All’origine del colossale debito Usa
di Giacomo Gabellini - 02/04/2017
Fonte: l'indro
Gli Stati Uniti sono uno tra i Paesi più indebitati al mondo, e la tendenza in atto sembra destinata ad aumentare il peso reale di questo enorme problema strutturale. La causa principale di ciò va individuata negli elevati deficit di bilancio statale accumulati nel corso del tempo, e specialmente negli ultimi decenni. Dopo il picco del 120% raggiunto nel secondo periodo postbellico a causa dalle enormi spese militari necessarie a sostenere il conflitto, il debito è diminuito costantemente per oltre un trentennio, fino a toccare la soglia del 30% del Pil alla fine degli anni ’70, grazie soprattutto a una crescita economica media annua prossima al 4% per tutto il periodo che va dal 1950 al 1979.
I conflitti in Estremo Oriente (Corea e Vietnam) causarono problemi che si sarebbero ingigantiti nel corso degli anni, a partire da un crescente disavanzo con l’estero che raggiunse i 36 miliardi di dollari nel 1967, a fronte del progressivo assottigliamento delle riserve auree, che passarono da oltre 20 a 12 miliardi di dollari nell’arco di un decennio. All’epoca, il governo di Parigi propose allora di rivalutare l’oro, incassando lo sdegnoso rifiuto da parte di Washington e Londra (poiché anche la sterlina, che rappresentava il secondo caposaldo del sistema scaturito da Bretton Woods, avrebbe subito una forte svalutazione in seguito ad una manovra simile). Per tutta risposta, il generale Charles De Gaulle annunciò l’imminente revoca del trattato del 1961 ed iniziò immediatamente a convertire in oro (il cui valore al mercato di Londra schizzò letteralmente verso l’alto) tutte le riserve di valuta statunitense depositate nella Banque de France, innescando una reazione a catena che portò numerosi Paesi ad emulare tale esempio. Londra cedette alle pressioni internazionali accettando di svalutare del 14% la sterlina, contribuendo ad incrementare pesantemente le richieste di conversione in oro della valuta statunitense.
Nel marzo del 1968, il presidente Lyndon Johnson, conscio dell’impossibilità statunitense di soddisfare tali richieste, dispose di concerto con Londra la sospensione temporale del mercato dell’oro e ordinò successivamente di trasferire le residue riserve auree nei forzieri di Fort Knox. Alcuni economisti avevano allora suggerito di allentare i controlli sulle esportazioni di capitale allo scopo di favorire la conquista del mercato europeo da parte delle multinazionali americane, ma ciò avrebbe ulteriormente aggravato lo stato della bilancia dei pagamenti. In altre parole, «non esistono – annotava Henry Kissinger, fresco di nomina a capo del Comitato per la Sicurezza Nazionale – accorgimenti monetari attraverso i quali gli altri Paesi concederanno agli Stati Uniti la completa libertà di fare spese estere nella misura da essi desiderata, siano esse per difesa, aiuti, investimenti o importazioni. Anche sotto un regime di limitata flessibilità, che aiuterebbe entro certi limiti, gli Stati Uniti sarebbero soggetti a vincoli sia interni sia internazionali, se il dollaro dovesse tangibilmente deprezzarsi sui mercati del cambio in seguito a eccessive spese estere». Per le alte sfere statunitensi, il problema consisteva dunque nell’instaurare un sistema che permettesse agli Usa di effettuare investimenti esteri in misura illimitata, scaricando su altri le relative ripercussioni.
Nel frattempo la Comunità Europea stava implementando il cosiddetto ‘piano Werner’, finalizzato a realizzare la completa Unione Monetaria Europea (Uem) entro e non oltre l’arco temporale di un decennio. Vennero così ridotti i margini di oscillazione (dallo 0,75% allo 0,60%) consentiti rispetto alla parità tra monete, ma la Germania si vide subito costretta a lasciar fluttuare il marco per effetto del massiccio afflusso di dollari presso la Bundesbank. Nonostante questo inquietante segnale premonitore, l’Europa, la cui industria ormai ricostruita era riuscita a colmare il divario con quella statunitense, rappresentava comunque un serio concorrente per gli Usa, specialmente grazie all’Uem che, secondo alcun autorevoli economisti come Arthur Bloomfield, avrebbe incrementato il potere contrattuale europeo in campo monetario, determinato una riduzione dei flussi di capitale tra gli Usa e la Comunità Europea e ridimensionato il ruolo del dollaro come riserva valutaria internazionale. Queste difficoltà dovute alle mosse strategiche europee andarono a sovrapporsi a quelle segnalate da Kissinger, costringendo il governo statunitense a prendere in considerazione l’ipotesi di ripudiare univocamente gli accordi di Bretton Woods, specialmente in seguito a un documento della Federal Reserve (Fed) in cui si sottolineava che: «se prendiamo l’iniziativa, coglieremo di sorpresa gli altri Paesi, e in particolare quelli della Comunità Europea, prima che siano in grado di elaborare una posizione coordinata per affrontare la crisi, e avremo maggiori possibilità di prevalere nei negoziati successivi».
Di fronte alla pericolosa situazione venutasi a creare, il nuovo presidente Richard Nixon decise quindi di procedere. Nel luglio del 1971, Nixon inviò in gran segreto Kissinger, trasferitosi nel frattempo al Dipartimento di Stato, nella Cina comunista per trattare direttamente con il leader effettivo Zhou Enlai e quello spirituale Mao Zedong sia le questioni strategiche legate al contenzioso con l’Unione Sovietica, in Guerra Fredda con gli Usa e allo stesso tempo in conflitto ideologico e geopolitico con la Cina, sia i termini economici, legati al riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese da parte di Washington, di quella che sarebbe poi diventata una cruciale intesa strategica per entrambi i Paesi, suggellata dalla visita ufficiale del presidente Nixon a Pechino nel 1972. Grazie al ‘lavoro oscuro’ svolto da Kissinger e Zhou Enlai, gli Stati Uniti riuscirono a trovare un formidabile mercato di sbocco per le proprie merci, mentre la Cina cominciò ad usufruire dei flussi costanti di investimenti esteri americani, che sono alla base del poderoso rilancio industriale avviato da Deng Xiao Ping. Parallelamente, Kissinger sabotò la politica mediorientale, incardinata sulla risoluzione Onu 242, portata avanti dal Dipartimento di Stato nel 1969 e nel 1970, blindando l’alleanza strategica con Israele e gettando le basi per una presenza costante delle forze armate statunitensi in quella cruciale regione nella generale soddisfazione delle grandi compagnie petrolifere.
Gratificato dall’intesa segreta raggiunta con i cinesi e soddisfatto delle manovre di Kissinger, Nixon decise a quel punto di vibrare il colpo finale al Dollar Exchange Standard; il 15 agosto del 1971, il presidente proclamò, nel corso di una diretta televisiva divenuta celebre, il lancio del New Economic Policy (Nep), un nuovo piano di riforme economiche che prevedeva l’adozione di un pacchetto di stimoli atti a favorire la crescita e gli investimenti produttivi, il congelamento per i tre mesi successivi dei prezzi e dei salari in tutto il Paese, l’imposizione di un dazio doganale supplementare (pari al 10%) sulle importazioni e, soprattutto, la fine della convertibilità del dollaro in oro (per i non residenti) e del sistema dei cambi fissi tra valute.
Questo colpo di spugna che inaugurò un nuovo modello monetario fondato sulla fluttuazione dei tassi di cambio fu quinti motivato dalla necessità statunitense di mitigare gli effetti della guerra del Vietnam – con la crescita parallela del debito pubblico e del deficit della bilancia dei pagamenti – e di limitare i rischi derivanti dall’affermazione europea. Nel nuovo sistema venutosi a creare il valore della valuta Usa, sostenuta dalla potenza poltico-economico-militare statunitense, sarebbe stato determinato dal meccanismo classico di domanda e offerta, facendo del dollaro una moneta fiduciaria e consolidando il potere finanziario di Washington a scapito degli alleati. «Il dollaro è [diventato]al tempo stesso la nostra moneta e il vostro problema», commentò con inaudita arroganza l’allora segretario al Tesoro John Connally. Grazie a questa inedita mossa strategica, gli Usa hanno potuto provvedere al finanziamento degli investimenti esteri in misura pressoché illimitata, stampando moneta che il resto del mondo avrebbe dovuto accettare come pagamento in quanto riserva valutaria internazionale e agevolando in questo modo l’invasione del mercato statunitense da parte di una quantità di beni stranieri (prodotti soprattutto in Germania e in Giappone) tale da scavare un’autentica voragine (mai colmata) nella bilancia dei pagamenti. L’imposizione della propria divisa su scala internazionale permise quindi agli Usa di iniziare a ‘comprare’ la produzione reale in tutto il mondo.
La Guerra dello Yom Kippur, durante la quale i Paesi arabi decretarono l’aumento vertiginoso del prezzo del greggio, permise agli Usa di saldare il legame tra dollaro e petrolio e compensare così la svalutazione che aveva subito la divisa statunitense in conseguenza del ripudio degli accordi di Bretton Woods. Il caos monetario prodotto dalla mossa di Nixon del 1971 fu tuttavia tale da indurre il governatore della Federal Reserve Paul Volcker ad operare una drastica stretta creditizia (credit crunch) elevando i tassi di interesse a livelli ben superiori a quello d’inflazione. Questa mossa servì indubbiamente a stabilizzare e rafforzare il dollaro a spese dei concorrenti, che per mantenersi competitivi sul mercato dei capitali si videro costretti ad elevare i propri tassi di interesse. Dal momento che i prestiti da essi contratti erano agganciati al dollaro e regolati da tassi variabili, gli interessi aumentarono esponenzialmente determinando numerose crisi debitorie nei Paesi maggiormente esposti nei confronti degli Usa. Il dissesto economico in cui caddero molti Paesi in via di sviluppo canalizzò un flusso sempre crescente di investimenti negli Stati Uniti, consolidando il ruolo di Wall Street come perno finanziario mondiale, mentre sul piano interno fu la popolazione statunitense a pagare il prezzo di tale linea restrittiva per effetto del declino dei servizi statali e della riduzione di posti di lavoro dovuta alla delocalizzazioni delle grandi imprese (specialmente quelle operanti nel settore della grande distribuzione) incoraggiata dalla politica del ‘dollaro forte’. La stretta monetaria decretata da Volcker non influenzò il pericoloso andamento dell’economia reale, danneggiata dal profondo deficit della bilancia dei pagamenti indotto dagli elevatissimi consumi interni e dal costante declino industriale radicalmente aggravato dagli shock petroliferi.
A livello generale, la ‘dottina Volcker’ determinò una inversione di tendenza, in cui l’incrementata capacità di attrarre capitali da parte dei Paesi industrializzati e ad alto reddito allargò nuovamente la forbice con quelli più deboli, dopo un decennio durante il quale si era verificato il fenomeno opposto. Ciò permise al presidente Ronald Reagan di ottenere le risorse finanziarie necessarie a sostenere il vertiginoso aumento delle spese militari, rivolto a porre gli Stati Uniti in una posizione di incommensurabile superiorità tecnologica rispetto all’Unione Sovietica. Tale sfida geopolitica si rivelò ben presto insostenibile per Mosca ma aprì anche una vera e propria voragine nelle finanze statunitensi, con un incremento del debito dal 32 al 50% del Pil.
Da quel momento, gli Stati Uniti sono entrati in una fase di costante disavanzo con il resto del mondo. Sotto la presidenza di Bill Clinton il dislivello diminuì sensibilmente, ma i problemi strutturali che affliggevano l’economia Usa tornarono a manifestarsi nel 2000, con il crack della New Economy, e nel 2008, con la tremenda crisi in cui il mondo è tuttora invischiato.