Capitalismo, dazi e guerra
di Antonio Catalano - 08/04/2025
Fonte: Antonio Catalano
Il capitalismo è una brutta bestia, che quando pensi d’averla domata ti azzanna e ti divora. Non genera coscienza, al massimo falsa coscienza. La sua finalità è esclusivamente l’accrescimento di capitale, che si traduce in ricchezza per i suoi principali sponsor, anche se non è la ricchezza la sua ragione sociale, lo è invece l’accrescimento continuo di capitale. Capitale che deve aumentare, sempre aumentare, e sempre generare profitto. Capitale che a sua volta genera potere, che a sua volta ha fame di capitale, senza del quale il potere si indebolisce.
Il capitale produce beni materiali, per cui è necessario che si generi una domanda, senza della quale non si ottiene la sua valorizzazione. Se produco scarpe è necessario, perché ne tragga profitto, che quelle scarpe siano comprate, ciò richiede che si crei un mercato della domanda di quelle scarpe e così via. Il capitale industriale produce una massa di valore di cui una parte – crescente – si dirige in investimenti non più produttivi di beni materiali ma nella cosiddetta speculazione finanziaria, dove denaro genera nuovo denaro, e quindi una figura di capitalista non più legato alla produzione.
Con ciò creando l’illusione di una sorta di albero del denaro, per cui basta piantare una moneta in terra che da questa ne nascerà un albero e così via. Il capitale finanziario cresce così a dismisura che a un certo punto la dimensione del suo valore materiale è talmente basso rispetto a quello monetario da creare le famose bolle, che scoppiano improvvisamente senza una causa apparente. Come la non lontana bolla finanziaria scoppiata con la crisi subprime del 2008, quando la capitalizzazione sui mercati finanziari globali era di 14 volte il PIL mondiale.
Il capitale finanziario – figlio del capitale industriale – si caratterizza per la sua tendenza fortemente liberista, che vive con sofferenza, meglio ostilità, legami nazionali, sociali, culturali, religiosi. La sua essenza ruota su tre libertà: 1) libertà di circolazione dei capitali; 2) libertà di circolazione delle merci; 3) libertà di circolazione delle persone. Guai a toccargli queste libertà!
Il capitale finanziario è mondialista, ateo, anti nazionale, fluido, non ha valori da proporre, se non distopie allucinate basate sull’alienazione della natura umana, considera la vita in funzione della sua valorizzazione economica e quando questa cessa la vita diventa spesa improduttiva che è meglio che anche essa cessi (eutanasia). L’apparato filosofico che si attaglia alla perfezione alla sua natura è quello nichilistico, per questo la società contemporanea è profondamente segnata da questo male oscuro che trasuda da ogni poro: manifestazioni culturali, artistiche, sociali e, purtroppo, anche religiose.
Ma il sistema finanziario a un certo punto si trova a vivere gravi sussulti perché le contraddizioni che esso genera diventano ingestibili. Specialmente quando si affacciano sulla scena mondiale attori (competitors) che anch’essi vogliono ritagliarsi una fetta di mercato più ampia. E così accade che gli Usa, Paese guida del globalismo a livello internazionale, si trovi a un certo punto a dover fare i conti con l’impossibilità di andare avanti perché nel frattempo il suo indebitamento è diventato stratosferico, ha perso gran parte del proprio apparato produttivo, e addirittura non riesce a far fronte neanche alla stessa produzione di armi con le quali sostenere postazioni e conflitti sparsi nel mondo
Sto andando con l’accetta, perché ogni punto meriterebbe un approfondimento, ma poi ne verrebbe fuori un trattato indigeribile… insomma, succede che gli Usa di Trump si rendono conto di non poter andare avanti secondo le linee guida del liberismo globalista, che gode di poteri molto ramificati in tutti i reparti del cosiddetto potere profondo (deep state) e di istituzioni nelle quali si sono intimamente incarnate.
E qui arriviamo all’Europa dell’euro, che rappresenta l’ultimo rifugio della canaglia globalista, che in modo attivo e compulsivo pompa sulla “difesa” dell’Ucraina, “avamposto della democrazia occidentale”, e sbraita contro le misure protezionistiche trumpiane, i cosiddetti dazi.
Trump rappresenta il capitale industriale fortemente penalizzato dalla globalizzazione, in quanto la delocalizzazione, con la sua ricerca affannosa di costi di produzioni sempre più bassi, ha creato il deserto industriale in patria. Cosa che a un certo punto rischiava di fare implodere la stessa nazione americana. E così, con una popolazione fortemente impoverita, per di più pesantemente aggredita da un’ideologia (woke) offensiva dello stesso buon senso, Trump è riuscito a strappare il potere politico (politico!) ai dem globalisti.
Ma per poter offrire una speranza di ripresa alla sua economia, prima che l’intero Paese scivolasse nel baratro di una crisi sociale dagli sviluppi inquietanti (guerra civile), ha dovuto intervenire con l’accetta dei dazi con un metodo brutale: la misura del dazio corrisponde a quella del deficit commerciale stesso. Per capirci meglio: se gli Usa spendono 100 dollari in importazione col Paese B e il Paese B esportasse in Usa per 100 dollari non ci sarebbero dazi, questi intervengono “solo” nel caso in cui il valore dell’importazione supera quello dell’esportazione.
Insomma, si tratta di una politica (protezionistica) tesa a favorire il ritorno in patria degli investimenti e quindi il consumo di beni di produzione interna. E chi vuole continuare a spendere estero paghi la gabella: se vuole un prosecco sborsi il 20% in più rispetto a prima.
Apriti cielo! L’Europa, nella quale si è trincerato il potere profondo legato al capitale globalista – di cui i migliori rappresentanti (ho detto i migliori, non i soli) sono gli esaltati seguaci del Libro di Ventotene – annuncia vendette e riarmo.
Evidente che nell’idea trumpiana il competitor più pericoloso è rappresentato dalla Cina. Se andiamo a dare uno sguardo alla geografia dei dazi vediamo che il “tariffario” trumpiano ha steso un cordone sanitario intorno alla Cina. Infatti, l’ondata dei dazi investe Cina e Asia molto più che l’Europa (poi vediamo gli altri). Abbiate pazienza, ve ne tornerà utile, prestate attenzione ai seguenti dati.
Al dazio (“reciproco”) verso la Cina (34%) si somma quello già esistente (20%), portando l’imposizione delle merci cinesi che entrano negli Usa al 54%. Ma l’attacco alla Cina si estende a tutta l’area indopacifica: dazi altissimi per i Paesi dell’Asean (Vietnam 46%, Indonesia 32%, Cambogia 49%, Myanmar 44%, Thailandia 36%, Malesia 24%, Laos 48%). Un vero e proprio cordone sanitario che impedisce alla Cina di aggirare i dazi attraverso il transito delle sue merci in questi Paesi, strettamente integrati nelle catene del valore cinese. Le Filippine sono state colpite da dazi più morbidi (17%) perché Trump tende a divaricare ancor di più Manila da Pechino, e anche perché gli Usa hanno da poco approvato la possibile vendita di 20 caccia F-16 alle Filippone.
Rimane stazionaria la situazione con Canada e Messico, con i quali gli Usa sono legati da un trattato di libero scambio (Usmca), mentre sono molto benevoli le misure trumpiane verso l’America latina: Panama (che si è ritirata dalla nuova via della seta), Brasile, Argentina… al 10%. Da notare la bassa aliquota verso il Brasile che, probabilmente, tende a colpire l’unità dei Brics.
L’Europa si attesta al 20%.
È chiaro come queste misure nascano dall’intenzione di riportare in vita l’apparato produttivo americano, fortemente deindustrializzato negli ultimi due decenni. Si pensi al Vietnam, divenuto la fabbrica delle multinazionali, come prima era la Cina. In Vietnam la Nike produce o fa produrre il 50% delle proprie scarpe (e il 28% dei capi d’abbigliamento Nike) perché qui i salari sono al minimo… e i profitti al massimo.
Chiudo facendo notare come il liberismo globalista, oltre ad avere quelle caratteristiche prima accennate (fluidità, woke, cancel culture… nichilismo), ha la responsabilità di aver distrutto il sistema delle garanzie sociali (welfare): destrutturazione del mercato del lavoro, flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, articolo 18, salari bassi, bassissimi, investimenti zero in infrastrutture, spese limitate dalle politiche di austerità dell’Ue… immigrazione a go go. Vedete come tutto torna?
Ecco perché il piano di riarmo dell’Ue è il forsennato tentativo della congrega globalista a trazione europeista di rimanere a galla. Ed ecco perché oggi dichiararsi europeisti significhi accettare questa sfida sul piano più congeniale al superamento delle crisi dal punto di vista capitalistico: la guerra.