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Chi è veramente italiano?

di Francesco Lamendola - 11/09/2018

Chi è veramente italiano?

Fonte: Accademia nuova Italia

 

 

 

 

Che cosa vuol dire essere veramente italiani? Chi è veramente italiano, a parte il pezzo di carta sul quale c’è scritto che si è in possesso della cittadinanza della Repubblica italiana? Siamo sempre stati profondamente convinti che l’essere italiani non è un fatto soltanto giuridico, e neanche soltanto biologico, ma è, prima di tutto, un fatto spirituale e morale. È veramente italiano chi ama l’Italia, chi la ama più di ogni altra cosa e chi sarebbe disposto a dare la sua vita per lei, come un figlio sarebbe pronto e disposto a dare la vita per difendere sua madre, qualora la  vedesse in grave pericolo: senza star lì a soppesare se è stata sempre una buona madre, se è stata sempre giusta verso di lui, se insomma merita, pesando i pro e i contro col bilancino, che si prendano le sue difese, costi quello che costi, oppure no. E ce lo chiediamo specialmente in questi giorni, quando vediamo tante persone che parlano e agiscono come se l’Italia fosse una mera astrazione, e i suoi figli non fossero tutti italiani, ma lo fossero solo quelli che la pensano come la pensano loro, e sentono quello che sentono loro, mentre gli altri no, non son degni di essere considerati fratelli, ma al contrario sono dei nemici, e come tali vanno trattati. Di fatto, ed è un vizio molto antico, nessuno sa odiare e disprezzare gli italiani, più di un altro italiano; nessuno straniero arriva a trattare con tanta ostilità, a nutrire sentimenti di così profondo disgusto, come sanno fare certi italiani nei confronti di altri italiani, per ragioni puramente ideologiche.

Diciamo tranquillamente che è un vizio particolarmente diffuso fra le persone di sinistra, probabilmente un retaggio dell’internazionalismo marxista: tutti i proletari sono miei fratelli, tutti i borghesi sono miei nemici; la mia patria è il proletariato e la borghesia è il mio nemico. Ora il marxismo non c’è più ma si è trasfuso nel cattolicesimo di sinistra, specialmente dei preti di strada. E quel prete che ha appeso sulla porta della chiesa il cartello: Vietato l’ingresso ai razzisti; tornate a casa vostra!, e che ha scritto, mostrando le foto dei sedicenti profughi da lui ospitati: Loro sono la mia patria!, è l’esatta continuazione del marxista duro e puro di cent’anni fa, per il quale la patria dei lavoratori è il comunismo, e il borghese è un sotto-uomo meritevole solo d’essere schiacciato dallo scarpone di Lenin o Stalin, e gettato, come diceva gentilmente Trotzkij, nell’immondezzaio della storia. Lo stesso atteggiamento abbiamo visto, al telegiornale, da parte dei manifestanti di Rocca di Papa, i quali volevano dare il benvenuto ai sedicenti profughi ed esprimere tutto il loro disprezzo e il loro astio per i manifestanti dell’opposto schieramento, venuti a ricordare che gli italiani, in Italia, vengono prima di tutto. Le parole e gli atteggiamenti da essi mostrati rivelavano chiaramente che, per loro, gli italiani che dissentono dalle politiche di “accoglienza”, che accoglienza non è, ma invasione mascherata, per loro non sono dei veri italiani, e forse non sono neppure dei veri esseri umani. Così come per il magistrato di Agrigento che ha messo sotto inchiesta il ministro dell’Interno, Salvini, per aver trattenuto a bordo della nave Diciotti 150 sedicenti profughi africani, costui non è degno di essere considerato un vero italiano, e forse nemmeno una vera persona, dato che è così insensibile e crudele. I veri italiani, per i militanti della sinistra, sono gli stranieri: se vince una partita o un campionato una squadra formata da atleti o atlete di colore (come è accaduto ai Giochi del Mediterraneo d il 2 luglio 2018), saltano dalla gioia per felicitarsi dell’Italia multietnica e multiculturale; e se una ragazza nigeriana si prende un uovo sul viso, si stracciano le vesti e urlano che tutti gli italiani stanno prendendo una brutta strada, quella della deriva razzista: ineffabile il titolone de L’Avvenire, il giornale della C.E.I. diretto da Marco Tarquinio: Vergogniamoci!; salvo poi passare ad un silenzio imbarazzato quando emerge che il razzismo non ha niente a che fare con quell’episodio, che la ragazza in questione ha esagerato di parecchio la gravità dell’infortunio e che suo padre, anni addietro, è stato arrestato per sfruttamento della prostituzione, in quel di Torino, ai danni delle sue connazionali nigeriane. Ma sui 700 reati quotidiani (settecento: un terzo del totale) commessi da stranieri, gran parte dei quali ai danni di cittadini italiani, compresi rapine, stupri e omicidi, silenzio di tomba: evidentemente lì non c’è da vergognarsi, nessuno deve chiedere scusa di nulla.

Dunque, stavamo riflettendo su chi sia veramente italiano, su quale sia il criterio per dire che un italiano è degno di essere considerato veramente tale, non solo a parole, non solo per nascita e per appartenenza giuridica, ma per elezione, quando ci è capitato di trovare, un po’ per caso, quel che cercavamo. Lo abbiamo trovato fra le pagine di un libro, le memorie del diplomatico italiano Mario Luciolli, che fu addetto d’ambasciata in diversi Paesi, dall’Australia alla Germania, fra il 1933 e il 1948; uno dei tanti che non ebbe troppe crisi di coscienza fra il 25 luglio e l’8 settembre del 1943, quando si trattava di decidere a quale delle due Italie bisognasse accordare la propria fiducia e soprattutto la propria fedeltà, e che quindi proseguirono tranquillamente la loro carriera mentre l’Italia si spaccava in due e una crudelissima guerra civile la insanguinava per un anno e mezzo. In effetti, il libro può essere letto anche come una implicita autodifesa, per spiegare in che modo sia stato possibile che un diplomatico del regime fascista sia rimasto in sella e abbia brillantemente proseguito la sua carriera dopo la caduta del fascismo e addirittura dopo la caduta della monarchia, con la disinvoltura di un piccolo Talleyrand e senza rischiare nulla, perché nel 1943 era console in Spagna e quindi non correva il benché minimo rischio a fare la scelta che fece, cioè decidere di stare con il Regno di Vittorio Emanuele III e contro la Repubblica Sociale di Mussolini. Comunque, non è questo l’aspetto che c’interessa. Nel corso del libro, nel quale egli si sforza costantemente di far vedere quanto fosse equanime e disinteressato, e come sia sempre stato ben superiore alle meschinità e ai carrierismi, a un certo punto dedica un capitolo ai ricordi personali su Mussolini. Non infierisce troppo contro la memoria del caduto dittatore, tuttavia non si trattiene dal mettere in risalto alcuni difetti del suo carattere, invero piuttosto ingenerosamente. Ad ogni modo, proprio lui ci ha offerto la migliore definizione di cosa voglia dire essere un vero italiano riportando, del tutto di sfuggita, una frase di Mussolini; talmente di sfuggita, che egli la riporta quasi casualmente e subito dopo passa ad altro, senza mostrare di attribuirle alcun particolare significato. Non dice neanche con precisione che anno fosse: lo abbiamo dedotto noi, facendo un calcolo, poiché egli era nato nel 1910 e l’episodio in questione accadde undici anni dopo che lui aveva compiuto i dodici; insomma, doveva essere il 1933. Egli aveva appena vinto un concorso a funzionario d’ambasciata e fu invitato, insieme ad altri neovincitori, per un breve saluto da Mussolini, il quale li ricevette nella sala del Mappamondo, a Palazzo Venezia, il giorno 11 settembre, rivolgendo loro poche parole. Tra l’altro, ecco che cosa disse il dittatore; riportiamo la precisa citazione dell’Autore (da: Mario Luciolli, Palazzo Chigi: anni roventi. Ricordi di vita diplomatica italiana dal 1933 al 1948, Milano, Rusconi, 1976, p. 117):

 

Dopo che gli fummo presentati uno per uno, ci fece un piccolo discorso. Fra l’altro ci disse che se un antifascista all’estero avesse avuto bisogno della nostra assistenza, avremmo dovuto trattarlo alla stregua di qualsiasi altro italiano. Inoltre non mancò di metterci in guardia contro la concezione ottocentesca e mondana della diplomazia…

 

Come, come? Arrivati a questo punto, siamo tornati indietro, perché l’Autore era passato a tutt’altri argomenti. Che cosa aveva detto Mussolini ai giovani diplomatici in partenza per le loro rispettive sedi all’estero? Abbiamo dovuto leggere e rileggere due, tre volte quella frase, prima di introiettarne a pieno il significato: ci disse che se un antifascista all’estero avesse avuto bisogno della nostra assistenza, avremmo dovuto trattarlo alla stregua di qualsiasi altro italiano. Ecco: avevamo trovato la definizione, il concetto tanto desiderato di cosa significhi essere un vero italiano. Mussolini, al culmine del potere e del prestigio, anche internazionale, raccomandava agli ambasciatori, non ai “suoi” ambasciatori, cioè non agli ambasciatori del fascismo, ma agli ambasciatori dell’Italia, di essere equanimi e di trattare qualsiasi connazionale all’estero, che avesse avuto bisogno della loro assistenza, in maniera imparziale, a prescindere dalle sue idee politiche. Così parlava un dittatore che era considerato, dai suoi oppositori, un truce tiranno, quasi una belva assetata di sangue; che era sfuggito per miracolo a diversi attentati e tentativi di assassinio; che aveva portato il Paese fuori da una guerra civile strisciante con il minor numero di morti e il minimo della violenza possibile, ma una guerra civile che, comunque, c’era stata, e che aveva lasciato il suo bravo strascico di odi e di risentimenti. Ora, riesce difficile immaginare una frase come quella in bocca a uno dei tanto sbandierati leader democratici, come Léon Blum o il futuro presidente De Gaulle; mentre riesce del tutto impossibile immaginarla sulla bocca di Hitler o di Stalin. Qualcuno s’immagina Hitler che dice ai suoi ambasciatori di trattare tutti i tedeschi all’estero in maniera imparziale, compresi gli antinazisti? Qualcuno riesce a immaginarsi Stalin raccomandare agli ambasciatori sovietici di usare ai cittadini russi anticomunisti gli stessi riguardi che per i buoni comunisti? Ma Hitler, e soprattutto Stalin, gli avversari politici fuggiti all’estero, li facevano accoppare. Altro che pensare a loro come a dei connazionali meritevoli della stessa assistenza  diplomatica di qualsiasi altro. Ebbene, proprio il tanto vituperato Mussolini, il Duce di quella cosa orribile e innominabile che fu il fascismo, l’inventore del male Assoluto (definizione dell’ex fascista Gianfranco Fini, dopo la conversione alla democrazia liberale sulla via di Fiuggi), di quel mostro sempre risorgente contro cui si battono valorosamente i campioni della sinistra odierna, i manifestanti a favore dei profughi, i preti di strada antirazzisti e i falliti dirigenti del Pd, nonché i giovanotti dei centri sociali, proprio lui dava ai suoi funzionari, ottantacinque anni or sono, l’idea di quel che vuol dire essere un vero italiano: vedere in qualunque connazionale, anche in quello che abbia delle idee politiche diametralmente opposte alle proprie, un fratello, un membro della stessa Patria, una persona meritevole di ricevere lo stesso aiuto che si vorrebbe per sé, qualora ci si trovasse in difficoltà.

E adesso andiamo oltre la riflessione storica su Mussolini e sul suo senso dello Stato, che veniva prima dell’appartenenza al fascismo: cosa un po’ curiosa, se si continua a pensare a lui come al prototipo di tutti i dittatori, anzi, di tutti i fondatori dei totalitarismi contemporanei. Invero tale riflessione non riguarderebbe solo Mussolini, ma gran parte del fascismo stesso, come dimostra, ad esempio, in ambito culturale il fatto che Giovanni Gentile chiamò a collaborare a quell’opera meravigliosa che è l’Enciclopedia Italiana i migliori esperti delle singole discipline, fascisti o antifascisti che fossero. Qualcuno s’immagina una cosa del genere nella Germania di Hitler o nell’Unione Sovietica di Stalin? E una osservazione non molto dissimile si potrebbe fare per la rivista Critica fascista di Giuseppe Bottai, che non era l’ultima ruota del carro, ma il ministro dell’Educazione Nazionale, così come Gentile era stato ministro della Pubblica Istruzione, oltre che uno dei massimi filosofi italiani del XX secolo. Andiamo oltre per vedere se sia possibile recuperare questo concetto e applicarlo alla realtà di oggi, in un momento storico, quello presente, nel quale esistono purtroppo le condizioni perché le antiche divisioni, i rancori, le furibonde contrapposizioni ideologiche, sociali, e anche economiche, tornino a esplodere, e provochino un nuovo clima da guerra civile, che potrebbe, Dio non voglia, ulteriormente degenerare, portarci verso chissà quali esiti funesti. È possibile, dunque, che gli italiani stringano un tacito patto di reciproco riconoscimento, nel quale, senza pretendere che scompaiano, come per un colpo di bacchetta magica, le differenze di opinioni, di sentimenti, di prospettive circa il futuro dell’Italia, tutti però si riconoscano in questo semplice enunciato: chiunque è italiano è anche fratello di ogni altro italiano, e merita lo stesso rispetto che ciascuno vorrebbe per se stesso? In altre parole: è possibile che tutti gli italiani, prima di sentirsi, e di essere, di destra o di sinistra, pro o contro questo o quell’aspetto della vita politica sociale, si riconoscano, con pari dignità, pari diritti e pari doveri, egualmente figli di una stessa madre, la Patria, la quale ha bisogno di loro, della loro concordia, e possibilmente della loro collaborazione in vista del bene di tutti, proprio come una qualsiasi madre soffrirebbe nel vedere i suoi figli che lottano e si odiano, e sarebbe felice se li vedesse, invece, che si capiscono e si rispettano, anche se non sempre, come del resto è logico, si trovano ad avere le stesse idee e i medesimi sentimenti? In altre parole: basta con le parole di odio, con le campagne di delegittimazione. E i cattolici, dove sono? Essi per primi, sulla base del Vangelo, dovrebbero dare l’esempio del rispetto e della concordia, e far vedere di sentirsi tutti figli dello stesso Padre. E invece proprio loro sembrano i più sfegatati nell’attizzare rancori e divisioni, sia verso i cattolici che hanno idee politiche diverse, sia verso tutti quanti non condividano al cento per cento la linea del signore argentino. Ma questo è un tradimento della loro missione, del quale si devono ravvedere…