Brexit, sovranità e teoria monetaria moderna
di Roberto Pecchioli - 11/02/2020
Fonte: Ereticamente
E se la Brexit fosse un toccasana per l’Inghilterra? E’ quel che teme l’eurogarchia a Bruxelles. Finora sembra proprio così: economia più fiorente, il controllo delle frontiere, una libertà d’azione che la gabbia degli eurocrati non consente. La moneta propria era stata già conservata, la vecchia sterlina della Banca d’Inghilterra fondata dopo la “gloriosa rivoluzione” alla fine del XVII secolo. Pazienza se torna qualche convulsione scozzese: a nord del vallo di Adriano chiedono l’indipendenza per diventare dipendenti di Bruxelles. Il mondialismo odia gli Stati nazionali forti, promuove il secessionismo di piccole nazioni senza Stato. E’ così anche in Spagna, con l’indipendentismo catalano che vuole staccarsi da Madrid per attaccarsi di più all’Unione Europea.
Intanto, non se ne può più di menzogne, attacchi, ironie e sarcasmi degli europoidi installati nelle maggiori redazioni e nelle università che fanno opinione e, purtroppo, scienza creduta. La prima obiezione che muoviamo loro è l’incomprensione – meglio la tenace negazione – dei sistemi monetari postmoderni fiat. In più, ci annoiano sino all’estenuazione raccontandoci con una lacrimuccia alla Pierrot su quanto siano anti solidali gli inglesi e quanto pagheranno cara l’uscita dal paradiso europeo. Si sbagliano, i prezzolati camerieri del sistema. Nel Regno Unito le cose vanno piuttosto bene, in economia, e probabilmente miglioreranno ancora. Hanno la sovranità monetaria, aumenteranno il salario minimo e presto abbandoneranno l’austerità del bilancio, quell’immonda regola del pareggio che ci hanno costretto a inserire nella costituzione. Peggio per noi dell’Europa mediterranea, Italia, Spagna e Francia. Il modello mercantilista iper esportatore tedesco è in crisi. Le banche tedesche reggeranno se faremo l’errore di approvare il Mes, Meccanismo Europeo di Solidarietà, costruito per distruggere gli ultimi pezzi di sovranità finanziaria e di spesa degli Stati “canaglia” dell’Europa meridionale e, di passaggio, trasferire il nostro denaro ai virtuosi dell’Europa a trazione germanica.
L’ ennesima invenzione è il falso New Deal verde presentato qualche settimana fa dalla Commissione europea. Si tratta di un imbroglio favorito dalle “virtuose” discussioni sul clima e dalla diffusione del Greta-pensiero, destinato a favorire una nuova estrazione di redditi privati europei, con il pretesto di salvaguardare l’ambiente, il cui unico beneficiario sarà il settore industriale tedesco con i suoi satelliti dell’Europa Orientale, l’eldorado del lavoro a basso costo con manodopera e tecnici d’eccellenza. Sorprende che non reagiscano le élite dei paesi mediterranei, donatori di sangue silenziosi di un modello di crescita economica (altrui) dannoso anche alla salute. Tutto in nome di un europeismo falso come l’oro di Bologna che diventava rosso per la vergogna.
Nel Regno Unito mantengono la loro sterlina, Boris Johnson, l’odiato nemico dell’Unione Europea, aumenterà i salari minimi e abbandonerà l’austerità di bilancio imposta dall’ordoliberismo. Ci si dovrebbe attendere una reazione, un cambio di direzione, quanto meno la discussione di bilanci più equilibrati a favore dei cittadini. Silenzio o retorica europeista creduta ormai solo dagli sciocchi e dalle classi alte. Ripetiamo per l’ennesima volta una ricetta molto semplice: i governi che emettono le loro valute non hanno problemi a finanziare ragionevolmente la spesa e non possono rimanere senza denaro. Il culto del rigore, rectius della scarsità di moneta, dogma fallimentare del monetarismo di Milton Friedman, pilastro del cosiddetto Washington Consensus, deriva da una logica stravecchia tramontata a Bretton Woods, seppellita definitivamente nel 1971, il modello fondato sulla convertibilità in oro.
Il monetarismo ideologico si infrange sui sistemi monetari fiat moderni, ossia la creazione del nulla del denaro virtuale, come hanno dimostrato anni di quantitative easing, miliardi creati con un clic sul server centrale di Francoforte, che la Banca Centrale Europeo ha girato non ai governi o al sistema economico, ma alle banche commerciali. Il Regno Unito post Brexit può diventare la prova inconfutabile dell’insostenibilità a lungo termine del modello tedesco e della distopia dell’euro, la moneta posseduta da una banca privata che non fa la banca centrale – non è prestatrice di ultima istanza e non emette titoli propri– e soprattutto, rappresenta economie, sistemi e Stati tanto diversi, un sistema soffocante di cambi fissi.
Il Regno Unito ha sovranità monetaria, una banca centrale che comprende il carattere endogeno del denaro- ovvero che è una creazione del sistema- e capisce le moderne teorie monetarie. In più, il governo di Boris Johnson intende rimuovere la camicia di forza dell’austerità di bilancio. Ha preso atto dell’importanza del principio della domanda effettiva, e aumenterà la spesa pubblica nella sanità e nell’istruzione. Il salario minimo salirà in modo significativo. Che pericoloso bolscevico il conservatore BoJo!
I politici dell’Europa mediterranea chiudono gli occhi, specie in Italia e Francia. Compressione delle spese, bassi salari, previdenza al ribasso, lavorio precario e malpagato, sanità sempre più cara. Per queste politiche antipopolari ricevono il soccorso inestimabile di economisti e prestigiosi uffici studi, la cui conclusione è invariabilmente che l’aumento del salario minimo genera disoccupazione. Falso. Con una curva matematica empirica non è difficile dimostrare che non vi è un rapporto negativo tra il livello del salario reale e la domanda di manodopera delle aziende, una volta controllato il debito privato. E’ invece un fatto che l’UE non persegua né la piena occupazione né la giusta retribuzione dei lavoratori, giacché utilizza un indicatore di bilancio, il NAIRU, (Not Accelerating Inflation Rate of Unemployment), volto a individuare il tasso di disoccupazione da mantenere ad inflazione stabile. Promuove cioè la disoccupazione in nome della magica “stabilita”, ovvero la scarsità di denaro circolante, obiettivo statutario della BCE iscritto nei trattati dell’Unione, l’istituzionalizzazione del dominio dei sedicenti creditori sui debitori, i popoli! A Bruxelles non vogliono capire: d’altronde il loro compito è eseguire gli ordini della finanza internazionale.
L’ Unione monetaria europea è un sistema difettoso fin dalle origini. Venne imposta ignorando obiezioni e raccomandazioni dei rapporti Werner (1970) e Mac Dougall (1977), in cui si avvertiva della necessità di un sistema di imposte “federale” e del pericolo di lasciare tutto nelle mani di una banca centrale indipendente da Stati e governi, e stabilire, in tale contesto, un insostenibile cambio fisso. Tutto questo è stato dimostrato dalla Grande Recessione nel 2008. Dall’inizio della crisi, erano possibili soluzioni più eque ed efficienti di quelle messe in opera. Ma la politica tace, quando è al servizio di chi sta più in alto, l’oligarchia globale. Esisteva un percorso alternativo, la cancellazione dei debiti e meno austerità, ma non è stato mai preso in considerazione.
Il debito è stato usato come grimaldello per stringere l’ordine economico neoliberista. Un’ alternativa avrebbe contribuito a preservare il modello sociale europeo e cambiato l’agenda neoliberista. Le conseguenze le conosciamo, qualche paese, come Grecia, Portogallo, Italia le sente sanguinare sulla pelle, ma a Bruxelles vanno avanti, di vittoria in vittoria, fino alla sconfitta finale.
Lamentarsi, tuttavia, serve a poco, come poco vale aver detto la verità con anticipo. Bisogna proporre soluzioni, a partire dall’evidenza che sovranismo e liberismo non possono coesistere. Noi scegliamo il primo, invitando le forze che si riconoscono nell’idea di sovranità a prendere atto che il primo macigno da cui occorre liberarsi è la dipendenza dall’emissione monetaria privata. Poco varrebbe anche l’uscita dall’euro, se la lira restasse in mano a una banca privata con soci esteri, quale è oggi la Banca d’Italia. Esistono diverse teorie economiche fondate sulla sovranità e proprietà pubblica della moneta. In Italia, è nota la scuola che fa riferimento a Giacinto Auriti e alla sua teoria della proprietà popolare della moneta.
Negli ultimi decenni, tuttavia, si è assai diffusa una scuola chiamata Teoria Monetaria Moderna, o MMT (Modern Money Teory). E’ una teoria post keynesiana, convinta che l’obiettivo centrale degli Stati sia garantire la piena occupazione attraverso l’emissione sovrana della moneta, accompagnata da una tassazione redistributiva e da una politica di spesa finanziata dai titoli di Stato. Criticati ferocemente dal mainstream, avversati dalle cupole finanziarie e dai loro terminali accademici e politici, gli economisti della MMT hanno però fatto molta strada, tanto che le loro idee sono entrate nella campagna elettorale negli Usa. La candidatura di Bernie Sanders è osteggiata dall’apparato di potere del Partito Democratico proprio in quanto favorevole alla MMT. Vale quindi la pena conoscerla meglio. Cambiare è urgente e indispensabile; non si possono più utilizzare le ricette fallite da anni che hanno portato povertà, precarietà, disoccupazione e ingiustizie inammissibili. Non si può affrontare un problema con i mezzi e l’approccio culturale che lo hanno generato.
Non tutte le questioni economiche e sociali derivano dalla mancanza di sovranità monetaria statale, ma il suo recupero è la condizione preliminare per affrontarli. Il fronte sovranista deve esprimere un suo modello economico, sviluppare un pensiero antiliberista. Resistono, se i termini hanno ancora un senso, una destra e una sinistra antiglobalisti. Il sovranismo di destra finirà nel nulla se continuerà a credere in ricette economiche liberiste, così come la sinistra non può ignorare la dimensione comunitaria, etica, identitaria che deve sostenere un progetto alternativo. Non esprimiamo giudizi sulla MMT, ma prendiamo atto che ha scosso il mondo accademico. Ne hanno parlato liberisti di ferro come i banchieri Christine Lagarde e Mario Draghi, è inserita nel programma di esponenti politici americani e, in Italia, da un settore del Movimento Cinque Stelle, in particolare da Gianluigi Paragone.
La MMT affonda le radici nel “cartalismo” del secolo scorso, la concezione per cui la moneta serve agli Stati per indirizzare l’economia. Non è quindi neutra, un semplice strumento di misura, come sostiene l’approccio classico. I principi basilari della MMT sono la natura pubblica dell’emissione monetaria, l’importanza del sistema fiscale, la redistribuzione del reddito e il perseguimento della piena occupazione. Lo Stato prima crea la moneta contabile, quindi impone delle tasse modulate allo scopo di spingere la domanda. Le imposte devono fornire margine di manovra per una spesa pubblica equilibrata, che accetti una moderata inflazione e si ponga obiettivi a lungo termine (infrastrutture, scuole, sanità, eccetera), da realizzare a debito, con la formula dell’emissione di titoli di Stato. La recessione viene spiegata con la carenza di domanda interna, un elemento che caratterizza l’Europa da almeno quindici anni, da contrastare con la spesa pubblica e la creazione di liquidità.
In caso di inflazione eccessiva, si agisce attraverso la leva fiscale, orientata a sottrarre denaro dalla circolazione. La condizione preliminare della MMT è che lo Stato si riappropri della sovranità monetaria ceduta alle banche. I paesi che possono emettere moneta sono liberi da vincoli di bilancio esterni, definiti o imposti dal sistema finanziario privato. Altro principio chiave della MMT è quello dello Stato “datore di lavoro di ultima istanza”. Il capitalismo lasciato a se stesso, agli spiriti animali (Keynes) e alla distruzione creatrice (Schumpeter) non è interessato al pieno impiego. Vuole debitori, servi precari e consumatori a credito. Lo Stato, attraverso programmi mirati, (conservazione dei beni culturali, del territorio, ricerca scientifica nei settori cruciali dell’ecologia, dell’energia e dell’innovazione) può fornire lavoro non assistenziale utile alla comunità.
Warren Mosler, uno degli economisti di punta della MMT, ha rovesciato il paradigma dominante degli ultimi decenni con la sua idea del deficit pubblico. È lo Stato a dover prima spendere, altrimenti per i cittadini non vi saranno mezzi con cui pagare le tasse o comprare titoli del debito pubblico. Si sottrae così la giustificazione più grande alla politica di austerità, l’idea che le cose non si possono fare perché “non ci sono soldi”. Uno Stato che recupera la sovranità monetaria ed emette titoli di debito pubblico nella sua valuta non rischia il fallimento.
Occorre un doppio cambio di paradigma, che si accetti la MMT o si ritengano più fondate altre teorie sulla emissione pubblica della moneta. Va cambiato il modello economico culturalmente dominante, il monetarismo sorto alla fine degli anni Settanta del XX secolo. Il mondo cambia a velocità crescente: non può organizzarsi attorno a un’ideologia vecchia di oltre quarant’anni, il cui esito è sotto gli occhi di chiunque voglia guardare. La rivolta c’è, possiede alcune idee-forza e ha capito il fallimento di élite divenute oligarchie autoreferenziali. Secondo un altro padre della MMT, Bill Mitchell, recentemente intervenuto in Italia, è lo stesso sistema bancario a chiedere agli Stati di riprendere in mano la politica fiscale per politiche espansive, ovvero in deficit. L’esempio giapponese è la prova della fallacia monetarista. Il rapporto deficit/PIL è del 250 per cento, il doppio dell’Italia, ma l’economia è in salute e ha contraddetto gli economisti che ne profetizzavano l’implosione.
L’altro paradigma da ribaltare è quello della decadenza degli Stati nazionali. Ci hanno detto che serve un governo mondiale, la globalizzazione e il mondialismo sono il destino inevitabile e non vi è alternativa alla situazione corrente. E’ la menzogna più grande, a cui dobbiamo opporre l’idea di Stato, un’istituzione di cui è dimostrata la necessità e la convenienza economica. Sovranità significa avere in tasca le chiavi di casa e innanzitutto della cassaforte. Il problema è che bisogna credere nello Stato, restituire dignità all’idea di appartenenza, al concetto di comunità etica che si organizza attorno al desiderio di un futuro comune. Tornare Italia, Stato, popolo, nazione.