Ardire di essere illiberali
di Roberto Pecchioli - 05/05/2021
Fonte: Accademia nuova Italia
Un fantasma si aggira per il mondo: è il liberalismo. Fantasma in quanto ha perduto il suo corpus, è diventato tutt’ altro, irriconoscibile dietro la maschera arcobaleno liberista e libertaria; fantasma perché ha perduto l’anima, se mai ne ha avuta una. Il liberalismo si è fatto totalitario, un incredibile ossimoro, un’impressionante contraddizione con i suoi principi originari che sconcerterebbe uno dei suoi sostenitori più illustri, José Ortega y Gasset. Per il pensatore spagnolo, il liberalismo era un supremo atto di generosità: il sistema di idee che accetta, difende e riconosce ogni minoranza, anche la più debole.
Non è più così, il liberalismo 2.0 è diventato la scimmia di Plotino: reductio ad unum, che riduce tutto all’ Uno, ovvero a se stesso, diventato Unico. Ha privatizzato ogni cosa: beni, merci, risorse, cervelli, pensieri, diritto. Ha ridotto il mondo a un’immensa partita doppia in cui vale solo il conto dei profitti e delle perdite e in cui l’uomo è una merce come le altre. Se volessimo dare una definizione del liberalismo reale, diremmo che è il sistema in cui tutto è ridotto a merce, quindi compravendibile; tutto (ogni cosa, e tutto è “cosa”) ha il cartellino del prezzo. Quindi, nulla ha valore: non di per sé, ma solo in quanto ha un valore di scambio misurabile con il criterio universale del denaro. Da ultimo, il liberalismo vincente e incontrastato si è fatto feudale e, attraverso le organizzazioni transnazionali che paga e promuove, impone un’agenda apertamente anti umana (“non avrai nulla e sarai felice”). Non a se stesso, ovviamente, ma a miliardi di uomini derubricati a servi della gleba, una proprietà tra le tante, solo più fastidiosa da gestire.
Non vi è altra strada per contrastare una deriva ormai chiaramente anti umana e totalitaria, che ardire di essere illiberali, ovvero attaccare alla radice un sistema che ci sta espropriando dell’Essere tenendo esclusivamente per sé l’Avere. Un progetto spaventoso al quale va opposto un rigetto etico, spirituale, esistenziale, ma anche materiale e pratico. La profonda miseria morale di un mondo siffatto fu intuita da Karl Marx in un brano illuminante della Miseria della filosofia. “Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino ad allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtù, amore, opinione, scienza, conoscenza, ecc. – tutto divenne commercio. E’ il tempo della corruzione generale, della venalità universale o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale o fisica, divenuta valore venale, viene messa sul mercato”.
La risposta, tuttavia, fu un materialismo di segno (apparentemente) opposto. Esaurita la spinta del comunismo come collettivismo, il marxismo “culturale” è ripiegato da decenni nel ruolo di mosca cocchiera del liberalismo 2.0. L’ibridazione, la contaminazione tra marxismo culturale e liberalismo progressista ha creato il mostro, il liberalismo oligarchico, totalitario 2.0, che condivide con il marxismo l’ambizione faustiana di forgiare l’uomo nuovo, e con il liberalismo classico la privatizzazione del mondo e l’ostilità per le radici, le fedi, la dimensione comunitaria, solidale e morale dell’essere umano. Si è tolto la maschera nel momento in cui l’ha imposta a tutti noi, complice un virus di cui aspettiamo ancora di conoscere le vere origini e la reale portata sanitaria.
Essere illiberali diventa quindi un’obbligazione spirituale e un atto di autodifesa materiale. Ugualmente, per il carattere totalitario e apertamente intollerante del liberalismo 2.0- fantasma violento di se stesso – comporta un vero e proprio ardimento personale. Non possiamo, tuttavia, vendere – peggio ancora, regalare –l’anima al diavolo. I rischi, per chi leva la voce, sono evidenti. Possiedono tutto, possono tutto: innanzitutto, sono in grado di pervertire la verità, chiamare bianco il nero e bene il male e, purtroppo, essere creduti. Socrate, fondatore dell’etica europea, fu denunciato e imprigionato in quanto corruttore della gioventù. Accusarono il filosofo dei crimini che essi stessi stavano commettendo. Il bispensiero, la lingua capovolta venne inventata nell’Atene sedicente democratica degli uomini liberi. Socrate non permise al potere degli empi, dei corrotti e dei mentitori di processarlo, suicidandosi. A ciascuno di noi spetta di costruire un Socrate collettivo che ristabilisca e difenda la verità in nome dell’Uomo, e sia dunque un intransigente illiberale.
Un recente, illuminante intervento di Aleksandr Dugin, il grande intellettuale russo, getta squarci di luce sulla torsione del pensiero liberale, risolto nel suo contrario. Sua è anche la definizione di liberalismo 2.0. Dugin ha preso atto da tempo della vittoria storica di quella che definisce “prima teoria politica”, il liberalismo, sui suoi antagonisti passati, il comunismo e i fascismi-nazionalismi (seconda e terza teoria politica), proponendo risolutamente l’uscita dalle narrazioni ideologiche di ieri e l’approdo alla Quarta Teoria Politica, radicalmente antimoderna, basata su un nucleo essenziale che ha chiamato, con il lessico di Martin Heidegger, “esserci”, il Dasein,
Complicato, ma non troppo. Al proposito, così scrivevamo in “Uscire dal XX secolo” (Effepi, 2018). “Sul piano politico sociale, il baricentro è la certezza che l’uomo debba rimettere “di lato” l’economia ed inventare un sistema in cui al centro sia quel particolare senso dell’uomo definito Dasein, Esserci. Un uomo concreto, al plurale, poliforme, di cui si accettano ed enfatizzano le differenze perché mille sono le civiltà, i modi di vivere e di affrontare l’esistenza, dare senso al vivere comune. Un uomo “situato” nello spazio e nel tempo, radicato, definito da molteplici ruoli e situazioni, non dalla condizione sociale o professionale, piuttosto dalla combinazione dell’appartenenza ad un’etnia ed a una cultura, dalla sua tradizione spirituale e religiosa, dalla sua collocazione spaziale, e non certo dalla vaga qualifica di individuo o cittadino del mondo. Un uomo che, preso atto del suo esistere, del suo “esserci”, si riconosce nella tradizione di cui è erede, una tra le molteplici in un universo di diversità e distinzioni, e a partire da essa, si confronta in condizioni di pari dignità con tutti gli altri. Un uomo, una persona, che, per utilizzare un formula semplice, “vive e veste panni”, e i panni sono quelli della cultura, della religione, della tradizione, del territorio concreto di cui è figlio.”
Il liberalismo 2.0 ha travolto tutto ed è entrato nella fase ulteriore: quella del divieto e della cancellazione. Cancellare la civiltà europea e occidentale serve alle cupole di potere per eliminare cultura e coscienza comune e promuovere una barbarie di segno nuovo che conviene al liberalismo 2.0 (cioè al capitalismo neofeudale). Il mezzo è eliminare ogni conoscenza che non abbia fini immediati, utilitaristici e strumentali, che “non serve “al mercato, subordinare il bello all’utile, estirpare dall’uomo l’aspirazione al giudizio, allo sguardo verso l’alto, a una libertà non ridotta alla comodità e al piacere immediato, sostituire l’educazione con l’addestramento. Il carattere tragicamente nichilista di tutto ciò era stato compreso da Pier Paolo Pasolini mezzo secolo fa.
L’intuizione di Dugin è l’idea del liberalismo 2.0 come punto di inflessione di un fenomeno nuovo: la pretesa di aver eliminato- con gli avversari ideologi, sconfitti nel 1945 e nel 1989- il conflitto, la distinzione tra nemico e nemico che Carl Schmitt aveva individuato come principi ineludibili del politico, e forse dell’intera esperienza umana. Vincitore, il liberalismo non ha più un nemico, se non se stesso, la propria arroganza, la volontà di spingersi sempre più in là. Il nemico è diventato interno, il liberalismo 1.0. Lo hanno scoperto, materializzato nel 2016 con l’irruzione di Donald Trump sulla scena politica mondiale. Era poco credibile accusare Trump di fascismo; debole l’accusa di populismo; insussistente, non poteva durare l’accusa di essere un burattino del nemico esterno del momento, Vladimir Putin e la Russia. Trump non andava sconfitto, bensì rimosso, cancellato in quanto ultimo liberale 1.0.
Il nemico del liberalismo 2.0 è il liberalismo di ieri. La prova è la convergenza ormai totale e conclamata con il post-marxismo, o post modernismo progressista, depurato dal collettivismo economico, fondato sulla decostruzione- cioè sulla distruzione – sulla teoria critica e la dialettica negativa dei francofortesi, la sinistra dei “diritti” che in Francia chiamano societaria, che ha sostituito l’obsoleta lotta di classe con la guerra dei sessi, delle razze e degli “orientamenti sessuali “. Trump era, irrevocabilmente l’Altro. Non bastava sconfiggerlo, bisognava farne un demonio. Non hanno risparmiato i mezzi: la campagna montata sul caso George Floyd e il movimento Black Lives Matter, lo schieramento dell’intero neo-capitalismo (Big Tech più Big Pharma più la finanza più le maggiori multinazionali) al fianco di Biden, gli evidenti, addirittura rivendicati brogli elettorali.
Il vecchio liberalismo non si sarebbe comportato allo stesso modo. Pur con tutti i suoi limiti, credeva nella regola della maggioranza e nel rispetto della libertà di parola e di pensiero, non attaccava la famiglia e non promuoveva la guerra tra i sessi. Non amava la religione e la comunità, ma esitava a distruggerle.
Il nuovo liberalismo è il contrario: è il totalitarismo dei ricchi più la violenza delle minoranze e delle “vittime” di ieri. Ha trovato in se stesso, in ciò che era, il nemico; da oggi, esiste solo il linguaggio politicamente corretto – cioè il divieto di credere ai propri occhi ed esprimere giudizi – la cancellazione della cultura (e delle culture), il divieto e la criminalizzazione del dissenso. Attacca ormai senza vergogna i fondamenti del diritto; opporsi al Corano neo-liberale è “delitto di odio”, una fattispecie penale che ripugna alla coscienza dei liberali di ieri; accetta, anzi promuove la censura e la cancellazione di interi filoni di pensiero; espelle dal consesso civile i dissenzienti; prospetta un futuro feudale, ovvero, con il loro linguaggio, regressivo, nonché l’abolizione della proprietà privata per tutti tranne che per la Cupola degli iperpadroni.
Dugin è un filosofo; indica derive filosofiche e antropologiche alle quali dobbiamo rispondere con i principi permanenti, ma anche con la concretezza dell’uomo della strada. Pensiamo al significato di quanto accaduto alla Borsa di Chicago nel dicembre scorso, allorché è stato posto sul mercato un prodotto finanziario, un “future” sul prezzo dell’acqua: il liberalismo si fa ufficialmente biopotere anche attraverso il suo braccio finanziario. Un bene primario che significa vita o morte è oggetto di negoziazione speculativa. Quindi è già privatizzato e ad esso si applicherà la legge del profitto di pochi, i soliti. Disgustoso almeno quanto le giustificazioni fornite. I futures sull’acqua si presentano come “uno strumento per gestire il cambiamento climatico, innovativo, in grado di fornire agli utenti dell’acqua (!!!) una maggiore trasparenza e tutto quanto può aiutare ad allineare più efficacemente l’offerta e la domanda di questa risorsa vitale “. Ogni singola parola è un’offesa all’uomo e alla natura.
Ecco perché alla battaglia contro il totalitarismo definito liberalismo 2.0 e la sua evidente disumanità, va affiancata in parallelo una lotta contro la mercificazione radicale del mondo, delle risorse e degli esseri umani. Dugin centra il bersaglio quando dimostra la distanza insormontabile tra il presente e il liberalismo di un Von Hajek- che credeva nella libertà, considerava i valori che oggi chiamano conservatori e tradizionali gli unici in grado di temperare le asprezze del mercato, sistema aperto, non monopolista ed oligarchico e che comunque non esauriva la società e la vita civile. E’ famosa la sua frase-sentenza sul comunismo che può essere facilmente rivolta al capitalismo ultimo: chi possiede tutti i mezzi, determina tutti i fini.
Nonostante i suoi limiti, al liberalismo di ieri non interessava stabilire “fini”, che lasciava (fin troppo) alla scelta individuale. La prima svolta la impresse Karl Popper, la cui “società aperta” sentiva già l’Altro come nemico e gli negava alcuni diritti e libertà. Il salto definitivo è il capitalismo alla Soros, alleato aperto della sinistra più estrema (che finanzia e quindi controlla), partigiano e ufficiale pagatore di tutti i movimenti volti alla dissoluzione e alla cancellazione della società e della cultura di ieri: femminismo radicale, omosessualismo, immigrazionismo, “gender”, correttezza politica, “diritti” umani sempre nuovi al posto di quelli sociali.
Il vecchio liberalismo lasciava- almeno in astratto- che il libero gioco degli attori sociali, economici e civili organizzasse la società. Il liberalismo 2.0 impone la sua agenda, quindi è fuoriuscito dall’individualismo metodologico di ieri. Qui vi è forse il punto decisivo della sua curvatura totalitaria, nemica della libertà. L’etica del liberalismo è nella volontà di sciogliere l’individuo dai vincoli con le entità collettive, famiglia, Stato, comunità eccetera. Il problema sorge nel momento in cui – sconfitte le teorie politiche avverse – consegue l’obiettivo. Che fare, “dopo” nell’epoca post-individualista?
La risposta è drammatica: si passa dall’individuo al “dividuo”, ovvero a un’entità scissa da se stessa, dalla sua natura intima e finanche biologica. Ecco la chiave per spiegare la distruzione programmata dell’ultima identità collettiva rimasta, quella sessuale. Liberare dal sesso significa eliminare l’ultimo dato “oggettivo”, naturale, ascritto. Le peggiori follie dei marxisti borderline degli anni Settanta e Ottanta, Deleuze, Guattari, Foucault, Derrida erano a loro modo chiarissime. Liberare l’individuo da ogni vincolo sociale, morale, materiale non è sufficiente; bisogna sostituirlo con un’entità cangiante, fluida, sempre in movimento, un rizoma informe al quale sarà applicata la “soluzione finale”, l’ibridazione-sostituzione con macchine, robot, menti-alveare attraverso la cibernetica e l’ingegneria genetica. Se questa tesi è corretta, la linea che separa il liberalismo 1.0 da suo figlio naturale, ma degenere, il neoliberalismo 2.0, è la stessa che divide l’umanità dalla disumanità, dalla fine dell’uomo, giacché quello è il progetto transumanista e tecnocratico.
Diventare illiberali si trasforma dunque in imperativo morale, non più un’opzione politica. La novità profonda, rispetto al passato, anche recente, è che nel liberalismo 2.0 non trovano più cittadinanza, legittimità e diritto di esistenza, non soltanto i fautori delle tramontate teorie politiche di stampo socialista e nazionalista, ma neppure i liberali di ieri. Essere illiberali nel Terzo Millennio significa tornare alla Persona, all’Uomo, al Lavoratore, ma anche all’Individuo. I liberali classici, per il liberalismo 2.0, sono nemici quanto i sostenitori di altre visioni politiche, spirituali, economiche e morali.
Ciascuno mantenga le sue origini, i giudizi e anche i pregiudizi, ma si unisca al fronte di chi lotta per l’uomo, la libertà, la giustizia sociale, il bene comune contro il Leviatano oligarchico neoliberale. Avremo tempo per litigare tra noi e quando e se vinceremo non la battaglia, ma la guerra. Contro il male, contro la dissoluzione e la cancellazione, non possono sussistere futili divisioni. Primum vivere, deinde philosophari. Innanzitutto vivere, al resto penseremo dopo: Golia è tra noi e si proclama liberale. O con lui o contro di lui.