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Cina v/s Fortezza America

di Salvo Ardizzone - 05/02/2025

Cina v/s Fortezza America

Fonte: Italicum

Ho già parlato di come la nuova Amministrazione Trump punti a fare degli USA una fortezza, una nazione eccezionale che torni a incutere timore, che imponga la pax americana alle proprie condizioni, secondo la propria massima convenienza. Beninteso, gli USA l’hanno preteso sempre, dai tempi di Woodrow Wilson, ma oggi lo dicono apertamente senza ammantarlo d’ipocrisia, lo pretendono con tanto di sfoggio muscolare.
Tuttavia, se questo getta nella costernazione gli alleati/sudditi dell’Occidente Collettivo, nel migliore dei casi ignorati, più spesso calpestati (vedi Danimarca), non sembra impressionare i competitor dell’America, ovvero chi essa identifica per tali semplicemente perché rifiutano d’assoggettarsi. Anzi. È il caso della Cina, da anni definita dagli USA minaccia sistemica perché – a detta della loro Dottrina Strategica Nazionale – è il più serio concorrente strategico e la minaccia principale ai loro interessi in quanto possiede sia l’intenzione di rivedere l’ordine internazionale basato sull’Egemonismo degli Stati Uniti, sia i mezzi economici, diplomatici, militari e tecnologici per farlo.
In realtà, Pechino non nutre alcun interesse d’andare a scontro aperto con gli USA, ma non ha alcuna intenzione di farsi intimidire; ha i suoi programmi e vuole perseguirli. Per questo, senza perder tempo in inutili dichiarazioni, alla vigilia del nuovo anno lunare, l’anno del Serpente, ha mandato a Washington un messaggio, anzi due, forti quanto concreti: il lancio dei modelli d’intelligenza artificiale di DeepSeek e, subito dopo, di Alibaba. Modelli che, a quanto pare, eguagliano – se non vogliamo dire superano – le prestazioni di quelli americani come ChatGpt, usando microchip di caratteristiche inferiori e spendendo molto, molto meno (appena sei milioni), una frazione di quanto speso negli USA.
A occhio disattento possono apparire fatti secondari, ma non lo sono affatto, impattano sui due cardini su cui gli Stati Uniti basano la propria pretesa egemonia globale: tecnologie avanzate e finanza; è la dimostrazione pratica del fallimento del tentativo di contenimento della Cina. Gli Stati Uniti l’hanno sempre trattata con sufficienza, ritenendola incapace di reali innovazioni tecnologiche, al massimo in grado di copiarle e male. Con ciò ripetendo l’errore già fatto agli albori della globalizzazione, quando l’Occidente ha creduto che i cinesi sarebbero rimasti fermi alle produzioni di bassa qualità e valore. Col lancio di R 1 e Owen 2.5, i due modelli immessi sul mercato, Pechino ha spiazzato l’America, ha dimostrato di poterla sorprendere, sconvolgendo la sua narrazione di pretesa superiorità.
A pensarci, può sembrare stupefacente che DeepSeek, una recente start-up con circa 200 dipendenti guidata dal giovane genio Liang Wenfeng, sia stata capace di scuotere colossi del calibro di Nvidia ma, in realtà, assai meno di quanto possa sembrare. Piaccia o no, le aziende tecnologiche americane sono alimentate da ricercatori asiatici, in maggioranza provenienti dalla Cina che sforna ogni anno tre milioni e mezzo di laureati in materie scientifiche, incomparabilmente più degli Stati Uniti, nei cui confronti è in netto vantaggio nel fattore umano, ed è un distacco che aumenta esponenzialmente nel tempo.
Ma non sono solo i cervelli a fare la differenza: nel sistema americano, società come Nvidia o Microsoft, ma anche le più innovative Oracle od OpenAI, funzionano per gonfiare le quotazioni e accumulare utili da spartire come dividendi fra gli azionisti, non certo per reinvestirli in innovazione. C’è questo alla base della spropositata bolla speculativa dell’Hi-Tech, la stessa che è stata scossa assai rudemente dal lancio dei prodotti cinesi. A pensarci, è ironico che sia stata la Cina, accusata dagli USA d’avere bolle immobiliari e del debito che – a loro dire – condannerebbero la sua economia a collasso certo, ad aver messo sotto gli occhi del mondo la fragilità della finanza americana.
Come ho scritto in altre occasioni, il punto è che in Cina i capitalisti sono liberi di arricchirsi, sì, ma a condizione che lo facciano nell’ambito delle direttive di una direzione politica forte e con le idee chiare. Non possono pensare d’agire per esclusivo interesse proprio, meno che mai quando il Sistema Cina è sotto attacco. Per paradossale che possa apparire, i muri che Washington prova ad alzarle intorno non fanno altro che indurre la dirigenza cinese a far convergere tutte le energie per superare le criticità, con ciò fungendo da stimolo e non da freno. In un clima simile, l’obiettivo cinese è ottenere risultati per il Sistema Paese non dividendi, ed è questo che fa tutta la differenza.
E non saranno mega progetti sull’intelligenza artificiale, strombazzati dalla propaganda USA quando di dubbia copertura finanziaria (vedi Stargate, acidamente definito da Elon Musk privo di fondi), ad assicurare il futuro dominio agli USA. A prescindere da giudizi di merito su un sistema, quello cinese, che è emanazione di una cultura altra per noi (come giustamente deve essere), il nocciolo è una diversa impostazione concettuale: in Cina il capitale non è rendita parassitaria per il singolo (o i singoli che dir si voglia), ma viene impiegato in ricerca, innovazione ed investimenti per la crescita complessiva del paese. Esatto opposto degli USA, dove vige la finanziarizzazione dell’economia. In sintesi, è profitto di sistema contrapposto a profitto immediato e per pochi, che nel breve, brevissimo periodo potrebbe anche essere più alto ma che esaurisce il sistema che lo genera. E lo si sta già vedendo.
Del resto, gli Stati Uniti non sembrano avere soluzioni efficaci per fermare la Cina al di fuori da sanzioni e dazi, che in verità si mostrano sempre più inutili. Uno degli ultimi provvedimenti dell’Amministrazione Biden è stato separare le filiere, ovvero la frantumazione della globalizzazione; il mondo è stato diviso in tre parti: gli USA e i suoi alleati, in pratica l’Occidente Collettivo, in cui l’High-Tech americano potrà continuare ad essere venduto; i cosiddetti paesi canaglia o assimilati, come Russia, Cina, Iran, Corea del Nord e alcuni altri, dove la tecnologia americana non potrà entrare; e la rimanente, grande, parte del mondo, dove la tecnologia avanzata USA avrà un accesso molto condizionato e relativo, con ciò lasciando immenso spazio proprio alla Cina, che da questo avrà impulso economico, politico e geopolitico.
È ancora una volta ironico che la globalizzazione, costruita dagli USA per i propri interessi, sia usata ora contro di loro che reagiscono spezzandola, segando il ramo su cui sono seduti, mentre gli altri, i competitor, proseguono sulla strada che hanno imparato a usare meglio di chi l’ha tracciata, ma a modo proprio e senza dimenticare la propria essenza. Con ciò smentendo il preteso dogma di marca liberale che un’economia avanzata debba necessariamente essere liberal-democratica.
E per inciso, l’economia cinese avrà pure problemi ma continuare a descriverla come malata perché nel 2024 è cresciuta del 5% invece che del 5,2 fa sorridere se la si mette a paragone di quelle occidentali, in recessione e con l’encefalogramma piatto. Gli stessi Stati Uniti, che succhiano risorse dal mondo intero, soprattutto da quello cosiddetto libero, nel 2024 sono cresciuti del 2,5. La metà.
Sia come sia, per adesso la nuova Amministrazione americana agita il bastone dei dazi aggiungendolo a quello delle sanzioni. Quanto siano efficaci entrambi e quanto danneggino gli Stati Uniti è altro discorso. Lo stesso Trump, in un recente messaggio, ha ammesso che potrebbero far male all’economia USA ma che, in vista dei benefici attesi, siano del tutto giustificati. In realtà, è una scommessa tutta da vedere: quella americana è un’economia largamente deindustrializzata, con un capitale umano in netto declino strutturale; per come è stata disegnata, separarla dal resto del mondo è semplicemente un azzardo.
Passi se lo si fa con paesi tradizionalmente succubi come gli europei, disposti ad accettare tutto dall’America, ma provarci con la Cina, la più grande potenza manifatturiera al mondo, significa privarsi del suo apporto per alimentare il mercato americano. Fatto evidente a chiunque; non è infatti un caso che, dopo la minaccia di dazi del 60%, quelli elevati contro Pechino siano stati del 10. Insomma, un tentativo d’intimidazione, un far la voce grossa prima d’intavolare trattative. Che non si fermeranno all’economia o al commercio.
Il paradigma della Fortezza America caro a Trump si rifà concettualmente all’idea di sfera d’influenza, ne è un implicito riconoscimento, con ciò sdoganandola e infrangendo un tabù delle passate Amministrazioni americane succedutesi dai tempi di Wilson, perché apre conseguenzialmente alla presa d’atto che anche altre potenze possano averla. Affermare che Groenlandia o Panama siano necessari alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti è riconoscere la fondatezza degli interessi della Cina su Taiwan o della Russia sull’Ucraina. Ovvero, di quegli stati civiltà che sono emersi caratterizzando il mondo multipolare, meglio, policentrico.
Panama e Groenlandia sono entrambi territori di massima rilevanza, la prima per la connettività americana fra costa atlantica e pacifica, la seconda per l’affaccio sull’Artico, prossima area di confronto globale, e per l’immensa massa di risorse. Il fatto è che nessuno minaccia il controllo americano su quelle aree: la Groenlandia l’America ce l’ha già; in virtù di accordi esistenti da decenni gli USA vi hanno già basi, e se ne avessero volute altre dieci la Danimarca gliene avrebbe concesse undici, lo stesso dicasi per lo sfruttamento delle riserve naturali, al momento limitato unicamente per le difficoltà ambientali e infrastrutturali. E un discorso assai simile può esser fatto per Panama.
In realtà, è una questione formale che per la nuova America trumpiana diviene sostanza in termini di comunicazione, di delimitazione dei confini di un impero ora in contrazione che intende marcare il suo limes, a beneficio dell’opinione pubblica interna e monito per i suoi competitor.  
La Cina ostenta grande interesse per quei territori ma, a mio avviso, si tratta assai più di carte negoziali che di reale intenzione di controllarli. Un modo di aprire una trattativa su molteplici aspetti. Sta già imponendo dazi e sanzioni – che faranno male - su merci e aziende USA, mentre impugna le loro azioni dinanzi all’Organizzazione del Commercio Mondiale, mossa sostanzialmente inutile ma di considerevole valore politico perché fa fare a Washington la figura del bullo dinanzi al Sud Globale. E poi intavolerà negoziati.
Cosa chiederà? Non pare difficile indovinarlo: Taiwan e il riconoscimento d’una propria sfera d’influenza nell’Indo-Pacifico, i temi realmente importanti per Pechino. In cambio, potrebbe disinteressarsi di Groenlandia e Panama, e aumentare i suoi acquisti negli USA. Beninteso, di merci che potrebbero servirle. Che, escluso l’Hi-Tech su cui con ogni probabilità sarà fatto discorso a parte, non sono poi tante.
In ogni caso, che i bellicosi proclami di Trump siano assai più scena per tentare d’acquisire una posizione di forza in negoziati piuttosto che misure definitive sembra chiaro. Lo si sta vedendo con la sospensione dei dazi col Canada e il Messico. Con queste premesse, il futuro dell’attuale governo di Taiwan appare piuttosto fosco, certo non tranquillo. In tal senso sono illuminanti le preoccupate reazioni alle mosse di Trump dei vertici di Giappone e Corea del Sud in cui, peraltro, i gruppi dirigenti filoamericani sono coinvolti per ragioni diverse in gravi crisi politiche.
In prospettiva, non è fantascienza immaginare per gli Stati Uniti un netto cambio di prospettiva verso Estremo Oriente in nome del “deal”, dell’affare, che privilegi l’utile immediato allo scontro sistemico potenzialmente devastante. Ma in questa ottica, che vede l’Amministrazione USA inseguire vantaggi da sbandierare oggi e la dirigenza cinese perseguire strategie di lungo periodo, non è difficile prevedere chi prevarrà alla lunga. Viviamo certo in tempi interessanti, tempi di cambiamenti. Epocali.
Peccato che le dirigenze europee non se ne siano accorte. Bloccate in una percezione del mondo fuori dalla Storia, cocciutamente avulse dalla realtà. E peccato pure che le cosiddette opposizioni a tale deriva di sudditanza rimangano fisse in un pseudo sovranismo senza sovranità, alimentato dai più beceri istinti ma privo di qualsivoglia consapevolezza. Con ciò rimanendo serve, felici d’un nuovo padrone.

(Tratto e adattato dal Format Il Filo Rosso condotto dall’autore sul canale youtube Il Vaso di Pandora)