L’approvazione in Senato della mozione per l’istituzione di una commissione parlamentare “per il contrasto dei fenomeni di intolleranza e razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza” (ribattezzata per brevità “anti-odio”) rappresenta l’ennesimo episodio di un conflitto durissimo che sta ridefinendo la dialettica politica in Occidente.
Quell’iniziativa ci ricorda innanzitutto che nelle democrazie liberali occidentali uno dei soggetti politici preminenti è il “partito del politicamente corretto”: un blocco multiforme di classi dirigenti progressiste (in caduta libera di consensi quasi ovunque), connesse ad istituzioni internazionali e mainstream media, la cui unica identità consiste attualmente nella retorica del “dirittismo” antidiscriminatorio riservato a gruppi “protetti” – in particolare immigrati, stili di vita, soggettività di “genere”. Alle prese con una crisi strutturale dell’ordine sociale dovuta agli stravolgimenti portati dalla globalizzazione, queste classi dirigenti sono sottoposte ad un attacco generalizzato da parte delle opinioni pubbliche, cavalcato dalle forze politiche di destra ridefinite come “sovraniste”. La sola arma residua in loro mano per conservare il potere consiste nel trasformare il dibattito politico in uno scontro di mentalità e civiltà: delegittimando radicalmente i loro avversari come pericolosi barbari, e cercando di limitare il dissenso attraverso una censura il più possibile estesa delle opinioni contrarie in quanto “offensive”, violente e discriminatorie: soprattutto sui social media, principale veicolo di campagna dei movimenti anti-establishment.
Da qui la crescente insistenza sulla minaccia dello hate speech, il tentativo di equiparare attraverso nuove leggi gli insulti ad atti di violenza, l’incoraggiamento ai social a bloccare pagine e profili di soggetti politici non conformisti, l’elaborazione di concetti come l'”omofobia” (e la “transfobia”) o l'”islamofobia” per demonizzare come aggressione qualsiasi critica all’agenda Lgbt e all’immigrazione irregolare.
Attraverso il controllo del linguaggio e la “guerra delle parole”, insomma, il nucleo del potere progressista sotto assedio cerca di scavare una trincea per alleggerire l’assedio al quale è sottoposto. La commissione parlamentare proposta usando il nome della senatrice a vita Liliana Segre rientra pienamente in questa casistica. E, non casualmente, la campagna per la sua istituzione viene lanciata subito dopo una rovinosa sconfitta elettorale della coalizione governativa di sinistra, e in un momento in cui appare sempre più evidente quanto essa sia minoritaria nel consenso del paese. Sotto la labile copertura della lotta all’antisemitismo, essa rappresenta evidentemente una manovra diversiva per mettere bastoni tra le ruote delle opposizioni, allargando smisuratamente, in base a criteri politici arbitrari, il campo delle opinioni vietate e perseguibili.
Il tutto, tra l’altro, ignorando il fatto che l’autentica emergenza del razzismo antisemita in Europa (in Italia per fortuna ancora trascurabile, ma solo per ragioni demografiche) viene dal numero crescente di aggressioni agli ebrei europei da parte di fanatici islamisti: cresciuti a dismisura proprio in seguito all’indiscriminato incoraggiamento multiculturalista all’immigrazione, ed appartenenti in quanto immigrati e musulmani proprio ad una categoria “protetta” dalla retorica “diversitaria” progressista.