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Che succede in Siria?

di Enrico Tomaselli - 08/03/2025

Che succede in Siria?

Fonte: Giubbe rosse

Il regime di Damasco

Il nuovo regime guidato da Al Jolani (ex tagliagole ISIS, poi Al Qaeda, poi nel nuovo dress code in giacca e cravatta) cerca di ottenere lo sblocco delle sanzioni, precedentemente imposte soprattutto dagli europei, e di ottenere fondi dai paesi arabi sunniti, Qatar e Arabia Saudita in primis. In qualche misura, cerca anche di smarcarsi un po’ dal controllo turco.
I suoi problemi restano comunque la mancanza di risorse economiche, un paese devastato da anni e anni di guerra civile, il mancato controllo sull’intero territorio, e la mancanza di un vero e proprio esercito. Le varie formazioni jihadiste-democratiche (più di 100) riunite sotto la sigla-ombrello di Hayat Tahrir al-Sham, infatti, sono per lo più milizie prive di armamento pesante e la sistematica distruzione preventiva della gran parte dei sistemi d’arma (di terra, aerei e navali) del vecchio esercito siriano da parte dell’aviazione israeliana impediscono lo sviluppo di adeguate capacità militari. Oltretutto, benché formalmente le varie milizie si siano riunite in un nuovo esercito, di fatto rispondono ancora ai diversi comandanti di ciascuna fazione, il che dà al governo centrale un controllo assai relativo su di esse. Poiché una parte non indifferente di queste formazioni armate è composta da fanatici islamisti, spesso nemmeno siriani o anche solo arabi (daghestani, tagiki, kirghizi, uiguri), le frizioni con le popolazioni non sunnite (alawiti-sciiti, cristiani, drusi) sono pressoché continue e spesso sfociano in scontri armati.
Consapevole della sua debolezza – innanzitutto militare, ma appunto anche economica e quindi politica – il governo di Damasco di fatto non è in grado di opporsi alle forze più significative che rifiutano di sottomettersi, in particolare i curdi (nel nord est petrolifero), che godono dell’appoggio USA, ed i drusi (nel sud) che sembrano appoggiarsi agli israeliani. Si rivolge quindi, con feroci repressioni, contro la minoranza alawita, assai più debole militarmente, a cui viene rimproverato il fatto di essere stata il gruppo di riferimento del regime di Assad.
Di fatto, l’obiettivo principale del regime è sopravvivere, nonostante le numerose debolezze, almeno fino a quando non sarà in grado di stabilizzare la situazione.

La Turchia

Ovviamente il principale attore esterno è il potente vicino. La Turchia è stata per lunghi anni la nutrice dei gruppi anti-Assad, accogliendoli sul proprio territorio e sostenendone l’azione. Da quando il vecchio regime è caduto, sostituito da questa armata Brancaleone dei suoi protetti, il chiaro obiettivo di Ankara è quello di inglobare la Siria in una ampia sfera d’influenza che ricalchi in qualche misura quella del vecchio impero ottomano. Per questo, i turchi devono stabilizzare il paese e mantenerlo unito – il che, a sua volta, richiede che venga risolta la questione curda.
A questo proposito, chiaramente Erdogan ha ritirato fuori la carta Öcalan. L’ex leader del PKK, il partito guerriglia dei curdi all’interno della Turchia (ma di fatto anche di quelli siriani) ha lanciato un appello al disarmo delle formazioni combattenti, che al momento sembra aver trovato pieno riscontro nel PKK turco, mentre le formazioni siriane hanno assunto una posizione più sfumata, di apertura all’ipotesi ma caute nell’applicazione. Anche qui il messaggio turco è quello dei diversi popoli fratelli, all’interno del mondo ottomano. La pacificazione con i curdi siriani è ovviamente cruciale, sia perché sono la formazione politico-militare più forte all’interno del territorio, sia perché controllano la zona petrolifera (ed il relativo contrabbando tramite il Kurdistan iracheno), sia perché godono – ancora – dell’appoggio militare statunitense.
Ankara sta quindi esercitando una doppia pressione sulle forze delle SDF (l’organizzazione-ombrello dei curdi e dei loro alleati locali): da un lato, attraverso le milizie controllate del Syrian National Army, che tengono sotto pressione militare le aree sotto controllo curdo, e dall’altro con la proposta di disarmo-integrazione nel contesto politico siriano. Se questo è, almeno per il momento, il principale problema turco all’interno della Siria, il secondo è – come detto – impedire la balcanizzazione del paese. Il che implica non soltanto la risoluzione della questione curda, ma impedire che ne sorgano di nuove – i drusi a sud, con l’appoggio di Israele, ma anche, potenzialmente, gli alawiti a ovest.

I curdi

Per le organizzazioni curde siriane, il quadro politico internazionale – dopo la caduta di Assad – non è dei più favorevoli. Gli Stati Uniti non hanno più un particolare interesse attivo a mantenere una presenza in Siria (e probabilmente, nel quadro della drastica riduzione delle spese militari decisa dall’amministrazione Trump, le basi siriane saranno tra le prime ad essere smantellate). Il rischio, quindi, è quello di trovarsi presto completamente scoperti, privi del supporto statunitense. Cercare, quindi, una soluzione di compromesso che consenta di preservare quanto più possibile dell’autonomia di fatto conquistata sembra un orizzonte inevitabile. In questo senso, la proposta di Öcalan può essere una buona occasione per aprire una trattativa, anche in considerazione del fatto che – diversamente dal PKK in Turchia – hanno qui una posizione sicuramente di maggiore forza (sia militare che economica, grazie al petrolio).
Arrivare comunque ad un accordo non sarà una cosa né semplice né veloce, e la fragilità del nuovo regime siriano non aiuta certamente a raggiungere questo obiettivo. Oltretutto, proprio la facilità con cui le milizie jihadiste dell’HTS si abbandonano ai pogrom (per ora contro gli alawiti) non deve essere molto rassicurante nella prospettiva di un disarmo delle SDF. Del resto, la Brigata Sultan Suleiman Shah (nota anche come al-Amshat), una fazione dell’SNA sostenuto dalla Turchia, che ha lungamente combattuto contro i curdi, è ora impegnata a massacrare gli alawiti…

Israele

Pur non avendo avuto alcun ruolo nella caduta di Assad, Netanyahu tende ad ascriverlo ad un ruolo determinante di Israele, nell’ambito di un millantato ridisegno del Medio Oriente, avvenuto appunto in virtù della sua decisa azione. Non è questa la sede per osservare che, se mai tale ridisegno sia avvenuto, questo contempla certamente un significativo ridimensionamento del potere israeliano come potenza regionale. Ma certamente la fine del vecchio regime siriano ha creato un’opportunità sulla quale Tel Aviv si è velocemente (e voracemente) fiondata. Approfittando del caos susseguente al passaggio di poteri (e chiaramente anche sulla base di taciti via libera), l’aviazione israeliana si è dapprima dedicata alla distruzione sistematica dei mezzi e delle infrastrutture del vecchio esercito siriano, per poi procedere alla occupazione di una fetta di territorio, fin quasi alle porte di Damasco.
Anche se la retorica israeliana dipinge l’occupazione come una misura di difesa dai radicali islamisti al potere, questi in realtà non hanno mai – in decenni di attività terroristica in buona parte del mondo – colpito Israele o i suoi interessi. E, nello specifico, Tel Aviv intrattiene di fatto buoni rapporti (anche se discreti) con Al Julani. L’occupazione della Siria, quindi, risponde in realtà a due esigenze: una tattica, pressoché esclusivamente politica, ed una strategica.
La prima è dare una risposta positiva alla crescente crisi israeliana. La leadership di Netanyahu ha trascinato Israele in un conflitto regionale (Gaza, Cisgiordania, Libano, Yemen, Iran) che non solo non ha prodotto alcun risultato militare utile, ma ha isolato internazionalmente il paese, e soprattutto ne ha rivelato l’assoluta dipendenza dal supporto statunitense per la difesa, forse mai così totale, con tutte le conseguenze – anche politiche – del caso. Ha quindi bisogno di vittorie da poter vendere mediaticamente all’opinione pubblica del suo paese. La seconda, ovviamente, risponde in parte alla vocazione espansionista della destra sionista, e soprattutto all’esigenza di indebolire il fronte arabo-musulmano in ogni modo possibile, nella consapevolezza che prima o poi arriverà il momento della resa dei conti definitiva, e che questo è l’unico modo per rinviarlo.
Nello specifico, l’idea di occupare militarmente alcune posizioni strategiche (a partire dal monte Hermon) consente di avere un controllo operativo sia su Damasco che sul Libano meridionale, mentre il disegno di costruire una sorta di protettorato, attraverso la creazione di uno stato druso nel sud siriano, consentirebbe sia la creazione di un cuscinetto tra Siria ed Israele, sia la balcanizzazione dello stato siriano.

Gli USA

La presenza statunitense in Siria, giustificata inizialmente per combattere i jihadisti dell’ISIS e di Al Qaeda (cioè di due creazioni della CIA…), dopo che questi sono stati sconfitti dagli iraniani, dai russi e da Hezbollah, è proseguita – illegalmente – mantenendo due aree sotto controllo: una a sud, vicino all’incrocio tra le frontiere siriana, giordana e irachena, ed una a nord est, nella regione petrolifera controllata dai curdi. La presenza militare USA è fondamentale sia per la difesa del Rojava curdo, sia per il controllo (ed il contrabbando) del petrolio siriano.
Nel contesto attuale, comunque, gli Stati Uniti sembrano orientati ad un certo disimpegno dalla Siria. Innanzitutto perché, nel quadro della programmata riduzione del budget del Pentagono (del 30% circa in quattro anni) una parte significativa sarà ricoperta dalla riduzione delle basi all’estero. Inoltre, il Medio Oriente non è più così centrale per Washington come lo era in passato. Per quanto riguarda poi il teatro siriano in particolare, è chiaro che la fine del regime di Assad prima ed il predominante ruolo turco (pur sempre un alleato NATO) rendono molto meno necessaria una presenza militare diretta. La presenza israeliana nel sud, infine, rappresenta comunque una presenza indiretta, rendendo superflui i proxy curdi. Pertanto, è presumibile che si vada verso una significativa riduzione del coinvolgimento statunitense.

La Russia

L’interesse prevalente di Mosca è sempre stato quello di mantenere le due basi nella regione costiera, quella navale di Tartus, che assicura un punto d’appoggio per la presenza nel Mediterraneo, e quella aerea di Latakia, importante scalo per il rifornimento delle forze presenti in Africa. Ed infatti alla caduta di Assad (a cui è stato dato rifugio in Russia) la diplomazia del Cremlino ha immediatamente avviato i rapporti col nuovo regime, con la prospettiva di mantenere la presenza nella regione occidentale, ridiscutendone i termini. È interessante notare, a tal riguardo, che Israele esercita pressioni su Washington affinché si adoperi perché la presenza russa in Siria sia mantenuta. Per quanto la Russia sia (moderatamente) filo-palestinese, e strategicamente legata all’Iran, Tel Aviv sa bene che è anche amica di Israele, e vede la sua presenza in Siria come un riequilibrio di forze rispetto a quella turca – che invece viene vista come potenzialmente ostile. Non va dimenticato, infatti, che per anni l’aviazione israeliana ha colpito a suo piacimento il territorio siriano, non solo nonostante la presenza dell’aviazione e della difesa antiaerea russa, ma con il placet russo, che vi ha sempre dato via libera.
L’interesse russo, quindi, è prevalentemente legato alle sue basi militari, e quindi anche alla difesa dell’integrità territoriale siriana, a prescindere da chi governi a Damasco.

L’Iran

Per Teheran la Siria è stata in passato un anello importante del progetto regionale iraniano, che però ha avuto un prezzo molto alto, sia in perdite umane per difenderne il regime, sia poi in termini economici per tenerlo in piedi. L’esito finale, pur con tutte le giustificazioni possibili, ha chiaramente rappresentato non solo una sconfitta politica, ma anche una considerevole delusione. Ma, al tempo stesso, lo sgravamento da un onere non da poco. Del resto, Assad si è sempre rifiutato di far svolgere alla Siria un ruolo attivo, nell’ambito dell’Asse della Resistenza, limitandosi piuttosto a lasciare che il territorio siriano servisse da transito verso il Libano.
L’Iran è oggi praticamente assente dalla Siria ed è il paese verso cui più si indirizza l’odio delle milizie jihadiste. Il suo interesse principale, ovviamente, è mantenerne l’integrità, soprattutto perché Israele ha l’interesse opposto. In generale, a parte l’ottimo rapporto con i russi, le relazioni iraniane con gli altri soggetti presenti in Siria sono generalmente ostili, o comunque di diffidenza. Vale appunto per il regime di Al Julani, e ovviamente per israeliani e americani, ma anche con i turchi ed i curdi non c’è decisamente un buon feeling.

Hezbollah

L’esercito del Partito di Dio ha avuto un ruolo fondamentale nella sconfitta della ribellione siriana e delle milizie jihadiste, il che ne ha fatto un nemico giurato di queste ultime, al pari dell’Iran – ovviamente anche per motivazioni religiose. Per Hezbollah la Siria è stata lungamente un retroterra dove agire liberamente, ed averla dovuta abbandonare è stato un problema. Che però, come si è visto durante il conflitto con Israele, non ha intaccato la sua capacità di combattimento. Oggi non è più presente in territorio siriano, e al momento è sicuramente assorbito da problemi interni (il nuovo governo libanese, le pressioni occidentali, la ricostruzione, il ripristino della struttura politico-militare intaccata dal conflitto, la cacciata degli israeliani dagli ultimi pezzi di territorio libanese…), e quindi poco interessato a nuovi coinvolgimenti nel paese vicino. Indubbiamente, però, i lunghi anni di permanenza sono serviti anche a tessere una serie di legami, a parte quelli dei clan sciiti transfrontalieri, che fanno di Hezbollah il soggetto che probabilmente ha maggiori possibilità, in futuro, di riattivare forme di resistenza al regime jihadista filo-occidentale.

La situazione

Allo stato attuale, quindi, abbiamo un regime intrinsecamente debole, che si regge al momento su un fragile equilibrio di forze, che a sua volta fa sostanzialmente perno sulla Turchia e la sua ambizione ad estendere la propria influenza sino a Damasco. I tempi dalla caduta di Assad sono ancora troppo brevi, perché si possano manifestare fenomeni di opposizione endogena significativi, ma indubbiamente ne esistono tutti i presupposti. Al momento, quindi, i problemi più urgenti sono la questione curda, e l’occupazione israeliana. Per quanto riguarda i curdi, ovviamente i punti principali sono lo scioglimento e/o l’integrazione nell’esercito delle formazioni combattenti delle SDF, e il ritorno del controllo centrale sul petrolio siriano. In questo, ovviamente, il ruolo principale lo svolgeranno i turchi, che hanno tutto l’interesse a risolvere definitivamente la questione, a pacificare la Siria ed mantenerne l’unità territoriale.
Ne consegue che, invece, gli israeliani avranno tutto l’interesse a che ciò non avvenga. Qualora curdi e turchi trovino una formula capace di portare ad una soluzione efficace e duratura, si apre la possibilità che crescano fortemente le tensioni tra Ankara e Tel Aviv, potenzialmente sino al confronto (diretto o indiretto) militare.

Per quanto riguarda invece la situazione più strettamente interna, fondamentalmente i punti di attrito sono quelli confessionali, e che riguardano la regione costiera alawita, sino ad Homs, ed in minor misura quelli nazionalisti, relativi alla regione occupata da Israele.
Nel primo caso, siamo ancora in una fase chiaramente embrionale, ed è difficile capire quanto e come possa svilupparsi. Gli scontri sono legati prevalentemente alla violenta attività repressiva delle milizie jihadiste, che considerano gli alawiti degli apostati, e per di più come i fedelissimi di Assad. Al momento, difficilmente questi possono andare oltre una relativa capacità di autodifesa delle comunità, e non è nemmeno chiaro se ci sia o meno un’intenzione di andare oltre. Che, per essere effettivamente implementata, necessità di una retrovia sicura, che non può essere offerta altro che dal Libano; ma che, per le ragioni viste precedentemente, non è detto sia praticabile ora. In questo, molto dipenderà dalla capacità del governo siriano di esercitare il controllo non soltanto sul territorio, quanto soprattutto sulle proprie milizie. E poiché il governo è in buona misura in mano alla Turchia, molto dipende da come questa intenderà affrontare il problema. Evitare il sorgere di un separatismo alawita dovrebbe essere nell’interesse di Ankara, quindi presumibilmente questa cercherà di pacificare la regione, in un modo o in un altro.

Segnali di resistenza all’occupazione israeliana ci sono stati, ma per il momento assai flebili. Molto dipenderà anche da come si posizioneranno i vari clan drusi, che non sono tutti convintamente schierati con Israele. E ovviamente, come si diceva, dagli sviluppi dei rapporti turco-israeliani.
Fondamentalmente, siamo ancora pienamente in una fase transitoria, in cui nulla è realmente definito. Lo stesso Al Julani – a mio avviso – è una figura di transito, che difficilmente potrà gestire la fase successiva. Allo stato attuale, comunque, sono essenzialmente turchi ed israeliani a dare le carte, mentre americani, russi e iraniani restano ai margini della partita. Ma come questa andrà a svilupparsi in futuro dipenderà molto dal quadro complessivo del Medio Oriente, che al momento è estremamente fluido. Persino il quando ed il come si concluderà il conflitto in Ucraina influenzerà il contesto mediorientale, soprattutto per quanto riguarda lo spostamento del baricentro degli interessi statunitensi.
È ragionevole presumere che, in un arco di tempo relativamente breve, la Russia per un verso, e soprattutto l’Iran (ed Hezbollah) per un altro, torneranno ad esercitare la loro influenza anche in Siria.