Andare in montagna è tornare a casa (riaccendendo la giovinezza tra le vette)
di Lorenzo Borrè - 06/01/2023
Fonte: Barbadillo
Vado in montagna da quando ero ragazzino, prima mi ci portava mio padre per le vacanze e ora continuo ad andarci almeno due/tre volte al mese con gli amici di una vita, parte dei quali ha condiviso con me le passioni politiche giovanili, passioni impostate ad una visione della vita se non eroica, il più possibile eroica, coniugata con un forte amore per la natura. E via via si è rafforzata la passione per la montagna, non più vissuta come luogo di vacanze, ma come luogo interiore, quello del nostro essere autentico, che in alcuni fortunati è e rimane quello della propria infanzia: quello della costante ricerca dello stupore, dell’incanto, dell’avventura, del cimento fine a se stesso, senza contropartite, se non quella di saggiare i propri limiti, accettandoli nella raggiunta maturità.
E l’andare in montagna, i diversi modi dell’andare in montagna per l’esattezza, rappresenta e rappresentano -per me- un insieme di tutto questo, un insieme che la varietà degli ambienti e delle stagioni consentono ancora di vivere appieno, se si conserva lo spirito giusto, che è poi quello del nostro vero modo di essere, anche perchè -si sa- la montagna svela quello che sei: fatica, difficoltà, condizioni climatiche più severe di quelle cui si è abituati in ambito metropolitano, con cui condivide solo la “levataccia”, l’alzarsi dal letto quando il corpo ti dice che vorrebbe stare ancora comodo e tranquillo per almeno altre due ore e la tua volontà, non il dovere come nei giorni lavorativi, gli si impone, pur sapendo che quello cui si andrà incontro nella giornata è fatto all’80% di fatica, freddo o caldo intensi e in certe occasioni -quando si è deciso di andare per canali e canalini di cui non conosci le condizioni di innevamento- anche di tensione e, non di rado, almeno per me, anche di preoccupazione per l’ ineluttabile variante sconosciuta di quel determinato canalone, che spesso il mio compagno abituale di uscite alpinistiche mi propone. Ma vuoi mettere la soddisfazione interiore dell’avercela fatta?!
Fino al 31 dicembre 2011 le uscite alpinistiche erano per me più spensierate, poi l’esperienza del cadere per 150 metri rotolando come una trottola su uno scivolo verticale di ghiaccio vetrato e di roccette affioranti della parete orientale del Terminillo ha rappresentato una cesura: anche tu puoi cadere, e farti male o peggio. E da quel momento ho vissuto la montagna in maniera diversa, più consapevole del fattore rischio. Fattore che è ineludibile, ma che deve essere calcolato e che ti porta ad essere onesto con te stesso, anche se poi quando rinunci a una determinata salita, il forfait ti lascia, lì per lì, deluso, come se avessi mancato una prova di coraggio, come se avessi voltato gli occhi da un’altra parte in una di quelle lotte di sguardi che tutti noi almeno una volta nella vita abbiamo avuto con qualche sconosciuto arrogante.
Senonchè la montagna non è sconosciuta e non è arrogante, l’arroganza è di chi non accetta i limiti che l’ambiente da una parte e la preparazione fisica dall’altra ti pongono.
E come diceva Aristotele: chi non conosce i suoi limiti, tema il destino, perchè in determinate condizioni ambientali non puoi barare.
Ma questo non significa che la passione non possa poi portare il corpo ad affrontare sforzi che il cervello ti sconsiglia di fare, come altre volte è il cervello che ti consente di affrontare situazioni davanti alle quali il corpo si arresterebbe: l’importante è non abbandonare mai la consapevolezza del limite. Sia comunque beninteso: le mie sono esperienze, a tutto voler concedere, di modesto alpinista dilettante. Gli eroi dell’alpinismo sono a distanza siderale dalle mie esperienze, ma non per questo mi sento sminuito: a ciascuno il suo. E difatti non c’è una prova del fuoco da affrontare -che so: la parete nord dell’Eiger o del Cervino- per entrare nel club degli amanti della montagna.
Del resto esperienze altrettanto appaganti rispetto alle ascensioni invernali sono le uscite tardo primaverili o estive o autunnali, quando ormai la neve è scomparsa o non è ancora ricomparsa: si tratti degli appennini abruzzesi, delle montagne del PNALM o delle prime quinte gibbose a ENE di Roma, i Monti Lucretili, il camminare nella natura, in ambienti in cui l’impronta antropica è pressochè nulla, è un’esperienza che a mio sentire non è paragonabile -quanto a pace interiore- con altre, proprio per quella capacità di suscitarmi ancora, uomo maturo, lo stesso stupore e l’incanto che provavo da bambino vedendo un animale selvatico nel suo habitat o una cascata alpina: i branchi di camosci, le tracce di un orso, il volo di aquile e grifoni, la sfilata regale di un cervo con il seguito di femmine sul profilo di cresta, così come le lotte e gli schianti dello scontro di palchi tra cervi nel mese di settembre sui monti che sovrastano la Vallelonga verso il Tartaro e l’Altare, luoghi e alture ove è possibile arrivare solo a piedi, dove a perdita d’occhio ci sono alberi e macchie di vegetazione e dove all’improvviso senti levarsi, come un coro ancestrale, i bramiti, che vibrano con sempre maggior intensità nell’aria, tra l’orizzonte di verde percepibile ad occhio nudo, ma sconfinato. Ed è allora che pensi che scene simili sono state vissute migliaia di anni fa dai tuoi antenati, che hanno percorso gli stessi tratturi di collegamento tra una valle e l’altra, che quei rituali naturali si ripetono nella stessa stagione da secoli e secoli e secoli. Ed è come se percepissi il sentimento dell’Eternità: ne cogli una frazione, ma lo stupore e l’incanto dilatano il tuo essere lì in quel momento, che diventa un momento eterno. E lo vivi così, semplicemente, senza necessità di esercizi spirituali, senza alcuna iniziazione o sforzo di concentrazione: è come se sentissi il respiro della Terra, lo stesso respiro della Terra che senti e vivi in primavera risalendo i pendii dei Monti della Laga, la vegetazione nuovamente verde, i germogli lucenti degli alberi, i fiori e i piccoli grilli che saltano da uno stelo d’erba all’altro, dando l’impressione che il terreno su cui poggi il piede sia animato, l’acqua dello scioglimento delle nevi che scorre lungo i calanchi in quantità tale che il suo toponimo è “valle delle cento cascate”. E salendo ti perdi, ti confondi con l’ambiente, pensando però alla cima, che poi è solo un punto fisico che indica il termine della salita, di quella salita, ma che già ti richiama all’ascensione verso le vette che da lì vedi lungo un orizzonte che si staglia per 360°, dove la vista non è occlusa come nelle nostre città, dove il suolo che calpesti è naturale.
Ma la montagna è anche tornare ragazzino, l’arrampicarsi con mani e piedi su facili pareti come perpetuazione di quel salire sugli alberi, scalare muretti e scavalcare cancelli che sembra essere una sorta di istinto naturale in certi bambini, come se ci fosse in alto una potente calamita che ti attira, che ti porta ad affrontare la verticalità. Qualcosa di innato, innato certo non in tutti e che ti fa sentire un altro rispetto a chi in montagna, salendo, si pone e ti pone sempre una sola, stessa domanda “quanto manca???”.
Domanda rivelatrice di un certo modo di essere o comunque di una totale assenza di passione per la montagna, per l’esperienza dell’ascensione, un disinteresse per quello che non è a portata di mano o di macchina.
Ed è forse un bene che questi luoghi che ami non siano amati da chi ha dimenticato le ragioni interiori per apprezzarli, perchè la montagna rimane luogo per pochi: soffre le masse e l’aggressività dell’uomo moderno che ricerca nel rifugio d’alta quota lo stesso comfort di uno stabilimento balneare e che pensa di poter affrontare un ghiacciaio in ciabatte da mare.
La montagna soffre, in poche parole, l’invasione di chiunque non abbia il sentimento del sacro e della spiritualità della natura.
Li soffre proprio come me: sarà per questo che la amo, come avrete capito.