Cessate il fuoco in Libano?
di Enrico Tomaselli - 26/11/2024
Fonte: Giubbe rosse
Si fanno sempre più insistenti le voci relative alla firma di un accordo di cessate il fuoco (dovrebbe essere annunciato domani) tra Israele e Libano - e già questo dà la misura del paradossale intreccio di questo conflitto. Solo per restare ai due aspetti più clamorosi, infatti, possiamo osservare come da un lato l'interlocutore ufficiale sia il governo libanese, anche se l'esercito libanese si è ben guardato dall'essere parte attiva nel conflitto, che è stato invece sostenuto da Hezbollah e (in piccola parte) dall'altro partito-milizia sciita, Amal. Anche se, da parte libanese, le trattative sono state condotte da Nabih Berri, presidente del Parlamento, che è un alleato politico di Hezbollah. Dall'altro, abbiamo il paradosso degli USA - che sono a tutti gli effetti soggetto pienamente attivo del conflitto, non solo sul piano politico-diplomatico, né su quello del sostegno allo sforzo bellico israeliano, ma pienamente operativo - che al tempo stesso giocano tre parti in commedia: oltre ad essere belligerante, infatti, Washington è anche il maggior soggetto mediatore nei negoziati, e - in base ai termini dell'accordo - andrebbe anche a presiedere il comitato che verificherà il rispetto degli accordi.
In effetti, un cessate il fuoco (probabilmente destinato a restare temporaneo) fa, per ragioni diverse, comodo sia agli USA che al Libano (Hezbollah) e Israele.
Washington potrà vantare un successo diplomatico, e chiudere in bellezza la triste stagione Biden; Tel Aviv potrà tirarsi fuori dalla trappola libanese, e far rifiatare l'IDF; il Libano metterà uno stop alle sofferenze della popolazione civile, mentre Hezbollah potrà ricostituire le unità combattenti e le strutture logistiche.
Ma, come dicevo, con ogni probabilità l'accordo avrà breve durata, e se non verrà trovata comunque una soluzione complessiva (che comprenda quindi Gaza, la Cisgiordania e - di fatto - l'Iran), inevitabilmente il conflitto è destinato a riesplodere.
Osserviamo adesso i termini dell'accordo, le sue ambiguità ed i suoi rischi.
Fondamentalmente, si tratta di ripristinare l'applicazione della Risoluzione ONU 1701, che era teoricamente in vigore già da 18 anni. Rispetto al testo della Risoluzione, le novità sono fondamentalmente due: l'accordo prevederebbe infatti un rafforzamento della presenza UNIFIL lungo il confine, e la creazione di questo comitato di vigilanza che dovrebbe verificare il rispetto degli accordi. Ciò che invece rimarrebbe invariato sarebbero le condizioni relative ai belligeranti. Israele dovrebbe ritirare le sue forze dal territorio libanese, Hezbollah dovrebbe ritirarsi più a nord.
La questione però ha, come detto, dei margini di ambiguità; del resto, la 1701 era teoricamente in vigore dal 2006, ma non è stata mai integralmente applicata. I punti più controversi, su cui si può facilmente inceppare il meccanismo, sono ancora una volta due, e riguardano il reciproco ritiro delle forze combattenti; come è ovvio (perché così è già stato) una mancata applicazione dei termini da parte dell'uno farà da giustificazione per le mancanze dell'altro. In base all'accordo, Israele dovrebbe ritirare le sue forze armate dal territorio libanese. Ovviamente, Tel Aviv intende con ciò che l'IDF si ritirerà dai territori invasi da ottobre, mentre Beirut intende da tutti i territori libanesi occupati, cioè comprese le fattorie Sheeba (da cui Israele avrebbe dovuto ritirarsi nel 2006). È a dir poco improbabile che ciò accada, poiché già così Netanyahu fatica non poco a far accettare l'accordo alla parte più estremista del suo governo. Dunque, possiamo dare già per scontato che ci sarà un motivo (controverso quanto basta) per impallarel'applicazione completa dell'accordo. Altro punto di presumibile disaccordo è quello sul disarmo: la Risoluzione chiede il disarmo di tutti i "gruppi armati" in Libano, ma la costituzione libanese non considera Hezbollah un gruppo armato, e la maggioranza dell'establishment politico libanese ritiene che Hezbollah sia esente da questa clausola. Insomma, tutto lascia supporre che verrà semplicemente ristabilito lo status quo precedente all'invasione israeliana.
C'è, infine, un margine di rischio. L'accordo prevede infatti che le condizioni vengano applicate entro 60 giorni, il che pone la scadenza in mano all'amministrazione Trump - che Netanyahu ritiene sarà ancora più favorevole - la quale, attraverso la guida del comitato di vigilanza, avrà l'autorità di stabilire se, chi e perché sta violando i termini negoziali.
Sul breve termine, Israele ha interesse che il cessate il fuoco regga, anche se non applicato integralmente, perché ciò significa mettere fine alle perdite dell'IDF, poter rimandare a casa una parte dei riservisti, e far tornare al nord quasi centomila coloni precedentemente evacuati. Il che, può anche inasprire le tensioni nella maggioranza, ma è spendibile come un risultato positivo, specie se accompagnato da una narrazione che dipinga la campagna di terra come un successo. Sul medio termine, Netanyahu ha però bisogno che la guerra in qualche modo continui, affinché il suo governo (e la sua carriera politica) continuino. Quindi prima o poi potrebbe avere la tentazione di aprire un altro fronte, o di tornare all'attacco sul Libano.
Intanto, due cose sono certe. La prima, e più importante, è che la popolazione civile libanese può mettere fine alle sue sofferenze, e pensare alla ricostruzione. La seconda è che, come avevo facilmente previsto, anche questa terza guerra libanese si sta concludendo come la seconda: l'IDF cerca di sfondare e ad un certo punto le perdite si fanno troppo significative, allora arriva la "mediazione internazionale" per cavare Israele fuori dai guai.
Quindi Hezbollah vince anche questa guerra, infliggendo ad Israele una sconfitta sul campo anche peggiore di quella del 2006.