Benigni manipola la storia e decanta una Europa che non esiste
di Alessio Mannino - 20/03/2025
Fonte: Insideover
Più che un Sogno, lo spettacolo di Roberto Benigni in prima serata su Rai 1 è stato un’iniezione di Xanax: bolso, palloso, prevedibile. Se voleva radunare lo share degli “europeisti estremisti” (autodefinizione sua) e tenerli incollati fino al termine della concione, ci è riuscito con la tecnica degli oratori funebri: farli appisolare. Del resto, l’ex Cioni Mario non fa il comico ormai da un bel po’. Non fa più ridere almeno dal 1991, ai tempi di Johnny Stecchino, e ieri, una sola risata di pancia non l’ha cavata neanche di striscio. Manipola allegramente la Storia, come quando fece liberare il lager di Auschwitz dagli americani, anziché dai russi, ne La vita è bella, gran paraculata per beccarsi l’Oscar; e anche stavolta non è stato da meno, ricostruendo origini e sviluppo dell’Unione Europea secondo una descrizione di pura fantasia (il boom economico dell’Italia sarebbe il frutto del mercato unico: sì, certo, e le partecipazioni statali, la programmazione economica, l’Iri, l’Eni di Enrico Mattei, e mettiamoci pure il peloso Piano Marshall, quelli fingiamo non siano mai esistiti).
È riuscito a far peggio di Serra, Vecchioni & C nell’europiazza del 15 marzo: se là ci si aspettava esattamente quel che si è visto e ascoltato, e cioè una parata di intellettuali, o presunti tali, tutti seriosamente intenti a magnificare il primato antropologico dell’Europa, Benigni non è stato in grado neppure di escogitare un’immagine, una battuta, un’alzata di ingegno per infondere quel lirismo poetico che si prefissava. Non basta ripetere ossessivamente i soli due aggettivi di cui è capace, “straordinario” e “meraviglioso”. Sul piano artistico, ha confermato di essere spento, scontato, a corto di idee. Il riflesso vivente del vuoto in cui galleggia la sua controparte politica, il Partito Democratico.
Le banalità di Benigni su Rai1
Nei contenuti, si è limitato a sciorinare l’elenco dei più retorici luoghi comuni: Europa garante di pace, Europa culla della democrazia, Europa faro di civiltà, Europa fonte di ogni salvezza. Pace, democrazia, civiltà, salvezza? Peccato per la guerra in Yugoslavia, per il Kosovo unito con lo sputo, e per l’indecente bombardamento Nato di Belgrado nel 1999. Peccato per la Romania, che elimina ben due candidati alle presidenziali in quanto “filo-russi”, abolendo d’imperio la rappresentanza elettorale. Peccato per quella che sarebbe la vocazione più genuina di un’Europa “unita nella diversità”, vale a dire l’apertura al mondo e il rispetto, quanto meno per il passato, delle altre culture ciascuna con la propria, peculiare saggezza (a enumerarle, non si finisce più: cinese, indiana, africana, persiana, russa, arabo-islamica, ecc). Peccato per la Gran Bretagna, Paese che deve farsi perdonare parecchio ma che sicuramente non è l’ultimo degli scantinati, una Gran Bretagna che con la Brexit pare essere sopravvissuta all’uscita dalla Ue (e Starmer oggi al Governo, un laburista, non un bieco conservatore, non dà segni di voler far retromarcia).
Peccato, in sintesi, per il razzismo culturale e l’acritica acquiescenza al mito del “mercato” che questo ex giullare ha condensato contrapponendogli un nemico, il nazionalismo, che se torna a farsi sentire è perché la Dis-Unione Europea si fonda su un equivoco fin dall’inizio: quello di sorgere in nome di un’ideale di fratellanza fra popoli, quando invece a fondarla sono stati precisi interessi nazionali e precise concezioni ideologiche, che con la fraternità e l’amicizia c’entrano poco. In primis da parte della Germania mercantilista, che a Maastricht impose un euro tarato sull’allora marco tedesco e un credo, l’ordoliberismo teutonico, a cui dobbiamo ciò che di fatto è l’Ue: una gabbia fiscale e finanziaria, concepita per tagliare i diritti sociali (Trattato di Lisbona) e rendere illegale ogni pur timido kenynesismo (obbligo di pareggio di bilancio), con giusto una verniciatura di Erasmus e, si capisce, le guarnigioni Usa ben acquartierate in centinaia di basi Nato. Il tutto, va da sé, modulabile a seconda delle esigenze dei Paesi egemoni. Per cui ora Berlino, dopo averlo scolpito nella pietra, cancella trent’anni di rigore sul debito dall’oggi al domani per riarmarsi. Heil, Herr Merz!
Il silenzio di Benigni sull’Europa oligarchica
Alla fine della fiera, l’unico punto della sua concione in cui Benigni-Maligni si è lasciato scappare una verità è stato quando ha dovuto ammettere che il Parlamento di Strasburgo e Bruxelles non conta niente perché non legifera. In pratica, dal 1979 andiamo a votare alle europee per rinnovare un simulacro, una parvenza di democraticità a coprire una struttura in tutto e per tutto oligarchica, in cui il Governo non è affatto la Commissione (ennesimo erroraccio benignesco) ma il Consiglio Europeo, nel quale sono ancora e sempre i Governi dei singoli Stati a mantenere il potere decisionale. Tanto è vero che il fantomatico esercito unico non potrà mai nascere non solo perché la sua nascita è inconciliabile con l’esistenza della Nato, ma anche perché è sufficiente che uno Stato ponga il veto e si blocca tutto.
Ma non è per egoismo che ciò è stabilito, come da favola moralistica che piace tanto alle anime belle. È perché i contesti storici, sociali e politici dei popoli trovano nella cornice dello Stato nazionale l’espressione a tutt’oggi più aderente per dar forma alle loro specificità. Nonostante la globalizzazione dei costumi e dei consumi, la società francese, per dire, non è sovrapponibile, per storia, composizione di classe, tradizioni statali, a quella italiana o a quella spagnola o germanica. Altrimenti si va a parare nel vizio mentale di immaginare una realtà non solo irreale, ma potenzialmente autoritaria. Una tara tipica degli utopisti armati di buone intenzioni, di cui è lastricata la famosa strada che conduce all’inferno.
L’adorazione strumentale per Il Manifesto di Ventotene
Esempio da manuale: l’adorazione per il feticcio chiamato Manifesto di Ventotene. Naturalmente citato con profluvie di superlativi dal fu “piccolo diavolo”, si tratta di una delle più grandi sòle rifilate all’opinione pubblica, specialmente italiana, da questa pseudo-Europa di contabili. Lo “spirito di Ventotene” è come l’araba fenice: cosa sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. Parliamo di uno scritto redatto al confino nel 1941 da tre antifascisti, il comunista anti-stalinista Altiero Spinelli, il liberal-socialista Ernesto Rossi, e il socialista Eugenio Colorni. Morto quest’ultimo (assassinato dalla banda Koch), fu soprattutto Spinelli a tenerne vivo l’impianto concettuale nel Movimento dei Federalisti Europei, negli anni Quaranta un’insignificante minoranza.
E tale rimase per decenni e decenni, tanto è vero che fino agli anni Ottanta del secolo scorso, gli anni dell’egemonia neo-liberale (Reagan, Thatcher, e nell’allora Comunità Economica Europea, il socialista convertito liberista Jacques Delors), di questo Manifesto non si trovano menzioni degne di nota. In altre parole, non è affatto il testo fondativo di quel processo che partì nel dopoguerra sull’energia (carbone e acciaio), proseguì con una prima, piuttosto blanda unificazione (Trattato di Roma), accelerò dalla fine degli anni Settanta in poi (euro-parlamento) per compiersi negli anni Novanta, dopo la caduta del Muro e la Germania riunificata, con la moneta unica e le successive strette al grido “ce lo chiede l’Europa!”.
Il Manifesto torna utile come Bibbia sacra dell’europeismo di comodo perché associa, in maniera confusa, aspirazioni vagamente socialisteggianti, ergo romanticamente “popolari”, con la fissa di ogni intellettuale da scrivania: imporre in modo coercitivo, dall’alto, un modello sedicente illuminato, senza fare i conti con le contraddizioni del reale. Giorgia Meloni, da una visuale di destra, può anche agitare lo spauracchio della “rivoluzione socialista” e della “proprietà privata da abolire” di marca spinelliana, ma centra il bersaglio solo quando sottolinea l’aspetto schiettamente neo-liberale che convive in quel guazzabuglio: l’idea che il popolo è “immaturo”, che la “metodologia democratica” è un “peso morto”, e che insomma la futura “federazione”, secondo il confusionario Spinelli, avrebbe dovuto piallare le nazioni, beninteso in un “mercato unico” di piccoli proprietari liberati dall’oppressione di Stato, mediante un’imposizione elitaria. Il problema, cara Meloni, è che nonostante il sempiterno “Dio, Patria, Famiglia”, anche l’odierna destra italiana persegue una politica, nei fatti, neo-liberale, colpevolizzando i poveri, privatizzando gli asset pubblici, coltivando un mercato del lavoro precario e, vera cartina di tornasole, guardandosi bene dal toccare le esorbitanti rendite di posizione degli oligopoli (banche in testa).
L’esito logico-storico di quell’elaborazione che, diciamolo al netto della buona fede dei suoi autori, era e resta un parto mediocre, è stato fornire una giustificazione ideale, colta, alta, e soprattutto ammantata di antifascismo, a una visione di pura oligarchia di mercato. Altro che socialismo. Non per nulla Spinelli, per spingere la propria elezione a Bruxelles da indipendente del Pci nel 1979 (il Pci di Berlinguer, dell’austerity e del filo-atlantismo), si premurò di redigere un pamphlet in cui teorizzava meno spesa pubblica, meno spesa sociale, contenimento dei salari nonché un improbabile, e inquietante, “servizio obbligatorio di lavoro” per i giovani. Insomma: strumentalizzato, equivocato, ingigantito, sopravvaluto, il Manifesto di Ventotene è un documento, come ha scritto per una volta onestamente il Corriere della Sera, che “appartiene alla Storia”. O che può giusto fornire materiale innocuo per innocui e barbosi show di ex trickster sulla via della pensione.
…