«Chi certamente andrà all’inferno è colui che si arricchisce rubando ai poveri e rivendendo ai ricchi. Perché non pagate un prezzo onesto? Perché comprate da noi a 1 e rivendete in Europa a 1.000? Allora quando la finiamo di comportarci da ladri?». Parole sante pronunciate, nel film Porgi l’altra guancia, dal missionario G. (Terence Hill) al mercato del porto di Maracaibo in America Latina contro gli scagnozzi del governatore marchese Gonzaga, che aveva formato un cartello con le compagnie commerciali olandese, inglese, francese e spagnola, per acquistare pepe, cacao e caffè dagli agricoltori indigeni a un prezzo dimezzato da 200 a 100 pesos al sacco. Poi giunse padre Pedro (Bud Spencer) e lascio immaginare cosa successe… Era il 1890.
Negli stessi anni, ma non nel film, moriva Eduard Dekker che aveva scritto il romanzo Max Havelaar in cui accusava la ferocia del colonialismo olandese in Indonesia, dove i contadini erano costretti a produrre materie prime da esportare quali caffè e zucchero, anziché riso per l’autosostentamento, ricevendo una paga da fame.
Il titolo del libro venne usato nel 1988 dal nascente movimento del commercio equo e solidale, in breve CES, per denominare la prima etichetta di caffè etico in Olanda. Seguirono altre simili iniziative in tutta Europa fino alla fondazione nel 1992 dell’organizzazione Fairtrade con un proprio marchio che certifica a livello internazionale le aziende che attuano pratiche di giusto scambio commerciale nei confronti dei lavoratori agricoli dei Paesi “poveri” a cui è garantito un prezzo minimo di acquisto che copra i costi medi di una produzione sostenibile e sopravanzi un margine aggiuntivo di guadagno, il cosiddetto “Premio”, da destinare localmente a progetti sociali e ambientali, miglioramenti produttivi o integrazioni salariali.
Di CES, dalle origini allo stato attuale, parla l’inchiesta del giornalista indiano Samanth Subramanian sul quotidiano britannico The Guardian del 23 luglio 2019 – riportata in Italia dal settimanale Internazionale nel numero 1326 del 27 settembre – che è intitolata con una domanda: «L’equo e solidale esiste ancora?».
Negli stessi anni, ma non nel film, moriva Eduard Dekker che aveva scritto il romanzo Max Havelaar in cui accusava la ferocia del colonialismo olandese in Indonesia, dove i contadini erano costretti a produrre materie prime da esportare quali caffè e zucchero, anziché riso per l’autosostentamento, ricevendo una paga da fame.
Il titolo del libro venne usato nel 1988 dal nascente movimento del commercio equo e solidale, in breve CES, per denominare la prima etichetta di caffè etico in Olanda. Seguirono altre simili iniziative in tutta Europa fino alla fondazione nel 1992 dell’organizzazione Fairtrade con un proprio marchio che certifica a livello internazionale le aziende che attuano pratiche di giusto scambio commerciale nei confronti dei lavoratori agricoli dei Paesi “poveri” a cui è garantito un prezzo minimo di acquisto che copra i costi medi di una produzione sostenibile e sopravanzi un margine aggiuntivo di guadagno, il cosiddetto “Premio”, da destinare localmente a progetti sociali e ambientali, miglioramenti produttivi o integrazioni salariali.
Di CES, dalle origini allo stato attuale, parla l’inchiesta del giornalista indiano Samanth Subramanian sul quotidiano britannico The Guardian del 23 luglio 2019 – riportata in Italia dal settimanale Internazionale nel numero 1326 del 27 settembre – che è intitolata con una domanda: «L’equo e solidale esiste ancora?».
Subramanian risponde che «proprio le maggiori aspettative di sostenibilità che Fairtrade ha contribuito a diffondere in tutto il mondo stanno producendo l’effetto perverso di preparare il terreno per la fine del movimento. Le aziende stanno perdendo fiducia in marchi come Fairtrade: non solo nella loro capacità di mettere al sicuro il futuro dell’agricoltura e dei problemi su cui si basano i guadagni delle aziende, ma proprio nel valore di questi bollini indipendenti di sostenibilità».
Migliaia di produttori e distributori di beni di largo consumo, dai colossi alimentari alle insegne della GDO, sono certificati o utilizzano in licenza il marchio della Fairtrade, che nel 2018 ha registrato un valore complessivo di vendite per 8,5 miliardi di dollari (erano 9 nel 2017) con prodotti lavorati da 1,6 milioni di agricoltori di luoghi svantaggiati. Come evidenzia l’inchiesta, questi risultati sono relativamente deludenti: «una briciola di fronte ai due miliardi di persone che vivono di agricoltura. […] il mercato del caffè vale da solo duecento miliardi».
Faccio un altro esempio: il frutto più consumato al mondo, la banana, registra all’anno in tonnellate una produzione globale di 110 milioni e le importazioni italiane ammontano in 630.000, di cui soltanto 15.700, pari appena al 2,5%, rientrano nel sistema Fairtrade in termini di volumi venduti ed è il loro prodotto principale.
Restando In Italia, l’agenzia SWR ha realizzato nel febbraio 2018 un sondaggio – divulgato l’anno dopo dall’Osservatorio Coesione Inclusione Sociale (OCIS) – sul consumo responsabile, intervistando un rappresentativo campione di 1.000 cittadini maggiorenni. Il 36,6% sono consumatori irresponsabili che, nella maggior parte dei casi, non conosce (o non gli interessa) nessuna pratica solidale. Il restante 63,4% è invece responsabile, di cui il 37,3% fa compere nel CES. Quest’ultima percentuale, se confrontata con un’analoga indagine del 2002 sull’associazionismo sociale – effettuata dall’istituto di ricerca IREF – è in crescita del 21%, considerando però che nei conteggi ci sono anche gli acquisti sporadici.
Il CES è quindi tuttora un mercato di nicchia, ma di sicuro nei prossimi anni seguirà un trend di espansione dato che oggi siamo bersagliati da messaggi mediatici che colpevolizzano il consumo senza etica, come causa di un’imminente catastrofe ecologica, premendo specialmente sul protagonismo ribelle degli adolescenti e dei bambini: futuri consumatori. Per le multinazionali è un affare, il capitalismo si rigenera, Pasolini direbbe «oh generazione sfortunata, e tu obbedisti disobbedendo!».
Nell’inchiesta, Subramanian spiega: «Molte multinazionali del settore alimentare hanno preso in mano la situazione, creando programmi di certificazione interni e valutando in autonomia i loro comportamenti etici. […] Le multinazionali considerano Fairtrade troppo rigida e sostengono che i programmi di sostenibilità interna danno maggiore “flessibilità”. In realtà, quello che intendono è “controllo”: controllo su come sono stabiliti i prezzi delle materie prime, su come selezionare o scartare i produttori, su come gli agricoltori coltivano la terra o perfino su come vivono».
Negli scaffali dei supermercati e ipermercati, dove è concentrata la spesa di massa, ci sono già centinaia di bollini di sostenibilità e per i consumatori è un “affaticamento da etichetta”, scrive Subramanian, con il rischio di cadere nel greenwashing, ovvero lavarsi la coscienza, comprando prodotti verdi o solidali, reclamizzati da spot di marketing etico, non sempre veritieri e talvolta ingannevoli.
Per una scelta giusta, bisogna dubitare e informarsi. Pure sulle stesse organizzazioni del CES. Nell’inchiesta, è citato uno studio del 2014 della Soas University di Londra sulle condizioni lavorative nelle piantagioni di tè e caffè in Etiopia e Uganda, risultando che i braccianti dell’equosolidale erano malpagati e più sfruttati, rispetto a quelli dei campi convenzionali, ma Fairtrade dichiarò all’epoca che si trattava di “paragoni distorti”.
Per osservare più da vicino la realtà, segnalo il reportage «Chi paga il conto per le banane equosolidali» del giornalista Stefano Liberti – pubblicato da Internazionale online il 22 maggio 2017 – sulle piantagioni nella Repubblica Domenicana, dove operano le imprese Banelino e Plantaciones del Norte, aderenti a Fairtrade, con manodopera costituita prevalentemente da immigrati della vicina Haiti. Liberti ha incontrato padre Regino Martínez, un gesuita impetuoso alla maniera del duo Hill-Spencer, che denuncia la miseria assoluta in cui vivono gli operai haitiani, senza possibilità di negoziare i salari che, nonostante il premio, sono bassissimi, e pone una questione fondamentale: ha senso parlare di commercio equo e solidale quando nelle piantagioni i lavoratori sono pagati cinque dollari al giorno?