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Che succede a Gaza?

di Enrico Tomaselli - 13/01/2025

Che succede a Gaza?

Fonte: Giubbe rosse

Secondo le ultime indiscrezioni che arrivano dai mediatori egiziani e qatarioti, l'accordo di cessate il fuoco a Gaza sarebbe effettivamente ormai in dirittura di arrivo; notizia che va presa con le molle, poiché già più volte era sembrato vicino, salvo poi essere mandato a monte da nuove richieste israeliane. Ci sono però un paio di fattori che possono indurre ad un cauto ottimismo: da un lato, l'ormai imminente insediamento di Trump (che ha ben chiarito quanto ci tenga), e dall'altro una significativa ripresa offensiva della Resistenza. Permangono ovviamente degli aspetti ancora non risolti, ma a questo punto afferiscono alle schermaglie finali tra le parti. L'ostacolo principale, ovvero l'ostilità dell'estrema destra israeliana, sembra essere stato sormontato - anche perché la minaccia di una crisi di governo è un'arma un po' spuntata, visto che in caso di nuove elezioni questa rischierebbe di trovarsi fuori dal governo.
La questione fondamentale è, ovviamente, l'affidabilità israeliana. Da parte della Resistenza si cerca di ottenere un accordo che apra la strada, in tempi ragionevoli, non semplicemente ad uno scambio di prigionieri ed un ritiro dell'IDF dalla Striscia, ma ad una cessazione delle ostilità, tale da consentire innanzi tutto di ripristinare condizioni di vita minime per la popolazione palestinese (cibo, acqua, assistenza sanitaria, alloggi temporanei adeguati alle condizioni climatiche), e successivamente di gettare le basi per la ricostruzione. Ma, come è prevedibile, quand'anche l'accordo preveda un cessate il fuoco non limitato nel tempo, è chiaro che Israele si riserverà comunque il diritto di riprendere il conflitto quando gli farà più comodo. Vale da esempio il cessate il fuoco libanese, già violato centinaia di volte dall'IDF, e con crescente arroganza, tanto da indurre Hezbollah a minacciare una risposta militare, qualora non dovessero cessare.
La prima questione cruciale è, naturalmente, chi dovrebbe esercitare l'autorità politico-amministrativa sulla Striscia. Gli Stati Uniti, e con loro gran parte dei paesi arabi, vorrebbero affidarla ad una gestione mista tra l'Autorità Nazionale Palestinese ed alcuni governi arabi, ma Tel Aviv - nonostante l'ANP sia un chiaro strumento in mano statunitense, ed un attivo collaboratore dell'IDF in Cisgiordania - è decisamente contraria, perché qualunque parvenza di autogoverno palestinese è vista come il fumo negli occhi, e potenzialmente in grado di rappresentare la minaccia di un futuro stato. La posizione della Resistenza in merito è invece più pragmatica; l'ipotesi ufficiale è quella di un governo unitario palestinese (Resistenza + ANP), o in subordine un governo tecnico, ma fondamentalmente è consapevole che in questa fase è più opportuno lasciare l'onere della gestione post-guerra a chi è disposto ad assumerselo, ben sapendo che in ogni caso la propria forza militare ed il larghissimo consenso di cui dispone sono una garanzia di sicurezza.
In ogni caso, tutto porta a pensare che Netanyahu stia effettivamente considerando di chiudere il conflitto a Gaza. A parte il fatto che, dopo quindici mesi di guerra, la società israeliana appare sempre più stressata - e non solo economicamente - appare ormai chiaro che difficilmente sarebbe possibile ottenere di più, militarmente parlando, mentre vecchie e nuove esigenze strategiche vengono in primo piano: la crescente conflittualità in Cisgiordania, che sta assumendo sempre più le caratteristiche di una vera e propria guerra, e che rappresenta un’area su cui le ambizioni territoriali israeliane sono molto forti; l’occupazione della Siria sud-occidentale, che espande l’impegno dell’IDF e minaccia di portare ad un confronto - anche militare - con la Turchia (i suoi proxy); la speranza di coinvolgere l’amministrazione Trump in una resa dei conti definitiva con l’Iran, magari usando come pretesto l’ipotesi che Teheran si stia dotando di armi nucleari.
Sullo sfondo di tutto ciò, la sempre più evidente capacità di combattimento della Resistenza, quale ormai emerge ufficiosamente anche dalle fonti israeliane. Secondo quanto emerge da ambienti dell’intelligence di Tel Aviv, infatti, ormai si riconosce che Hamas e le varie altre formazioni sono state in grado di ripianare completamente le perdite [1], arruolando nuove migliaia di combattenti; e, come risulta dalle cronache, il livello di efficienza delle formazioni combattenti è ormai crescente. Se ad esempio si guarda alla zona nord della Striscia, ed in particolare a Beit Lahia ed al campo di Jabalia (dove l’IDF ha in corso un'operazione da oltre 100 giorni), si può agevolmente comprendere di cosa si sta parlando. Nonostante queste aree siano ormai sostanzialmente spopolate, la Resistenza porta a termine complesse imboscate quasi quotidianamente, utilizza microcamere disposte strategicamente per sorvegliare i movimenti militari, e recupera l’esplosivo dalle bombe israeliane inesplose, riutilizzandolo per minare edifici e costruire IED da usare contro i tank. Soltanto negli ultimi tre giorni, gli attacchi portati dalla Resistenza hanno causato quindici morti (ufficialmente ammessi) ed una cinquantina di feriti. Anche il fatto che sia stata ufficializzata la nomina di Mohammed Sinwar, fratello minore di Yahya, a comandante delle Brigate Izz al-Din al-Qassam, segnala un ricostituito livello di sicurezza. Insomma, ci sono svariati elementi che inducono a ben sperare per una svolta a breve termine, soprattutto per la martoriata popolazione di Gaza. Fermo restando ciò che sanno bene da entrambe le parti, e cioè che la guerra di liberazione della Palestina sarà soltanto sospesa.
1 - Secondo il generale di brigata israeliano in pensione Amir Avivi, addirittura “siamo in una situazione in cui il tasso di ricostruzione di Hamas supera il tasso di distruzione da parte dell’esercito israeliano”.