di proteggersi dietro una delle sue mogli e scovando materiale pornografico nel suo nascondiglio. Dico “finsero” perché nessuno può credere, tranne il loro popolo che è ingenuo e naif (ed è il suo aspetto più simpatico), che si cattura il “pericolo pubblico numero uno”, lo si uccide ma non se ne fanno vedere le spoglie e si butta frettolosamente il cadavere in mare in modo che nessuno possa più controllare niente. Pratica che è stata usata anche adesso con Al Baghdadi, per cui c’è qualcuno, come il New York Times, che dubita che il Califfo sia stato veramente ucciso nel giorno indicato da Trump, ma che la data sia stata sfasata per gli interessi elettorali dell’inquilino della Casa Bianca (sia detto di passata, Bin Laden deve essere morto fra il 2004 e il 2005, probabilmente per malattia –aveva i reni gravemente compromessi– oppure ucciso dagli stessi americani per tappargli la bocca, perché sapeva troppe cose compromettenti. Altrimenti non si capirebbe perché fino al 2004 il Califfo saudita abbia sculato davanti a ogni video possibile e immaginabile per poi scomparire improvvisamente, di colpo, e rispuntare magicamente sei o sette anni dopo).
Un’altra specialità yankee è quella di negare una degna sepoltura ai propri nemici. Lo hanno fatto, stando alla loro narrazione, con Osama Bin Laden, lo fanno ora con Al Baghdadi: in mare, ai pesci e non se ne parli più. In epoche passate, quando gli americani non erano ancora comparsi all’onor del mondo, una tomba e le relative onoranze funebri non si negavano a nessuno, foss’anche il peggior nemico. Quando Catilina osò sfidare lo Stato romano prendendo le parti dei piccoli proprietari terrieri e dei plebei contro le oligarchie senatorie, latifondiste e fainéant che depredavano i primi e opprimevano i secondi, e cadde eroicamente in battaglia, in una lotta impari, il suo cadavere fu restituito agli anziani genitori. Quando l’imperatore Nerone, colpito da ‘damnatio memoriae’, la più definitiva pena per un cittadino romano, fu costretto al suicidio, nessuno si sognò di negargli le onoranze funebri, che furono curate dalle sue nutrici Egloge e Alessandra, né tantomeno una tomba sulla quale la plebe di Roma, che lo aveva molto amato, continuò a portar fiori per trent’anni ancora.
Ma torniamo al piacere di umiliare i nemici sconfitti. Nel lungo viaggio che li portava a Guantanamo i guerriglieri talebani che erano stati catturati ed esposti alla curiosità di tutte le televisioni (trattamento alla Saddam Hussein) furono narcotizzati e muniti di pannoloni per umiliarli e in quella famigerata prigione venivano trasportati in carriola per renderli ridicoli e rinchiusi in gabbie illuminate notte e giorno. Questa di mettere i nemici in gabbia è proprio una mania yankee. Nell’immediato dopoguerra il poeta Ezra Pound, mallevadore di molti letterati statunitensi, colpevole di essere vissuto in Italia e di non aver osteggiato il fascismo fu messo anche lui in una gabbia illuminata giorno e notte ed esposto, come una bestia, alla curiosità della canaglia che poteva osservarlo anche mentre cacava. E il grande Ezra, una volta liberato, per dieci anni si chiuse, per ripicca, in un mutismo assoluto. L’orrore sadico e perverso di Abu Ghraib lo ricordiamo tutti. Durante il processo di Norimberga i criminali nazisti venivano ridicolizzati obbligandoli a deporre in piedi indossando dei pantaloni privi di cintura e costretti a tenerseli su con le mani.
Pare che durante l’incursione nei cunicoli di Barisha alla caccia di Al Baghdadi i commandos americani fossero guidati da un cane che, ferito, è stato subito elevato a eroe nazionale. Gli altri si fanno saltare in aria, da noi, tecnologicamente avanzatissimi, gli “eroi” possono essere solo dei cani.