Anatomia del pensiero unico
di Roberto Pecchioli - 18/10/2021
Fonte: Ereticamente
Sempre più spesso parliamo di “pensiero unico” e perfino di “polizia del pensiero”. Ma che cosa significa, concretamente, pensiero unico? Innanzitutto, non è una novità. Possiamo anzi affermare che l’obbligo (palese o nascosto) di pensare, agire, dire, in conformità ai dettati del potere è una costante della storia umana. Gli ultimi secoli avevano fatto credere che il primato della coscienza individuale e l’estensione di alcune libertà avessero fatto entrare l’umanità in una fase nuova. Il contrordine è brusco, la rivincita del potere fulminea.
Il pensiero unico si presenta oggi in una forma e con modalità assai distinte da quelle di ieri, ma con le finalità di sempre: consolidare il potere, ingannare, impedire un dibattito libero. Conviene iniziare la nostra ricognizione da un esempio concreto. Nei giorni scorsi, Giorgio Agamben, il pensatore italiano vivente più importante, è stato ascoltato dal parlamento sul tema del passaporto vaccinale, green pass nel ridicolo, niente affatto neutrale anglicismo delle classi dirigenti. Il testo della sua audizione è stato prontamente rimosso – cioè censurato – da Facebook, la finta agorà globale posseduta da un giovin signore in maglietta grigia, Mark Zuckerberg. Riportiamo di seguito le motivazioni del Santo Uffizio algoritmico, dietro cui si celano censori in carne ed ossa, seguiti dai passaggi incriminati, bannati da un modello matematico, vietandone la diffusione.
“Il tuo post (che ridicola familiarità! N.d.R.) viola i nostri standard della community in materia di disinformazione che potrebbe causare violenza fisica “. Bum! La didascalia sottostante è una grottesca excusatio non petita – scusa non richiesta – ossia accusatio manifesta. I valvassini italiani di Silicon Valley affermano: “sosteniamo la libertà di espressione, ma non consentiamo la diffusione di informazioni false relative al Covid 19 che potrebbero causare danni fisici”. Sostengono la libera espressione – bontà loro – sempreché essa si accordi con le loro idee: nulla di nuovo sotto il sole. Si è sempre liberi di dir bene del padrone: falso è ciò che lo contraddice. I detentori del giusto pensiero si atteggiano a giudici unici della verità, oltreché esecutori insindacabili della pena, nella fattispecie la cancellazione censoria.
Sorvoliamo sullo sgarbo al parlamento italiano, ovvero – bene o male – a chi rappresenta il nostro popolo, giacché le opinioni di Agamben sono state richieste dal Senato e pronunciate dinanzi ad esso, sia pure in modalità “remota”. Evitiamo altresì di sottolineare lo zoppicante italiano. L’algoritmo non padroneggia la lingua, tra “community” e “standard”. Ce ne faremo una ragione.
Che cosa ha detto di tanto deplorevole il povero, mite Agamben, accusato di “causare violenza fisica “alla soglia degli ottant’anni? Apparentemente, il passaggio che ha destato l’attenzione di Sua Maestà l’Algoritmo è questo: “l’evidente, sottolineo la parola evidente, contraddittorietà del decreto legge 44 del 2021, detto scudo penale ora convertito in legge, con cui il governo si è esentato da ogni responsabilità per i danni prodotti dal vaccino. E quanto gravi possono essere risulta dal fatto che l’articolo 3 del decreto menziona esplicitamente gli articoli 589 e 590 del codice penale, che si riferiscono all’omicidio colposo e alle lesioni colpose. Questo significa che lo Stato non si sente di assumere la responsabilità per un vaccino che non ha terminato la sua fase di sperimentazione e tuttavia, allo stesso tempo, cerca di costringere con ogni mezzo i cittadini a vaccinarsi escludendoli altrimenti dalla vita sociale e ora privandoli persino della possibilità di lavorare. “
Giudizi politici, nessuna valutazione medica, se non la presa d’atto della declinazione di responsabilità per chi produce, distribuisce e somministra i preparati e della circostanza acclarata che qualcuno ha subito conseguenze negative dall’iniezione. Disinformazione? “Danni fisici” prodotti a chi? Come? “Informazioni false”? Il vero e il falso lo decidono loro, attraverso un potentissimo apparato tecnico a cui hanno fornito indicazioni preventive.
Ecco un primo elemento del pensiero unico: qualcuno definisce il bene e il male e impone ciò che è vero in base a criteri tecnici, anzi tecnocratici. Quel qualcuno, nello specifico, è la scienza ufficiale divinizzata, che peraltro Agamben non ha contestato, limitandosi a constatare quella che – a suo avviso – è un’anomalia giuridica, il fatto che l’inoculazione di farmaci avvenga sotto l’esclusiva responsabilità dei soggetti passivi, cioè noi.
Tuttavia, poiché a pensar male si fa peccato ma si indovina, il vero punto critico delle affermazioni di Agamben è un altro, per i padroni del pensiero: “vorrei attirare la vostra attenzione non [sul] problema medico del vaccino ma su quello politico del green pass, che non deve essere confuso col primo. Abbiamo fatto tantissimi vaccini senza che questo ci obbligasse a esibire un certificato. E’ stato detto da scienziati e da medici che il green pass non ha in sé alcun significato medico ma serve a obbligare la gente a vaccinarsi. “Ahi, ahi, è stato detto, ma non da lorsignori: ergo è falso. “Io credo invece che si possa e si debba dire il contrario, e cioè che il vaccino sia un mezzo per costringere la gente ad avere un green pass, un dispositivo che permette di controllare e tracciare – misura che non ha precedente – i suoi movimenti. Le nostre società sono passate dal modello che un tempo si chiamava società di disciplina al modello delle società di controllo, fondate su un controllo digitale virtualmente illimitato dei comportamenti individuali, quantificabili in un algoritmo. “
La lingua batte dove il dente (del Dominio) duole. Il re è nudo, Agamben scopre le carte del capitalismo della sorveglianza. Va oltre: “ci stiamo ormai abituando a questi dispositivi di controllo, ma fino a che punto siamo disposti ad accettare che questo controllo si spinga?” Pessima domanda, sgradita alla Matrix del pensiero: colpito e affondato. Censurato, si badi, non da un’autorità pubblica, che ha una sua forma di legalità, ma da un’azienda privata, che volentieri ospita ogni banalità, le nostre fotografie in qualunque situazione o le succulente pietanze che siamo in procinto di degustare. Non disturbano i manovratori: non-pensieri ammessi, anzi incoraggiati.
La privatizzazione della censura e l’aziendalizzazione del pensiero unico post moderno sono servite. Nel caso in questione, la Bocca della Verità – Zuckerberg e i suoi colleghi di Big Data, Gafam e Big Pharma – una famiglia allargata i cui domines sono noti – si servono della scienza ufficiale, quella promossa, posseduta e orientata dall’oligarchia padrona, non solo per nascondere la dittatura della sorveglianza, ma anche per accusare di violenza i dissidenti.
Scopriamo qui un meccanismo fondante: la pretesa morale, “ipermorale” del pensiero unico, accompagnata inevitabilmente da censura e inquisizioni. Nella società “liquida” degli individui privi di radici, questa si deve presentare in forme nuove. Un moralismo invertito, ma pur sempre tale. Avverte Alain De Benoist che il pensiero unico post moderno si impegna a ostracizzare, ridurre al silenzio in quanto vuol dare l’impressione di stare dalla parte del Giusto. Si presenta come l’Impero del Bene (Philippe Muray) impegnato a moralizzare l’intera società attraverso un’idea di giustizia fondata sui diritti soggettivi – che hanno soppiantato quelli sociali- divenuti la religione civile obbligatoria di un bizzarro ircocervo: la società ultra permissiva e insieme iper moralista.
Il secondo elemento del pensiero unico è la comparsa del politicamente corretto, che si può definire in vari modi, ma il cui senso è di non farci più credere ai nostri occhi, ovvero rovesciare – attraverso lo scambio delle parole giustificato dalla cura di non offendere e non giudicare – la nostra percezione delle cose, conformemente all’ideologia dei Diritti e dell’Equivalenza.
Il terzo elemento – ne abbiamo accennato – è che la censura, il divieto non provengono direttamente dai poteri pubblici, ma dai grandi centri di informazione, comunicazione e intrattenimento privati, capisaldi della “società dello spettacolo” (Guy Debord). Tutti sono allineati a un medesimo cerchio di pensiero in cui si manifesta al massimo grado l’egemonia dell’economia, dei valori mercantili, dell’ideologia dei diritti, e poi cosmopolitismo, materialismo pratico, rigetto dei valori comunitari, rimozione, irrisione del passato.
Chi si discosta anche leggermente non è più un avversario ma un nemico del Bene e del Giusto. Visto in questi termini, ogni pensiero dissonante – da qualsiasi sistema di principi sia animato – viene delegittimato per empietà. La fatwa laica, globalista e neo puritana è lanciata: non solo è obbligatorio attaccare senza remissione ogni deviazione dalla linea, ma – in quanto intrinsecamente malvagi, nemici del Giusto – i suoi portatori non possono essere ammessi nello spazio pubblico. Nessun dialogo si può intrattenere con il Male, né devono sussistere limiti nell’azione contro i dissidenti. Di qui la cultura del sospetto, i processi alle intenzioni, le richieste imperative di abiure sempre rinnovate, le accuse senza prove.
Dialogare con il “nemico” significherebbe accordargli uno statuto di esistenza, una dignità che non può rivendicare in quanto estraneo all’umanità, al Giusto, al Bene. Di più: significa contaminarsi, esporsi alla sozzura che egli incarna. La demonizzazione è, alla fine, una categoria teologica, la cui naturale conseguenza è l’istituzione della polizia del pensiero, formata da sacerdoti del Giusto, officianti dell’Inquisizione, punta di lancia della guerra santa contro infedeli ed eretici.
Il clima è irrespirabile: assenza di dibattito, proibizioni, prassi di esclusione sempre più soffocante, sostenuta da un impianto giuridico che nega in radice l’ideologia dei diritti dell’uomo su cui afferma di fondarsi, giacché sono vietati pensieri, parole, persino gesti. La giustificazione è che il nemico è animato dall’odio. Il suo discorso è pervertito da una costitutiva malvagità: ridurlo al silenzio è un’obbligazione morale. La censura è tornata in forze, unita a un dispositivo di sorveglianza mai così potente nella storia umana.
Fin troppo evidente l’antica radice del nemico assunto come capro espiatorio, additato al ludibrio, da sacrificare in nome della tranquillità e del continuo compattamento della schiera dei Giusti. Ciò implica che il pensiero unico ha bisogno di nemici sempre nuovi, meglio se debolissimi o addirittura inesistenti: essenziale è che la maggioranza si convinca della loro oscura cattiveria e della loro opera disgregante. Contro Emmanuel Goldstein, il fantomatico nemico del popolo in 1984 di Orwell, era scatenata la prassi dei due minuti di odio quotidiano. Il pensiero unico odierno fa le cose in grande: la gogna è montata h.24, officiata dai gran sacerdoti tra gli applausi della curva ultrà.
Possiamo deplorare, lamentarci, ma non basta: i fenomeni vanno smascherati, studiati, analizzati, per poter prendere le contromisure e tentare una controffensiva di libertà. Il pensiero unico non è l’Inquisizione, ma il suo presupposto. La definizione più banale – ma anche la più veritiera – è la seguente: si ha pensiero unico quando tutti pensano la stessa cosa o – per meglio dire – allorché le élite politiche, economiche, culturali e massmediali dicono la medesima cosa, imponendola come indiscutibile verità. La domanda è: perché parlano proprio quella lingua unica, qual è la fonte di un conformismo così esteso e soffocante? Tenteremo una risposta nella seconda parte della presente riflessione.
La via del pensiero vivente come controparte operativa del pensiero di Julius Evola
Le origini remote del pensiero unico occidentale contemporaneo vanno rintracciate nella scissione della conoscenza promossa da Cartesio e Bacone nel XVII secolo, con l’egemonia del sapere tecnico, scientifico e strumentale, che il XIX secolo definirà “positivo”. Il mondo non è altro che un meccanismo; nasce “lo spirito geometrico “(Spinoza), la concezione meccanicista dell’universo, l’utilitarismo generalizzato che fa del pensiero meditante il fanalino di coda della tecnica, innalzando la mitografia del progresso.
Se tutto è meccanismo, è sufficiente scoprirne e organizzarne il funzionamento, per natura indifferente al bene comune e ad ogni altro scopo non riconducibile alla sfera funzionale. La macchina ben costruita si muove da sola dirigendosi verso l’utilità. La politica- cioè il dibattito su principi e scopi della vita comune- va sottratta al caso e alle passioni del momento, cioè al pensiero libero, per costruire una società perfettamente razionale nella quale la persona umana ha lo statuto di atomo o ingranaggio. La volontà deve essere rivolta al perseguimento di un unico interesse, l’utilità individuale. Su queste premesse, il pensiero diventa esercizio “tecnico” secondo regole fisse in vista della soluzione migliore, inevitabilmente unica.
Nasce la tecnocrazia, il cui scopo è apportare la precisione delle cosiddette scienze positive. Se quello è l’unico obiettivo, si deve destituire il pensiero critico, i cui fondamenti riguardano la sfera dei fini, risolta grazie all’individuazione preventiva dell’unicità di un fine predeterminato, identificato con il progresso continuo razionalizzato e organizzato. La società va quindi semplicemente amministrata, gestita in base a regole presentate come leggi scientifiche, razionali e non discutibili, la governance. Produzione, utilità economica, benessere materiale, sviluppo sono identificati con il Bene: non vi è più bisogno di immaginare altro. Il pensiero si focalizza esclusivamente sui mezzi tecnici per aggiungere un unico scopo, anch’esso tecnico.
L’ approccio tecnocratico neutralizza tutti i sistemi di pensiero con esso incompatibili, negando come inutile, ozioso, irrazionale, il conflitto tra attori culturali e politici. Il pensiero non ha più motivo di pronunciarsi sui fini. Non resta altra scelta che rimettersi alle regole tecnoscientifiche definite dalla nuova classe degli esperti. Ogni questione – sociale, politica, morale, culturale- è un problema tecnico, la cui soluzione, come nel calcolo matematico, è unica. L’algoritmo- nella forma e per gli scopi di chi lo costruisce- diventa il dominus: meccanica versus pensiero.
Il progresso tecnico è il metro della storia, il mercato il modello dell’azione sociale. La legittimità – ovvero l’adesione a criteri morali- si riduce a legalità, ovvero corretta procedura sul modello dei protocolli scientifici. Il diritto diventa tecnica e perde il suo significato etico di ricerca della giustizia. L’idea chiave di questo sistema di pensiero fu enunciata negli anni Ottanta da Margaret Thatcher: non c’è alternativa, dobbiamo vivere in un orizzonte di fatalità, entro un determinismo in cui le tavole dei comandamenti sono quelle dell’economia, del progresso tecnico, fatte coincidere con il Bene.
Il volante della macchina (i cui padroni sono i vincitori della competizione truccata nel mercato-mondo!) è in mano alla tecnostruttura, il principio “non c’è alternativa” (TINA, there is no alternative) è esteso a ogni ambito dell’agire umano. In questo senso il pensiero unico diventa ineludibile, giacché il Bene e il Giusto – derubricati a efficacia allo scopo utilitario – possono essere raggiunti esclusivamente attraverso l’indagine tecnica e scientifica. Due più due fa quattro. Questa certezza rende tutto il resto superfluo. Non ha senso opporsi a processi inevitabili, di cui è affermato il determinismo positivo, tanto meno discuterne il significato o l’opportunità. Vano, risibile esprimere giudizi di merito.
Il capitalismo di mercato non è un mezzo di organizzazione economica, ma lo stato naturale della società umana. Fine della storia, inutilità del pensiero. Sconfitta la libertà, depotenziata la democrazia da scelta tra progetti distinti a procedura residuale, tranquillizzante per i sudditi, destinata a favorire – tutt’al più- un ricambio controllato di gruppi dirigenti fedeli alla linea, diversamente uguali.
Il pensiero unico è servito: l’imperio della ragione mercantile in cui il sociale è soffocato dal mercato-monopolio in cui il più grande caccia tutti gli altri; l’efficacia è l’unico criterio di valutazione e il progresso è sempre più di ieri e meno di domani. Il resto non è pertinente, ridondante, un fastidio per chi dirige la macchina, da ridicolizzare prima, eliminare poi perché inutile, astratto, utopia anacronistica di un’umanità bambina. Il dubbio – motore del pensiero- ha l’effetto di chiudere le porte del dibattito. La sedicente società aperta è sbarrata a chi solleva obiezioni.
Ogni fenomeno determinato dai padroni universali- come l’estirpazione delle identità e specificità religiose, comunitarie, nazionali, ora anche sessuali – è presentato come un processo fatale, addirittura naturale, a cui è insensato opporsi. Si tratta invece di costruzioni basate su credenze ideologiche spacciate per fatti oggettivi. Per rafforzare la presa sull’opinione pubblica, i padroni del pensiero unico impongono la rimozione della memoria, del passato, in definitiva del pensiero, che è sempre confronto dinamico con qualcosa di già dato. E’ la cultura della cancellazione, dell’odio di sé, la tabula rasa che chi scrive ha definito volontà d’impotenza.
Poiché all’uomo non si può estirpare tutto senza conseguenze, l’atto successivo è riempire il vuoto con la moltiplicazione del desiderio, che si fa a sua volta pensiero dominante. Con ciò si consegue il duplice obiettivo di implementare i consumi – ovvero i guadagni dell’oligarchia al comando – e di imprigionare in un individualismo di basso profilo, egoista, che nega in radice la natura sociale dell’essere umano. L’effetto finale è il rafforzamento ulteriore del potere attraverso una versione aggiornata dell’antichissimo divide et impera. A tutti è imposto un clima di espiazione, si denunciano i riottosi in quanto “portatori di odio”, criminalizzando pensieri e sentimenti non conformi.
Si elevano peana al pluralismo negandolo nei fatti. Il pensiero unico ha bisogno di punizioni: monta quindi un clima permanente di caccia alle streghe. L’espressione richiama la matrice religiosa. La caratteristica del pensiero unico contemporaneo, ripetiamo, è quella di presentarsi come un’elevata morale. Nasce in America e dalla cultura originaria degli Usa ha conservato- torcendolo – il puritanesimo dei Padri Pellegrini. Porsi sul piano della morale significa erigere le proprie credenze a dogmi. Il dogma è un tabù intangibile: negarlo o dubitarne significa essere eretici, nemici del Giusto e del Bene. Il gioco è fatto: l’opposizione e la messa in dubbio diventano peccati.
Non esiste più l’avversario, ma il nemico assoluto, l’empio nei confronti del quale ogni mezzo è non solo lecito, ma necessario. Un’ altra caratteristica del pensiero unico è che tratta ciò che disapprova come malattia. Dilagano neologismi che terminano in “fobia”. Rosa Luxemburg riconobbe che la libertà è sempre quella di pensare diversamente, ma oggi ciò è liquidato come malattia psichica irrazionale da curare attraverso trattamenti sanitari. La moltiplicazione delle fobie è un aspetto della medicalizzazione della vita: se sei fobico, devi essere sottoposto a terapia o rieducazione, previa apposizione di etichetta. Niente di nuovo sotto il sole.
Chi ha dubbi sull’immigrazione è senz’altro xenofobo; se insiste, diventa razzista, un malato incurabile da rinchiudere nel lazzaretto postmoderno. Se non apprezzi certi “orientamenti sessuali” sei omofobo (parola grottesca che significa timore dell’uguale…) o transfobo, termine orrendo di difficile pronuncia. Malattie psichiche che diventano reati.
Doppio vantaggio: definire malattia o crimine il pensiero esenta dalla fatica di discuterlo. Il pensiero è unico appunto perché non prevede eccezioni, tanto meno obiezioni: la verità è lì, pronta, confezionata dall’alto. La sua evidenza è tale che un’opinione contraria è sufficiente per scatenare, per riflesso pavloviano, l’indignazione dei fedeli. Dovunque si proibisca la discussione, a prescindere dal tema, ci si pone fuori dal pensiero razionale. E’ un pensiero magico, una forma distorta di religione in cui l’avversario -l’infedele- non viene confutato, ma scomunicato. Nessun argomento può entrare in gioco, ogni eccezione è rimossa.
Qui si chiarisce un altro punto decisivo: la sanzione, l’etichetta infamante, la discriminazione, il ricatto- morale e materiale- hanno uno scopo preciso, evitare le argomentazioni, il giudizio e il confronto nel merito. E’ una caratteristica totalitaria, ben rappresentata da ciò che gridò l’accusa giacobina al re: non siamo qui per giudicarvi, ma per condannarvi. La ghigliottina non è ancora allestita, ma funziona un’implacabile condanna morale preventiva, priva di appello, che dispensa dall’esame dei punti di vista.
L’impostura raggiunge il suo acme, anche in termini di incandescenza emotiva per i “credenti”, con le due accuse più infamanti: razzismo e fascismo. Nulla conta che il significato di razzismo sia esteso oltre ogni limite, perdendo l’originaria definizione di teoria che postula la superiorità di qualcuno in base a criteri etnici e biologici. Ancor minore presa ha il principio di realtà che riconosce l’assenza del fascismo, trasformato da ideologia della prima metà del XX secolo a categoria eterna del male, sul modello dell’“urfascismo” teorizzato da Umberto Eco.
L’accusa di razzismo ha lo scopo di impedire un dibattito sull’alterità, sulle differenze che la modernità non sa fronteggiare né spiegare, limitandosi alla negazione pregiudiziale: la polvere sotto il tappeto. La categoria dell’antifascismo è obsoleta e persino comica, a meno di convincersi – lo vuole il pensiero unico- che qualunque espressione dell’”Altro da sé “ sia perturbante e per ciò stesso fascismo. Pensiero magico, appunto, oltreché menzogna creduta per sovraccarico, coazione a ripetere.
Nel 1997, un editorialista del quotidiano borghese Le Monde scriveva: “non si discute con l’estrema destra, la si espelle”. Va da sé che la decisione su chi è e che cosa sia estrema destra è rimesso a lorsignori. La compagnia dei cattivi è piuttosto affollata e in sala d’attesa si ammucchiano categorie, gruppi, pensieri sempre nuovi. Leo Strauss la chiamava reductio ad hitlerum, il paragone costante con il male assoluto per screditare ogni pensiero difforme. Periodicamente – René Girard insegna – viene messo in scena uno psicodramma collettivo, con il sacrificio rituale del capro espiatorio (il fascista, il razzista, l’omofobo, il sessista, ovvero l’Altro).
La cosa più curiosa è che l’antifascismo in assenza di fascismo è una forma speculare di fascismo. Se questo è paradigma di intolleranza, rifiuto della libertà, del libero pensiero (o del pensiero tout court, secondo Norberto Bobbio), fascisti, a rigore, sono i padroni e i credenti dell’ordine vigente. L’antifascismo odierno, infine, è la trappola perfetta, un discorso al servizio dell’iperclasse capitalistica. Sino a quando le sedicenti forze antagoniste si mobilitano contro un fantasma, la Nuova Classe, il potere reale, dormirà tra due guanciali.
Il successo più grande del pensiero unico è la cancellazione della coscienza critica, figlia della cultura, del confronto, dell’analisi razionale. E’ il pilastro di una modernità agonizzante in quanto costitutivamente negativa (“il pensiero che sempre nega”), sostenuta non da un apparato di principi, ma da spauracchi agitati ossessivamente per nascondere le patologie sociali che ha generato e l’abolizione progressiva delle libertà concrete. Consapevole del suo nichilismo, il pensiero contemporaneo brandisce falsi pericoli per celare quelli veri a una folla narcotizzata. Non può permettersi la discussione: l’impalcatura cadrebbe, simile all’ implosione di un edificio fatiscente; enuncia una serie di mali assoluti e pone fuori dall’umanità i sospetti. Attribuisce etichette e le applica come un ergastolo o una stella gialla. Psicanalisti d’accatto interpretano ogni negazione delle vittime come ulteriore conferma, assumendo l’aria allucinata dei moralisti indignati, uguale al fanatismo religioso di ieri.
La conclusione è che il pensiero unico contemporaneo proclama il pluralismo alla partenza per negarlo all’arrivo. Iniziarono, nella dichiarazione dei diritti dell’uomo, con l’affermare che “uno dei diritti più preziosi è la libera comunicazione delle idee e delle opinioni “. Quella libertà è oggi vietata per ragioni asserite “morali”, destituendo in anticipo la legittimità di orientamenti sgraditi. Il pensiero unico diventa teologia, vangelo di una pseudo religione materialista e determinista. E’ la sua caratteristica più vistosa, che permette di sanzionare i sentimenti difformi (“discorsi di odio”), equiparandoli ai peccati: pensieri, parole, opere e omissioni. A differenza della religione cristiana, all’ammissione di colpa non segue la misericordia.
Alla fine, oltre le caratteristiche contingenti e alla faccia dei proclami di libertà, ogni pensiero obbligatorio- quindi unico- è la riproposizione in forme diverse dell’argomento del sofista Trasimaco nella Repubblica di Platone: il giusto è l’utile del più forte. Venticinque secoli dopo, siamo al punto di partenza.