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Capitalism-i

di Pierluigi Fagan - 27/01/2021

Capitalism-i

Fonte: Pierluigi Fagan

Tra le varie definizioni di questo termine (se ne contano parecchie), quella dello storico Ferdinand Braudel è che si tratti di un modo economico animato dai detentori di capitale. Storicamente, la gran parte dei detentori di capitale avevano ottenuto e poi moltiplicato ed accumulato i capitali  svolgendo delle attività produttive di mercato che, come sostenne Adam Smith ad apertura del IV Capitolo della sua Indagine sulla Ricchezza delle Nazioni, aveva beneficiato la società coinvolgendo gran parte della popolazione in lavori remunerati e lo Stato che su tutto questo traffico di denaro applicava tasse il cui introito andava poi speso nell’interesse della società stessa, tra cui -come poi indicarono gli ordoliberisti tedeschi- rendere armonica la relazione tra società e mercato. Questa è più o meno la descrizione teorica e pratica del sistema economico moderno occidentale, l’essenza dell’era moderna.
A partire dai recenti anni ’80, si producono una serie di spostamenti all’interno del sistema. Da una parte si svincolano progressivamente le imprese da una serie di condizionamenti sociali, politici e giuridici, dall’altra si liberano le imprese dai contesti nazionali in vista di un nuovo mercato-mondo che si formerà nei successivi anni ‘90. Ma la novità forse più rilevante in termini strutturali, è l’inversione dei rapporti tra attività produttiva ed attività finanziaria. Luciano Gallino, tra i più lucidi osservatori del campo, coniò efficacemente il termine (concettualmente corretto sebbene foneticamente grippato) di “finanz-capitalismo” (2011). Gallino, ricordiamolo, era uno studioso ed un sociologo, non un economista o un giornalista. Non essere une economista ed anzi un sociologo gli permetteva di leggere in termini strutturali il rapporto tra società ed economia. Non essere un giornalista ma uno studioso gli permetteva di andare in profondità di analisi e diagnosi invece che cavalcare l’argomento del giorno per far delle confuse chiacchiere ad effetto.
Come e perché avvenne quella inversione di rapporti per i quali il capitale finanziario non dipendeva più da quello produttivo ma l’inverso, è un problema molto dibattuto. Alcuni, ed io tra loro, pensano che tutta questa storia sia dipendente da un percorso probabilmente non del tutto previsto tale inizialmente, che origina dalla fatidica decisione di Nixon del 1971 di svincolare la moneta dal suo supporto limitante. Sta di fatto che, in termini strutturali, la società diventava subordinata sempre più al mercato, il mercato esondava dai confini giuridici nazionali superando la complessità delle relazioni inter-nazionali ora interne ad un unico ambiente globale sottoregolato (WTO), nel mercato si invertivano i rapporti tra capitalismo produttivo e finanziario in favore di quest’ultimo. Se quindi Braudel aveva ragione nella sua definizione, per secoli quei detentori il capitale, lo traevano dalla produzione (investito dopo averlo ricevuto spesso in eredità) , ora non più. Qualunque fosse l’origine del capitale iniziale, al limite anche prestato dal sistema bancario a tassi minimi, questo entrava in una macchina dai rendimenti con sempre meno rischi e sempre più incrementi di tipo esponenziale.
Arriviamo all’attualità. Si sta tenendo nell’ambito dell’annuale assise del World Economic Forum, la seduta di lancio e condivisione del temuto e chiacchierato piano “The Great Reset”. Sul WEF occorre dire due cose minime. La prima è che esiste anch’esso dal 1971, la seconda è che è finanziato e promosso da un migliaio di aziende. L’asse centrale del piano che si presenta come il tentativo di formare un nuovo “consensus” che superi in parte quello detto “Washington Consensus” (1989) che possiamo considerare piattaforme teorico-normativa del c.d. “neo-liberismo”, è sintetizzato dalla formula “dai shareholders, a gli stakeholders”. I primi sono gli “azionisti” (portatori, titolari di azioni), i secondi sono solo in parte gli azionisti il cui interesse è mediato con quello del management, dipendenti, fornitori, territorio e campo dell’impresa ed altri, inclusa in ultima istanza la società stessa e quindi lo Stato. In senso più ampio, sono i “portatori o titolari di interesse”. Non sempre, strutturalmente, i due interessi collimano e se negli ultimi decenni quello degli azionisti ha avuto potere ultimo, la presunta “svolta” vorrebbe invertire questa gerarchia. E’ una specie di ritorno attualizzato ai principi di quella sintetica paginetta della RdN di Smith del 1776. Dato che abbiamo ricordato come il WEF sia l’espressione di mille imprese, è un po’ come se il capitalismo produttivo volesse riprendere le redini del gioco lasciate al capitalismo finanziario.
Questi sussulti ordinativi nascono sempre in ragione di fallimenti sistemici. Il finanz-capitalismo, dal punto di vista funzionale (non valoriale) è assurdo, nessuno (se non l’1%)  dotato di senso potrebbe teorizzare che ad un certo punto tutto il sistema economico-sociale-politico e geopolitico deve volgersi a ri-produrre capitale per un 1% di popolazione mosso solo dalla propria bulimica foga accumulatoria di capitale prodotto indifferentemente in ogni modo, in ogni dove. Smith usava la formula “Essa si propone (l’economia politica) di arricchire sia il popolo che il sovrano” nella sua Introduzione al Libro quarto del suo famoso libro, tanto citato quanto poco letto. L’1% non è né il popolo, né il sovrano sebbene tenda a coartare entrambi.
Questa nota solo per tentar di fornire una chiave di lettura dei principali perché della presunta svolta de “The Great Reset” su cui molti parlano ed indagano o forse parlano solo. Naturalmente, il mondo delle idee ed il mondo dei fatti viaggiano su binari correlati ma paralleli, i confini così netti nelle descrizioni discorsive (viepiù brevi per ragioni di format e media) non lo sono nella realtà concreta, contraddizioni spuntano dappertutto, non s’immagini una classe di capitalisti produttivi improvvisamente in campo per combattere i capitalisti finanziari ed altre semplificazioni da teatro dei pupi. Ma in essenza, la ragione di questo nuova proposta di “consensus”, credo origini dal prender atto del fallimento del sistema dell’89 in un moto di auto-riforma di élite che per rimanere tali debbono cambiare qualcosa della propria postura e del sistema in cui si pongono. Un po' il senso della metafora di Lewis Caroll in Alice, quando la Regina Rossa dice ad Alice «Now, here, you see, it takes all the running you can do, to keep in the same place, if you want to get somewhere else, you must run at least twice as fast as that!»