Cani di paglia
di Livio Cadè - 22/03/2021
Fonte: Ereticamente
Vedo molti struggersi per un ‘vaccino’, sospirando una salvezza lungamente attesa. Tra i più impazienti gli ultranovantenni e i centenari, in lotta col tempo e la natura ovvia delle cose. Sancta simplicitas! I giornalisti levano cori di prefiche, scandiscono i numeri del contagio con ritmici e funebri canti. I Dulcamara della pandemiologia ufficiale promettono di salvare un’umanità che, si direbbe, rischia l’estinzione.
Mi chiedo quale Natura trista e confusa abbia partorito una stirpe d’uomini tanto derelitta; se le sue dita abbiano tremato mentre ne plasmava le coscienze o se abbia diluito troppo i colori con cui ne ha dipinto le anime. Ora che per legge non posso più avvicinarmi alle persone o toccarle, mi sto convincendo che siano solo ombre, fantasmi. Mi stupisco perciò che abbiano tanta paura di ammalarsi o di morire. Qualcuno mi incolperà per questo d’esser disumano. Dovrò quindi discutere la vexata quaestio: cos’è umano?
Mostrare umanità significa per noi esseri buoni, gentili, comprensivi. Pare quindi che la malvagità, la crudeltà, l’insensibilità non siano prerogative umane. Ma, lasciati alle loro inclinazioni, molti uomini si comportano in modo brutale. Nell’uomo v’è uno strano miscuglio di bontà e malvagità. Da un lato, può giungere a livelli di crudeltà che nessun animale potrebbe eguagliare. D’altro canto, quando l’affetto ci lega a qualcuno, diventiamo spontaneamente buoni e comprensivi nei suoi confronti, pronti anche a grandi sacrifici. In certe comunità, come la “Società degli amici” formata da quaccheri, tutti sembrano uniti da vincoli di fraterna solidarietà. Amare il prossimo come sé stessi certo eliminerebbe le nostre tendenza asociali. Purtroppo l’amare qualcuno non dipende dalla volontà come sollevare un braccio o chiudere un occhio.
Confucio, molto prima di Cristo, formulò una massima aurea: “non fare agli altri ciò che non vorresti gli altri facessero a te”. Questa disposizione benevola e reciproca tra gli uomini, racchiusa nel concetto di ‘umanità’ (ren), sta alla base dell’etica confuciana e della sua società ideale. Kant, in tempi più vicini a noi, ci propone imperativi categorici, che vincolino l’uomo alle sue responsabilità verso il mondo.
In realtà è ingenuo credere di poter educare l’uomo all’amore del prossimo imponendogli una sorta di identificazione o empatia artificiosa, come vorrebbero i confuciani e altri uomini volonterosi. Difficile anche subordinare le nostre azioni a una critica kantiana, sforzandoci di capire se possano venir prese a modello universale. Un’educazione a base di obblighi e divieti incoraggia l’uomo a mentire e a simulare; lo mortifica, fa di lui un essere bidimensionale, inaridisce le parti più profonde e succose della sua umanità.
A questa umanità confuciana – puritana o kantiana – fatta di razionalità e moralità, Lao-tse contrappone l’idea di una Natura meravigliosa e terribile da cui l’uomo dipende:
“Il Cielo e la Terra non hanno umanità,
considerano gli esseri come cani di paglia.
Il saggio non ha umanità,
considera gli uomini come cani di paglia”.
Per comprendere la metafora occorre sapere che nell’antica Cina, in occasione di cerimonie funebri, si utilizzavano cani di paglia come offerte sacrificali. Accuratamente addobbati e trattati con grande rispetto, tali simulacri venivano infine calpestati o bruciati. Il senso sembra essere che la Natura non è benevola verso le sue creature. Ne intreccia pazientemente i fili, dà loro una forma, le riveste riccamente e le sostiene, ma infine le riporta con cinica indifferenza a uno stato di non-essere.
Questa interpretazione mi pare non cogliere il segno. Non si accusa qui la Natura di aver introdotto la morte nei suoi disegni o di non avere compassione. Si vuol piuttosto indicare l’armonia sovrumana che regna nei suoi processi di creazione e dissoluzione. Nella Natura v’è una saggezza inattingibile all’uomo. È quindi assurdo che l’uomo pretenda di dominarla o di sottrarsi alle sue regole. Il fatto che si alluda a un rito religioso sembra implicare che i “cani di paglia”, ovvero gli esseri creati, sono espressione di una trascendenza.
La Natura di Lao-tse non è infatti un complesso di reazioni fisico-chimiche o di casuali meccanismi evolutivi. Il progresso tecnologico ha modificato la nostra comprensione dei processi naturali e inquinato il nostro rapporto con la natura vivente. L’uomo moderno, che dipende dalle macchine, finisce col credere che la vita stessa sia una macchina e la tratta di conseguenza. Non vediamo più, nella creazione, il Mistero, l’amore divino o la volontà degli Dei, ma solo il funzionamento di un congegno senz’anima. Questo ci rende sempre più disumani.
L’idea di un universo-macchina si riflette nell’idea di ‘meccanismi’ geopolitici, economici o finanziari, leggi di Mercato. Tali fenomeni vengono visti come processi naturali, guidati da leggi ineluttabili, indipendenti dall’arbitrio umano. Sappiamo invece che v’è una profonda differenza se a plasmare la storia sono le idee di Cristo, di Buddha, o al contrario quelle di un Rothschild o di un Pol Pot. Di fatto, un meccanismo è la negazione della libertà. Una concezione meccanica del mondo torna utile quindi a chi intenda asservire l’uomo. La patina di umanità che ricopre la nostra cultura serve a nascondere una società brutale, dominata dall’egoismo e dalla brama di potere.
Anche il Saggio taoista può apparire privo di umanità, ma solo perché ne trascende le forme convenzionali. Si pone oltre l’umanità, ma non per questo diviene disumano. Se gli vengono affidate mansioni di governo, vi adempie in conformità alla Norma universale. Questo comporta un atteggiamento politico per noi paradossale. Il Tao, a differenza del Dio giudaico, non comunica con gli uomini attraverso la forza, il comando, il rigore, ma con la ‘debolezza’ ossia la flessibilità. Egli dà forma alle creature, le nutre, le sostiene, e al termine del loro ciclo vitale le riassorbe in sé, ma non le domina. Lascia che esprimano liberamente la loro natura.
Così il Saggio non impone agli uomini leggi opprimenti o tributi esosi, non moltiplica i decreti, non fa violenza alla loro natura, ma li governa con mano leggera, con tocchi quasi inavvertibili. Le leggi della Natura cui si ispira non sono infatti una tirannide, un sistema coercitivo e deterministico, ma un Ordine sapiente in cui si radica la realtà degli esseri. Sono come le regole di armonia o di sintassi che non vincolano il musicista o il poeta ma sono invece condizione della libertà, strutture necessarie ad ogni atto creativo. Analogamente, l’amministrazione di uno Stato ideale, governato secondo le leggi dello Spirito, non deve ostacolare il naturale sviluppo dell’umanità ma garantirgli un habitat favorevole.
Dividere e rendere antagonisti Spirito e Natura è stato forse uno dei nostri errori più funesti. Al contrario, in questa prospettiva ‘naturale’ e ‘spirituale’ si fondono, appaiono dimensioni complementari dell’essere, in mutuo rapporto, come l’esteriorità e l’interiorità della nostra esperienza. La Natura, fluendo dalla Sorgente metafisica del Tutto, è la spontanea manifestazione di una forza spirituale. Così anche la natura dell’uomo è un riflesso dell’infinito. Il Tao, il Cielo, la Terra e l’Uomo sono aspetti diversi e gerarchici di un’unica Realtà libera e creativa.
Il cane di paglia ci dice che l’uomo non si esaurisce nella sua tassonomia di mammifero bipede e razionale. Un simulacro di paglia non ha alcun valore in sé. È fatto oggetto di riguardi e di rispetto solo in quanto evoca una presenza spirituale. Così, l’esistenza biologica dell’uomo ha la sua dignità nell’essere un’auto-rivelazione dello spirito. E come i cani di paglia sono impreziositi con ricchi finimenti, l’uomo è rivestito da quelle forme di pensiero che riflettono la bellezza e la profondità della Natura. Anche noi siamo condotti in una sacra processione e infine calpestati e bruciati, restituendo i nostri corpi alla Terra e le nostre anime al Cielo.
La ricchezza dei paramenti di cui il cane di paglia è ricoperto evoca per altro il nostro intimo legame con la Bellezza. È impossibile concepire la vita umana priva di quell’impulso fondamentale detto Amore o Eros. Ma l’uomo può amare veramente solo ciò che è bello. Perciò ogni uomo, secondo la sua sensibilità, cerca la Bellezza. La vuole godere, creare, condividere. Non è un accessorio ornamentale cui si rivolge quando i suoi bisogni fisici sono soddisfatti, ma l’orizzonte del suo desiderio più radicale. Essenza e scopo della vita è l’estasi, anche se i più sembrano averlo dimenticato.
Il Cielo e la Terra dispiegano un’infinità di forme meravigliose. Un tramonto, un fiore, un canto di uccelli, la livrea variopinta di certi pesci; chiunque sia dotato di cuore può vedere quanta bellezza sia profusa nell’universo. L’emozione estetica che l’uomo prova di fronte a una notte stellata non produce alcun vantaggio biologico. È la contemplazione disinteressata di un’Arte suprema, che ha la sua ragion d’essere in sé stessa e non serve a nulla.
Il saggio governante dovrebbe quindi incoraggiare la libera creatività dell’uomo e la sua spontanea tendenza verso la realizzazione di forme estetiche. Idea che suona paradossale in un’epoca come la nostra, dominata da un utilitarismo che crea solo banali comodità, bruttezza e schiavitù. La causa di tale declino è certo da ricercare nell’abbandono di autentici valori spirituali. Il bello è una qualità, mentre oggi il mondo sembra dipendere solo dalla quantità, da valori numericamente definibili di cui il denaro è il simbolo più potente e suggestivo. Questo ottundersi della sensibilità estetica ha comportato una parallela degenerazione dell’etica, perché valori come la dignità, la lealtà, la nobiltà, la compassione ecc., hanno le loro radici nella bellezza di un gesto e di un sentimento, nella sua interiore qualità molto più che nella quantità di effetti utili che ne derivano.
Il mondo tecnocratico, plutocratico e scientista in cui oggi viviamo, con la sua riduzione ontologica dell’uomo a mera rotella di ingranaggi produttivi e di meccanismi fisiologici, ha prodotto un’eclissi del Bello. Sotto le parvenze del progresso e dell’‘umanità’, la società del profitto opera la rimozione sistematica di ogni “splendore del vero”. Il potere di guidare gli uomini è nelle mani di persone che non hanno più alcuna comunione col Cielo e la Terra. Dietro la politica si nasconde la tirannia di forze economiche e finanziarie, nemiche di ogni trascendenza che non sia quella del denaro. Perciò oggi la politica sta soffocando la naturale libertà umana, con leggi che sono espressione di una deforme meschinità.
Torno così al punto da cui sono partito, l’ipocrisia dell’attuale emergenza sanitaria e la falsità del suo esibito umanismo. “Bisogna proteggere i nostri anziani” si dice, e non v’è francamente nulla in questa affermazione che non suoni ‘umano’ e buono. Lascia però perplessi questo anelito quasi faustiano, questa velleità di impedire a persone vecchie e malate di morire. Non si capisce come una pretesa tanto assurda possa giustificare lo sfascio di intere nazioni e l’impoverimento di milioni di persone.
Pare che, tutelando i tessuti vecchi di una popolazione, si voglia evitare una tragedia umanitaria, mentre in realtà la si provoca. La morte di ultraottantenni malati non rappresenta infatti alcuna minaccia per la società, per la cultura, per l’arte, né contraddice in alcun modo i valori fondanti di una civiltà. È anzi un evento, oltre che inevitabile, necessario. Rientra in un disegno armonico che consente lo svolgersi di sani processi sociali e naturali.
È umano rispettare e curare un vecchio, ma che la vecchiaia si aggrappi ferocemente alla vita, avocandola a sè con arroganza, come un diritto inalienabile, è follia. La morte dei vecchi fa parte di un lutto privato che tutti prima o poi dobbiamo soffrire. Non è una catastrofe collettiva ma un normale flusso generazionale. Catastrofico è decretare norme sanitarie che, per proteggere una piccola percentuale di popolazione vecchia e malata, provocano il disfacimento e la necrosi dei tessuti operosi, creativi, giovani e sani della società.
Lasciamo dunque che i vecchi muoiano, com’è giusto, e ritroviamo gli equilibri naturali della nostra umanità. Ovvero, sanifichiamo le anime prima che gli ambienti. Si vive per creare Bellezza, per manifestare su questa terra la forza dello spirito, non per ridursi a larve dell’essere, soggiogati dalla paura di un virus. V’è, nella paura di morire, una sottile linea di confine che separa un sentimento giusto e naturale da una viltà vergognosa. L’abbiamo superata, e l’angoscia della morte è diventata paura di vivere. Non è più la qualità dei nostri pensieri e delle nostre azioni che dà senso all’esistenza ma la quantità di tempo biologico che ci rimane.
Pergolesi morì a 27 anni, Shelley a 29, Évariste Galois a 20. Se esistesse un vaccino che debella ogni epidemia, una panacea universale, e se per averlo dovessi sacrificare lo Stabat Mater di Pergolesi, le poesie di Shelley o gli scritti matematici di Galois, mi terrei epidemie e malattie. Lo stesso farei se il prezzo di quel vaccino fosse la libertà degli uomini. Non ha senso sacrificare la bellezza e la libertà per allungare la vita, perché la vita, senza libertà e bellezza, non ha senso.
Per altro, è chiaro che il vero obiettivo dell’attuale isteria sanitaria non è geriatrico; lo scopo di questa interminabile pantomima non è certo difendere i vecchi. È una recita organizzata per il diletto di banche e multinazionali, questi gonfi tumori dell’umanità, che nella loro crescita smisurata stanno divorando ogni altro valore che non sia quello del denaro e del potere. A loro l’uomo piace così: un automa programmato e obbediente, mosso da stimoli meccanici.
“Il Potere non ha umanità,
tratta gli uomini come cani di paglia”.
Basta eliminare Cielo e Terra e mettere al loro posto un Padrone. Così, spogliato di ogni senso metafisico, il pensiero di Lao-Tse diviene specchio del presente. L’uomo è ridotto a fantoccio di un grande rito economico-finanziario e poi buttato, annientato in olocausti farmaceutici o in ecatombi monetarie. La disumanità del Potere ci distruggerà con la sua moralità, la sua razionalità, il suo filantropismo. Dovrei credere alla fiaba del ‘progresso’ umano? Mi pare piuttosto di assistere a una rapida involuzione, a una terribile atrofia culturale e spirituale. L’uomo contemporaneo sembra un pesce policromo che diventi grigio, un usignolo che si metta a gracchiare o una rosa che puzzi di cavolo marcio.
Fagocitato da processi produttivi, sacrificato in brutali competizioni, ingannato da miraggi democratici e umanitari, vittima delle propagande di regime, divorato dall’insignificanza della vita, avulso dalla natura e dalle sue radici spirituali, colpito come artista e poeta da una impotentia generandi; conformista, moralista, omologato, anzi, omogeneizzato mediante la triturazione dei suoi pensieri e delle sue emozioni, ridotto a una poltiglia psichica; costretto a reggersi sulle opinioni di media, di esperti di vario genere, di politici o di intellettuali, come su protesi intellettuali, surrogati di una coscienza e di un’anima. Se questa è l’umanità che ci attende, preferisco non essere umano.
Ci siamo alienati da quell’idea di Uomo che vien prima e conta assai più dell’uomo biologico. Quest’Uomo universale, che io vedo in controluce attraverso le sue manifestazioni individuali, è un essere che crea Bellezza, dà un Senso alle cose, erige Civiltà. Ma il virus della banalità ontologica lo infetta, provoca in lui sindromi gravi e contagiose. Lui dovremmo proteggere e curare, per lui dichiarare un’emergenza sanitaria, approntare reparti di terapia intensiva. I nostri governanti dovrebbero studiare misure per difenderlo non da un’influenza stagionale ma da una secolare decadenza.
Se sono disumano, dunque, è solo perché ho nostalgia dell’uomo. Meglio essere antichi e dignitosi cani di paglia che i grotteschi esemplari di una specie decaduta. Questa è oggi la tragica alternativa tra umano e disumano. Essere partecipi di un sacrificio cosmico, intrecciati di stoffa divina, rivestiti coi sacri finimenti della Bellezza, oppure gli ignari cani di paglia di un Moloch bancario, immolati in una sordida cerimonia medico-scientifica. Non importa se in fondo alla via, a rito concluso, saremo distrutti. Rientreremo tutti nel grande crogiuolo della vita. Alcuni come esseri liberi altri come schiavi.