C’è bisogno della verità come dell’aria per respirare
di Francesco Lamendola - 24/12/2020
Fonte: Accademia nuova Italia
La cultura relativista e materialista in cui siamo nati e cresciuti ci ha familiarizzati con l’idea che la verità non solo non è raggiungibile, ma non è nemmeno desiderabile; che la pretesa di averla e di mostrarla equivalga a un tentativo di violenza sugli altri, ciascuno dei quali ha diritto alla sua verità; insomma che l’assenza di una verità condivisa, certa, assoluta, sia la miglior garanzia per il buon funzionamento della società e il rispetto della democrazia, la quale non tollera che arrivi qualcuno a dire: Adesso vi dico io come stanno in realtà le cose, perché tale pretesa sarebbe una forma di totalitarismo, d’integralismo e (tanto per cambiare) di fascismo. Eppure il bisogno di verità è insito nell’animo umano, fa parte della sua natura e caratterizza il suo statuto ontologico, al pari del bisogno della bontà, della giustizia e della bellezza. Senza una di queste cose, la vita umana diventa un vagabondare senza a meta sulle strade ingannevoli del mondo, simile agli andirivieni di un cieco che si muove a tentoni, incerto sulle gambe e ignaro dei pericoli che potrebbero presentarsi lungo la strada. La più importante di tutte, però, è la verità: la quale, ben lungi dall’essere un bene superfluo, un qualcosa di cui l’uomo moderno può fare a meno, come se fosse un inutile residuo del passato, essa è la condizione che rende possibile ogni azione razionale, ogni pensiero, ogni sentimento; senza di essa tutto crollerebbe, nulla avrebbe più un valore o un significato. E ciò è talmente vero che perfino la persona più meschina ed egoista, la più sprofondata nelle tenebre del disordine morale, è costretta ad ammettere che senza la verità, anche la sua stessa esistenza diverrebbe qualcosa di molto simile a un’assurda tragicommedia, se non addirittura un inferno sulla terra. Proviamo infatti a immaginare l’assenza di verità nei gesti quotidiano più semplici, nelle cose di ogni giorno, nelle normalissime relazioni interpersonali sulle quali si regge l’esistenza di qualunque gruppo umano organizzato. Proviamo a immaginare un panettiere che mente sulla composizione del pane, una maestra che non dice la verità quando spiega la lezione ai bambini, o un militare che mente quando giura di servire fedelmente lo Stato, o un religioso che mente quando parla delle cose divine e si accinge a celebrare i sacri misteri. Proviamo a immaginare un commerciante che mente ai clienti sul conto da pagare, gonfiandolo oltre misura, magari profittando del fatto che sono stranieri e non capiscono bene la lingua; un medico che mente al paziente sulla diagnosi, magari per indurlo a sottoporsi a un intervento inutile, ma costoso (sono successi e succedono anche simili orrori); un postino che mente ai superiori quando dice di non aver potuto consegnare la posta, mentre la verità è che non ne aveva voglia e ha finto che gli indirizzi non fossero segnati esattamente. Proviamo a immaginare, come purtroppo succede, una banca che non dice la verità ai risparmiatori, che li illude facendo loro acquistare dei prodotti finanziari malsicuri, e fa loro perdere grosse somme, dopo averli illusi con la prospettiva di facili guadagni, per compiacere i propri dirigenti disonesti. Proviamo a immaginare un meccanico di automobili che non dice la verità al suo cliente allorché afferma di aver messo nel motore l’olio antigelo, per realizzare un illecito profitto facendo pagare come olio antigelo l’olio normale; o un dentista che mente al paziente dicendo che un certo dente è cariato e si trova in condizioni assai critiche, inducendolo a fare un grosso lavoro ortodontico, di cui in realtà non vi è bisogno, al solo scopo di spremergli denaro.
Ricordiamo la definizione tomista della verità: adaequatio rei et intellectus, corrispondenza fra la cosa e l’intelletto. La verità, dunque, non è un’araba fenice di cui tutti parlano, ma che nessuno ha mai visto; essa è, al contrario, la cosa più frequente che sia dato incontrare, oltre che la più necessaria. Se il nostro giudizio non cogliesse la cosa come realmente è, e non si regolasse di conseguenza, innanzitutto dicendo le cose come stanno e non tradendo la verità, allora la vita sarebbe impossibile, o almeno sarebbe impossibile che si svolga con un minimo di ordine e di fiducia reciproca, qualità senza le quali si tornerebbe alle condizioni del bellum omnium contra omnes, alla guerra di tutti contro tutti, come in una foresta popolata solo di zanne e artigli pronti ad aggredire e a lacerare. Io vedo la verità, e dico la verità, quando il mio giudizio corrisponde esattamente a ciò che esiste. Se vedo che in questa stanza ci sono muffa e sporcizia, e il proprietario della casa, che abita lontano e che mi ha incaricato della sua manutenzione, mi telefona per sapere se è tutto a posto, e io rispondo che ho appena fatto le pulizie e che tutto è in buono stato, io non dico la verità, dico il contrario della verità, e la mia menzogna diviene, insieme a cento, mille altre menzogne, dette da altre persone nelle circostanze più varie, parte di quella massa inestricabile di non verità che rende sempre più difficile e faticosa la vita sociale. Un nostro caro amico ha rischiato di perdere tutto, ma proprio tutto, perché aveva acquistato una casa e poi era venuto a scoprire, con orrore, che il proprietario, dopo essersi fatto pagare aveva omesso di dirgli la verità circa l’esistenza di un’ipoteca bancaria esistente sulla casa stessa. E se una donna chiede all’uomo che la corteggia, prima di concedersi, se lui la ama, e questi, mentendo, risponde di sì, e si finge molto innamorato, mentre il suo unico scopo è quello di divertirsi per una notte, magari profittando del fatto che lei è molto ingenua, o molto fragile, e tacendole il piccolo particolare di essere sposato e con figli, anzi facendole credere d’essere libero: ecco che una tale mancanza di verità nella comunicazione crea le premesse per qualcosa di brutto, per una sofferenza, per una storia di delusioni e amarezze che potrebbero culminare in una depressione o in un tentativo di suicidio. Chi può dire fin dove possono arrivare le conseguenze d’una menzogna? Diciamolo francamente: il vizio più diffuso, al punto da essere quasi considerato normale, è proprio quello di non dire la verità: di tacerla, o di travisarla, per un misero interesse personale. E la mancanza di verità da parte delle persone non solo rischia di mettere in crisi le attività economiche, il buon funzionamento delle imprese, il clima di reciproca fiducia che deve esistere fra quanti lavorano insieme; ma sovente è all’origine di situazioni dolorose che si creano all’interno delle amicizie, o fra parenti stretti, o comunque in ambito affettivo e sentimentale. Quante volte accade che qualcuno si avvicini a qualcun altro con un secondo fine, ad esempio un giornalista sia pronto a vendersi a un proprietario poco scrupoloso, perché l’ambizione lo spinge a voler fare carriera, e il presupposto per fare carriera, in quel determinato ambiente, è la totale indifferenza nei confronti della verità, benché alla verità venga tributato un omaggio, peraltro insincero e puramente esteriore? E che dire dei politici: quanta sincerità vi è in essi, quanto rispetto della verità, allorché, accecati dalla smania di farsi strada, di essere eletti a qualche importante funzione pubblica, non esitano a rimangiarsi le più solenni promesse fatte agli elettori, e si trasformano in vere e proprie macchine per la conquista del potere, comportandosi poi come dei piccoli satrapi che vivono mentendo sistematicamente e ingannando nella maniera più spudorata quei cittadini verso i quali, in teoria, avrebbero l’obbligo di dire la verità e di fare sempre e solo i loro interessi?
Ma, si dirà, se fosse così semplice cogliere la verità, forse sarebbe anche più facile dirla. Non è invece frequente il caso in cui non si riesce a capire quale sia la verità, per cui, nel dichiarare lo stato delle cose, non si dice la verità, ma insomma in buona fede, o comunque con un certo grado d’innocenza, anche se si sospetta che le cose potrebbero stare altrimenti? Rispondiamo che la verità, nella maggior parte dei casi, è più semplice ed evidente di quanto non si sia disposti ad ammettere, semplicemente perché ammetterlo equivarrebbe ad una maggiore assunzione di responsabilità rispetto a quel che di solito si è disposti a fare. Non è chi non veda come, quanto più incerta e confusa è la verità, tanto minore è il grado di responsabilità che ciascuno si deve assumere rispetto alle conseguenze del suo parlare o del suo agire. Se la verità è confusa, chi può essere accusato di non aver fatto il proprio dovere, allorché ha detto delle cose non vere? Tutti sono tentati di non dire la verità, quando essa rischia di suonare come una condanna per i propri errori o le proprie manchevolezze. Il comandante di una nave ha sbagliato manovra e ha provocato un disastro marittimo, culminato nell’affondamento della nave stessa e nella perdita di molte vite e di molti beni. Davanti alla commissione d’inchiesta, quel comandante sarà fortemente tentato di evidenziare al massimo tutte le circostanze che potrebbero giustificare la sua imperizia, e di tacere, o minimizzare, tutte quelle che, al contrario, condurrebbero la corte a emettere un giudizio severo nei confronti del suo operato. Di situazioni come queste ne capitano continuamente, a tutti i livelli, nei contesti più vari. Non è tipico dello studente negligente dare la colpa della propria bocciatura alla cattiva disposizione verso di lui di questo o quell’insegnante? Magari servendosi di alcune circostanze vere, ma non così gravi come lui le dipinge, e passando invece sotto silenzio altre circostanze, queste senz’altro vere, ma che sarebbero a lui sfavorevoli, ecco che quello studente manipola la verità, non la dice, lascia intendere che le cose siano andate in modo diverso dal vero, al solo scopo di giustificarsi e di far cadere su qualcun altro, o su qualcos’altro, la responsabilità del suo insuccesso. Ad ogni modo, è chiaro che la nostra responsabilità finisce, e a ragione, quando la nostra ignoranza della verità è legittima e in buona fede. Tuttavia, in tutti quei casi nei quali noi stessi non conosciamo esattamente la verità, abbiamo il dovere morale di astenerci dal parlarne, perché, diversamente, rischiamo d’ingannare il prossimo, o d’indurlo a delle deduzioni inesatte e fuorvianti, che possono riuscirgli di grave danno. Dire sempre la verità, pertanto, significa anche avere la modestia di non pretendere di saper rispondere a tutto e ammettere di non conoscere la verità, quando effettivamente è così.
E ora veniamo al livello più alto della verità, quello della speculazione intellettuale, che coinvolge chiunque lavori con la testa, specie nel campo della teologia, della filosofia, della storia, della scienza. Se il rispetto pieno della verità è importantissimo nella vita pratica di tutti i giorni, non lo è certo di meno, semmai ancora di più, quando si tratta di studi e ricerche che poi entreranno a far parte del patrimonio culturale di tutti, a cominciare dagli studenti, e che contribuiranno a plasmare il loro orizzonte non solo conoscitivo, ma anche esistenziale, spirituale e morale. Tuttavia, è proprio a questo livello che la stragrande maggioranza degli intellettuali rivendica la propria irresponsabilità, con la motivazione che non esiste la verità, ma che esistono solo delle verità parziali, limitate a una certa prospettiva o a un certo momento storico. In questo senso la cultura del relativismo è quanto di più comodo si possa immaginare per soddisfare tutte le pretese di un intellettuale chiacchierone, vanitoso, narcisista, desideroso di far colpo sul pubblico ma senza rischiare nulla: il che si attaglia a una buona percentuale degli intellettuali di grido. Poter lanciare parole in libertà, trinciare giudizi su questo e su quello, spararle grosse a volontà, e non correre mai il rischio che qualcuno gli domandi: Ehi, amico, ma che diavolo stai dicendo?, è la situazione ideale per un intellettuale alla moda, così come lo è divenuta per tantissimi giornalisti, resi sempre più arroganti e impudenti dall’assenza di contraddittorio. Naturalmente una situazione del genere è resa possibile dall’assurdità e dal carattere intrinsecamente contraddittorio della cultura moderna: in una società sana, illuminata da valori saldi e coerenti, una simile posizione sarebbe insostenibile. Il fatto è che la figura stessa dell’intellettuale è un tipico sottoprodotto della sottocultura moderna, come lo è, su un altro piano, ma in fondo complementare, quella del grande finanziere. Entrambi sono dei parassiti, i quali vivono a spese della comunità; entrambi pretendono onori e riconoscenza dalla gente comune, anche se non fanno assolutamente nulla per meritarli e, anzi, nutrono per essa un disprezzo mal dissimulato; entrambi si muovono in regime di monopolio, nel senso che non debbono vedersela con una vera concorrenza, perché la concorrenza, se c’è, si è accordata per spartirsi la torta e al massimo gli altri finanzieri, come gli altri intellettuali, fanno finta di accapigliarsi tra loro, ma sono d’accordo sul fatto di seguitare a parassitare sempre di più la società produttiva, gli uni con il loro falso denaro, gli altri con i loro falsi ragionamenti. In una società sana, non ci sarebbe posto né per gli uni, né per gli altri: il loro carattere parassitario apparirebbe talmente evidente che non sarebbe loro consentito di prendersi tutto lo spazio e tutte le risorse che attualmente consumano. E l’analogia fra di essi appare ancora più chiara se si pone mente all’oggetto della loro attività: gli uni creano denaro dal nulla per imporre il cappio del debito al collo di tutti; gli altri fabbricano discorsi vuoti, fatti di parole, per giustificare un ordine sociale innaturale e immorale, del quale sono diretti beneficiari. Per entrambi il trucco che dà loro potere consiste nella mancanza di verità: i finanzieri mentono sul senso e sul fine dell’economia, gl’intellettuali mentono sulla lettura del reale. Entrambi avvalorano una visione materialista, che imprigiona gli uomini in una sorta di bolla ipnotica, nella quale si dibattono come pesci presi nella rete, senza saper elaborare gli strumenti per uscire dall’ipnosi, cioè per liberarsi. Ecco perché c’è bisogno di verità come dell’aria per respirare. Fin quando la gente non capirà ch’è impossibile vivere senza verità i parassiti avranno buon gioco nel farsi credere indispensabili: gli uni per organizzare la vita economica, gli altri per fabbricare le idee con le quali far finta di pensare.