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Caporetto, fatale la forza nemica non lo sciopero dei soldati italiani

di Giovanni De Luna - 03/12/2017

Caporetto, fatale la forza nemica non lo sciopero dei soldati italiani

Fonte: La Stampa




Nella guerra italiana, il 1917 fu segnato dalla gravissima sconfitta militare di Caporetto. Con un’offensiva cominciata il 24 ottobre, le truppe austrotedesche dilagarono in profondità per 150 chilometri verso la pianura padana, in una travolgente avanzata che si arrestò soltanto sulla linea del fiume Piave. Caporetto fu una sconfitta militare ma anche una catastrofe dalla enorme portata simbolica. E ancor oggi quella battaglia emoziona, divide, indigna. Alessandro Barbero ha scelto il suo ultimo libro (Caporetto) per confrontarsi con tutti gli interrogativi che si addensano su una delle più clamorose disfatte italiane, proponendone una sorta di anatomia – fredda e distaccata- senza negarsi una forte simpatia umana verso alcuni dei suoi protagonisti. Lo ha fatto attingendo ad alcuni classici della storiografia militare (Pieri, Rochat), agli atti della Commissione parlamentare di inchiesta, che su Caporetto indagò già nel gennaio 1918, e incrociando le fonti italiane con quelle nemiche: una pluralità di voci, alcune segnate dall’immediatezza e della spontaneità della cultura popolare, altre lasciateci da grandi scrittori (Gadda, Comisso, etc…) che- queste ultime in particolare - ci aiutano a capire il passaggio dall’incanto di una guerra fortemente voluta al disincanto di una guerra stolida, combattuta senza slanci e con una rassegnata apatia.
Barbero descrive accuratamente i piani austro tedeschi per sfondare il fronte nella zona di Plezzo e Tolmino, la colpevole incredulità dei comandi italiani di fronte alle dettagliate informazioni ottenute dai disertori; ci informa sul numero delle divisioni impiegate e dei pezzi di artiglieria dislocati sul campo di battaglia, ci accompagna in una ricognizione puntuale del terreno, delle singole montagne e dei fondovalle. E ci offre una cronologia dello scontro, ora, per ora, assalto dopo assalto, a partire dalle 2 del mattino, quando cominciarono i primi tiri di artiglieria austriaci. Un simile approccio analitico gli consente di ottenere alcuni risultati interpretativi che fanno giustizia di molti luoghi comuni, come ad esempio, quelli sul comportamento delle nostre truppe, a lungo descritte come incapaci di battersi. Proprio il comandante del nostro esercito, Luigi Cadorna, a suo tempo indicò la causa di Caporetto nella «propaganda disfattista» e nel comportamento dei soldati della II Armata («vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico»), accusandoli di aver messo in atto una sorta di sciopero militare. E anche la Commissione parlamentare segnalò l’esistenza di una vera «armata di fuori legge» tra disertori, latitanti, renitenti alla chiamata. In realtà, spiega Barbero, si trattò soprattutto del successo strepitoso ottenuto dalla tattica di infiltrazione adottata dal nemico: i capisaldi italiani erano fortificati e furono molto ben difesi dalle nostre truppe, non così i varchi che erano stati lasciati tra l’uno e l’altro; aggirando i capisaldi, in quei varchi si infilò il nemico che ignorò i focolai di resistenza, lasciandoli in pace, salvo poi accerchiarli alle spalle cogliendoli di sorpresa e costringendoli alla resa. Furono trecentomila i prigionieri italiani alla fine della battaglia!
Anche per quanto riguarda il ruolo del «generalissimo» Cadorna, Barbero, senza demonizzarlo, insiste su un aspetto decisivo, sottolineando i guasti provocati da uno dei concetti tattici basilari adottati dal Comando italiano nei primi anni di guerra: l’impiego dei medesimi reparti fino al conseguimento del risultato utile; i soldati dovevano sapere che per loro non ci sarebbe stato riposo o avvicendamento fino a quando non avessero eseguito la propria missione. Le conseguenze di questo criterio erano gravissime: una disponibilità ridottissima di uomini freschi al momento dell’attacco, un clima di sfiducia e di esasperazione, che giustificava atti di eroismo individuale ma anche una sorta di sfiduciata apatia, una ripetizione meccanica e ossessiva degli attacchi, una disperata volontà di auto annientamento. Il tutto in un quadro di pesante repressione, con un regime disciplinare che, rinunciando a priori a stimolare ogni forma di consenso attivo da parte dei soldati, puntava a ottenere soltanto un’obbedienza cieca e immediata.
Nel racconto di Barbero Caporetto è stata anche una pagina importante di una italianissima «autobiografia della nazione». Non ci furono solo errori militari in quella sconfitta. Analizzando l’entourage di Cadorna, il libro descrive un mondo fondato su cerchie familiari, clientele, appartenenze massoniche, cooptazioni e dilaniato da conflitti intestini tra generali, in competizione per il grado, l’anzianità, la pensione. Emerge così una tara genetica delle classi dirigenti dell’Italia liberale, asfittiche, rinchiuse nei riti di una casta statica e inamovibile, di lì a poco destinate, per il loro immobilismo, a soccombere nei confronti del fascismo.