Barack Obama all’Assemblea delle Nazioni Unite: un discorso o un’ammissione di sconfitta?
di Filippo Bovo - 22/09/2016
Fonte: l'Opinione Pubblica
In questi giorni si tiene l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, scelta da molti capi di Stato come luogo nel quale dare spettacolo di sé, magari denigrando gli altri e soprattutto gli avversari più prossimi. Non è di certo sfuggito a questa regola Barack Obama, presidente uscente degli Stati Uniti, ormai ridotto ad un’anatra zoppa, come si suol dire nel gergo nordamericano per intendere gli inquilini della Casa Bianca nei loro ultimi due anni di regno, che di fronte ai rappresentanti di quasi duecento nazioni, grandi e piccole, ha vomitato tutto il proprio astio verso la Russia, colpevole d’aver fatto fallire gran parte dei suoi piani.
“La Russia cerca di riguadagnare con la forza la gloria perduta”, ha detto infatti Obama, muovendo così un grave rimprovero a Vladimir Putin. Viene tuttavia da chiedersi, al di là della facile retorica obamiana, in che modo la Russia starebbe cercando di riguadagnare l’antica gloria perduta, e soprattutto con quale uso della forza. Nel caso dell’attacco statunitense alla Libia, coordinato con la Francia e l’Inghilterra, e fortemente richiesto da Arabia Saudita e Qatar, infatti, la Russia semplicemente in sede di Consiglio di Sicurezza dell’ONU s’astenne, per la precisione sulle famose risoluzioni n. 1971 e 1973 che bloccavano i beni all’estero dei Gheddafi e che imponevano la No Fly Zone sulla sola Cirenaica. La Russia protestò quando Stati Uniti, Francia ed Inghilterra trasformarono la No Fly Zone sulla Cirenaica in un permesso di bombardamento su tutta la Libia, ma ormai era troppo tardi e la sorte di Gheddafi, come sappiamo, segnata. È anche vero che a quel tempo, a guidare la Russia, vi era Medvedev e non Putin, che nel ruolo di premier definì l’attacco alla Libia “una nuova crociata” affermando che se fosse stato presidente non avrebbe esitato ad imporre il veto.
Nel caso dell’Ucraina, i soldati russi non hanno mai varcato i confini di Kiev, dal momento che già si trovavano in Crimea e a Sebastopoli con proprie basi secondo accordi russo-ucraini scritti all’indomani della fine dell’URSS e che in ogni caso avevano le loro ascendenze già in epoca sovietica. Quando vi è stato il golpe a Kiev, in Crimea il parlamento eletto da una popolazione a grande maggioranza russofona s’è subito pronunciato per l’indipendenza, dichiarandola, e quindi ha indetto un referendum per ratificarla, subito votatissimo. Il tutto avveniva secondo clausole riconosciute dalla stessa costituzione ucraina, che assegnava alla Crimea uno status speciale comprendente anche il diritto alla secessione. Non vi è stata, neppure in quest’occasione, un’azione russa decisiva o riconoscibile nelle forme di un’invasione o perlomeno di una semplice ingerenza politica.
Diverso è il caso della Siria, dove di fronte alla minaccia di un attacco anche stavolta statunitense, inglese e francese, avallato da sauditi e qatarioti, la Russia è intervenuta insieme alla Cina schierando la propria flotta. Questo deterrente o dissuasore che dir si voglia ha impedito una nuova guerra in Medio Oriente, salvaguardato l’ordinamento internazionale e scongiurato soprattutto un attacco basato su falsi pretesti, dato che s’accusava Assad d’aver usato delle armi chimiche che invece, com’è stato poi scoperto, erano state utilizzate dai cosiddetti “ribelli” del Consiglio Nazionale Siriano e dell’Esercito Libero Siriano, i quali al di là delle definizioni più rassicuranti possono comunque essere tranquillamente assimilati per modi ed efferatezze ai tagliagole dell’ISIS e di Al Nusra.
Successivamente la Russia è intervenuta in Siria, colpendo l’ISIS e facendole perdere in un mese più del 40% del territorio: anche questo è stato un caso piuttosto curioso, visto che in precedenza gli Stati Uniti avevano bombardato il Califfato per un anno senza che questi non soltanto non perdesse un chilometro quadrato di terreno, ma facendoglielo addirittura guadagnare. Per forza: con la scusa di bombardare il Califfato, gli americani e i francesi invece bombardavano le postazioni dell’esercito siriano e di Hezbollah, mentre agli uomini dell’ISIS paracadutavano, sempre per errore, si capisce, armi e munizioni. Così, grazie ai bombardamenti americani, l’ISIS aveva raggiunto Palmira, mentre grazie a quelli russi l’ha persa. L’intervento russo, che non a caso la Turchia ha cercato di contrastare in tutti i modi, anche abbattendo un aereo dell’aviazione di Mosca, in quindici giorni ha sbugiardato alla grande un anno di menzogne americane sulla pseudo-lotta al terrorismo.
Alla luce di tutte queste considerazioni, viene dunque da chiedersi dove la Russia stia usando la forza e a danno di chi. La verità è che la Russia, senza alcun uso della forza, semplicemente limitandosi a parare i tentativi di gol della Casa Bianca, ha saputo mettere in crisi tutte le strategie di quest’ultima volta a creare“un nuovo secolo americano”. Lo ha fatto con Bush, repubblicano neocon, ed ha saputo riuscirvi anche con Obama, democratico neoliberal. In entrambi i casi tanto il primo quanto il secondo sono tornati a casa con le pive nel sacco.
Ma in questo caso non è colpevole la Russia, che s’è astenuta dall’usare la forza e dal cadere nei tranelli tesi dalla Casa Bianca e dal Pentagono, giocando d’astuzia: sono infatti gli ultimi due presidenti americani ad aver dimostrato scarsa lungimiranza e preparazione politica. Lanciare sterili accuse dal palco delle Nazioni Unite, da questo punto di vista, non cambia certamente la storia.
E anche per quanto riguarda i rapporti con l’Europa, non c’è molto da gioire. Barack Obama ha detto che l’UE deve impegnarsi di più per i profughi. Viene da chiedersi cosa facciano gli Stati Uniti con le tante persone che ogni giorno cercano d’oltrepassarne la frontiera. Dai tempi di Bill Clinton fra Messico e Stati Uniti c’è un muro, dal quale tutti i messicani che cercano d’attraversarlo vengono molto semplicemente impallinati.
Dopo venticinque anni, stiamo ancora a fare tanta retorica sul Muro di Berlino, che in 28 anni di storia è costato la vita a 28 persone, e non diciamo nulla di quello statunitense che ha causato la morte di migliaia di messicani. E men che meno si dice qualcosa dei latinos, che negli Stati Uniti sono considerati una classe sociale di serie B, o degli afroamericani, che adesso anche grazie alle politiche illusorie di Obama sono in aperta rivolta, con una situazione di vera e propria guerra civile. Obama che parla di profughi all’Europa ricorda molto da vicino, in questa situazione, quel bue che dava del cornuto all’asino.