Confiteor
di Franco Cardini - 13/11/2024
Fonte: Franco Cardini
CONFITEOR. IN CHE COSA CREDE FRANCO CARDINI
Cari Amici,
avrei voluto dedicare questo numero dei “Minima Cardiniana” soprattutto alle recensioni, un compartimento nel quale abbiamo troppi arretrati. Ma pazientate ancora un po’. Mi giungono da troppe parti sollecitazioni a “chiarire” le mie posizioni. “Chi me piglia pe’ francesa, chi me piglia pe’ spagnola”, come diceva una Sciantosa napoletana di tanti decenni or sono. Allora ho buttato giù, con sincerità e semplicità esemplari, una paginetta di appunti. Se volete, un semplice “Manifesto spirituale”. Ecco qua.
Viviamo in un mondo in rapida evoluzione: il passaggio dall’era dell’egemonia americana all’età del multilateralismo – che sembra segnata, per ora irreversibilmente, dai successi dei paesi del cosiddetto BRICS, che i governi occidentali e i media ad essi funzionali hanno finora fatto di tutto per occultare e minimizzare – comincia a provocare dubbi e incertezze a proposito del ruolo dei paesi europei nello schieramento internazionale. Se le guerre attuali non si risolvono, se anzi s’intensificano e si ampliano, il futuro diviene allora davvero incerto. E si sente la mancanza di una voce europea unita, energica, autorevole, in grado di farsi sentire anche dalle grandi potenze. Questo è il problema che oggi mi sembra fondamentale.
Dovrei essere stanco e deluso riguardo all’Europa unita, la mia grande aspirazione politica: ho sempre guardato alla sua storia come a quella di una vera forza di pace, una grande potenza cristiana in grado di fare da esempio al mondo intero. Ma lo studio della stessa storia europea mi ha mostrato come, al contrario, essa sia stata, tra medioevo ed età moderna, la protagonista di un processo di secolarizzazione sempre più vorticoso che, unito alle violenze e ai soprusi del colonialismo e alla forza crescente delle istanze individualistiche, ha condotto a una realtà globale dominata dal nihilismo: e quindi a una società occidentale egoistica, egocentrica, volgarmente (non “scientificamente”, come voleva essere il marxismo) materialistica, del tutto atea nella pratica in quanto ormai naturaliter estranea a qualunque idea trascendente e inesperta del mondo simbolico che tali idee accompagna. Chi ha, come me, una vasta e pluridecennale esperienza di colloquio con adolescenti e giovanissimi, lo sa bene. Una società esposta a qualunque sorta d’immoralità: ed è quel che vediamo crescere attorno a noi proprio nella delinquenza giovanile e nella sua crescente, allarmante precocità.
Qui s’innesta la mia educazione storiografica. Allevato al severo weberismo liberalconservatore di Ernesto Sestan e alla lezione marxista non dimentica però del magistero di Carl Schmitt ch’era propria di Delio Cantimori (i miei due grandi Maestri universitari), ho avuto la fortuna di viaggiare moltissimo all’estero, e in tempi nei quali non lo si faceva. Negli Anni Cinquanta, ragazzino e quindi adolescente, ho conosciuto l’Europa: Vienna a 12 anni (sono del ’40), Parigi a 13, Madrid a 14; a 16 ho tentato una rocambolesca fuga da casa per raggiungere Budapest in fiamme e morire sulle barricate in difesa del popolo ungherese. Il mio “fascismo” di allora era la febbre romantica di un ragazzo che aveva letto troppo Salgari e che da lì era passato presto a Melville, a Conrad, ma anche al romanzo russo dell’Otto cento e al Michele Strogoff di Jules Verne non meno che a Dumas. Fossi stato diciottenne nel 1920, avrei seguito D’Annunzio a Fiume.
Era naturale che uno come me, una volta imbattutosi nella storia – e naturalmente nel medioevo di Walter Scott e delle crociate – e quindi sufficientemente maturato incontrasse Jacques Le Goff, Alberto Tenenti, Fernand Braudel e quindi la “Scuola delle Annales”, la Nouvelle Histoire: un modo d’intendere la storia come scienza a suo modo “sociale”, con un legame privilegiato rispetto all’antropologia culturale in paradossale bilico tra Frobenius e Lévi-Strauss. Ma debbo dire che all’amore per il “diverso”, per l’”Oriente”, per le società tradizionali mi aveva già iniziato dal canto suo Julius Evola, dal quale non ho assorbito alcuna lezione razzistica. E come avrei mai potuto? Io ero un innamorato delle civiltà “altre”: dell’“Altro culturale”, l’Extraeuropa, e dell’“Altro sociale”, quello dei “subalterni” contrapposti agli “egemoni”, quello degli sfruttati, degli Ultimi. Da Evola, piaccia o no e scandalizzi o meno, avevo appreso l’interesse per “l’Altro” e il gusto del “Diverso”. E incrociando Evola con il Nicola Cusano del De pace Fidei avevo appreso il rispetto per tutte le religioni: a riconoscere l’Uno dietro la maschera dei millanta dèi che popolano l’immenso Pantheon del mondo e della storia.
Fui quindi al tempo stesso un élitario universalista per quel che riguardava i miei gusti culturali e un “socialista cristiano” come mi avevano insegnato in famiglia. Ma l’Occidente liberale e postcolonialista, vincitore di due guerre mondiali, stava andando in tutt’altra direzione. Avevo tutte le carte in regola per diventare comunista, e difatti simpatizzavo con Stalin. E comunista sarei stato, se il comunismo si fosse limitato ad essere una tesi sociologica e una passione sociale: ma il suo pervicace ateismo mi separava da esso e i “cristiani per il socialismo” alla Franco Rodano non mi convincevano. Mi sembrò che un possibile “fascismo” rivissuto e rivisitato si attagliasse meglio al caso mio. Del fascismo, che certo non conoscevo abbastanza, m’interessava soprattutto il tentativo di sintesi tra la questione nazionale e quella sociale.
Fu a questo punto che diciottenne conobbi, nella piccolissima sede fiorentina de “Il Secolo d’Italia” al quale collaboravo gratis – un vero e proprio “covo sansepolcrista” –, un giovane mutilato di guerra che ne era segretario (a titolo gratuito anch’egli). Si trattava di un grande, ignorato e dimenticato studioso: Attilio Mordini, classe 1923, volontario di guerra in Russia (contro il “comunismo ateo”), “ragazzo di Salò” sostenitore convinto del suo programma sociale – fu lui a parlarmi di Berto Ricci e della “fronda fascista fiorentina”, il “fascismo di sinistra” di Ardengo Soffici e di Ottone Rosai –, che in pochi mesi di scellerata semillegale detenzione postbellica aveva contratto la tubercolosi (ne morì nel 1966). Mordini, fascistissimo senza dubbio ma a modo suo, era anche un fine germanista allievo di Quinto Santoli e studioso attento di Stefan George: ma ciò non gl’impediva di essere anche un innamorato della mistica ebraica e quindi lontanissimo da qualunque tentazione razzista nonostante fosse un lettore attento di alcuni libri di Julius Evola (specie del suo migliore, La Dottrina del Risveglio dedicato al buddhismo). Molto attento alla cultura austrotedesca – con un occhio addirittura all’ esoterismo, ma senz’ombra di occultismo di sorta – e ammiratore della dinastia degli Asburgo, Mordini fu altresì il mio primissimo iniziatore ai misteri simbologici del mozartiano Flauto magico. Era non solo cattolico ineccepibilmente credente e praticante, ma anche terziario francescano e, sotto il profilo teofilosofico, tomista perfetto. A lui debbo quella parte delle mie povere competenze francescaniste e dantistiche alle quali non sarei mai arrivato attraverso la sola cultura universitaria. A lui debbo il rispetto e la venerazione per le culture tradizionali alle quali quella razionalista e materialista dell’Occidente moderno ha mosso per almeno tre lunghi secoli una guerra spietata, salvo poi la resipiscenza e le lacrime di coccodrillo di molti tardivi adepti dell’antropologia culturale. Mordini, e un po’ perfino Evola, sono i “padri in ombra” del mio attuale sentire antimoderno e della mia difesa ad oltranza degli “Ultimi” (nel senso francescano e papiniano di questa parola). Il resto è venuto da sé: anche il mio “castroguevarismo” degli Anni Sessanta-Settanta (una malattia dalla quale grazie a Dio non sono mai guarito). A livello politico non temo alcuna etichetta: ma sono incrollabilmente cattolico, socialista ed europeista (in quest’ordine gerarchico d’importanza).
Questi sono i fondamenti sia delle mie posizioni civiche e storiografiche di oggi, che s’identificano nello sviluppo forse molto personale di una via indicatami dalla legoffiano-braudeliana Nouvelle Histoire corretta sia dalla lezione pur tutt’altro che monolitica della mia Sacra Triade (lo Johan Huizinga dell’Homo ludens, il Marc Bloch de I re taumaturghi, il Carl Schmitt de Il Nomos della terra), sia dalle mie propensioni “esistenzialistiche”, che mi riconosco ma che debbo fondamentalmente a Miguel de Unamuno e al suo Don Chisciotte. A questo aspetto del mio mondo culturale debbo l’interesse, anzi la passione, anche per autori che vanno dallo Hemingway de Il vecchio e il mare (e torna la Cuba del “mio” Fidel, del “mio” Che Guevara) al Drieu La Rochelle di Gilles e perfino al Céline del suo “diario-esodo” del ’44 al castello di Siegmaringen al Bulgakov de Il Maestro e Margherita per la letteratura in prosa, mentre per la poesia e per la musica sono incrollabilmente monoteista: Federico Garcia Lorca per la prima, Wolfgang Amadeus Mozart per la seconda.
Al magistero di Mordini e di un gruppo ristretto di suoi giovanissimi allievi, del quale facevo parte anch’io, debbo quindi il “mistero ossimorico” del fatto che uno con una formazione e un pensiero come quelli che ormai mi erano propri abbia poi potuto sopravvivere cos ì a lungo nel MSI. La risposta è appunto che ci trovavamo all’interno di un microambiente di “eretici di ogni eresia”: una strada del genere fu percorsa, anni dopo, anche da personaggi come Marco Tarchi o Stenio Solinas. Per raccontare solo un evento, nel 1963 partecipammo (saremo stati una decina) a una manifestazione per “l’italianità dell’Alto Adige” fra Trento e Bolzano. Eravamo tutti mordinianamente filoasburgici e ammiratori convinti dell’esperienza plurietnica e sovranazionale dell’impero austrungarico, nemici della congiura liberista internazionale del 1914 e del tradimento dell’Italietta del 1915 nei confronti della Triplice Alleanza. Missini, la nostra era in realtà piuttosto una fiamma nero-oro, i colori dell’impero di Francesco Giuseppe: che cosa c’entravamo, noialtri, con i patriottardi del “nostro stesso partito”? Assolutamente nulla: e difatti, una volta a Bolzano, ci guardammo bene dall’ accodarci alla manifestazione irta di giacobini tricolori e andammo a far visita, accompagnata da buona birra, ai “sudtirolesi revisionisti” seguaci della famiglia Klotz: e di Eva Klotz, una donna eccezionale, sono ancora buon amico.
Eravamo gente che – con tutto il rispetto per i caduti di qualunque parte e di qualunque guerra – non andavamo a Redipuglia: ma che a Vienna visitavamo (e ancor oggi visitiamo) le reliquie dell’Imperatore nella Cripta dei Cappuccini. Resistemmo nel MSI vivendo questa lacerazione con postadolescenziale allegria, come “paria all’interno di un mondo di paria”: finché non fummo costretti a prender atto che la servile acquiescenza del partito neofascista alla politica statunitense e a quell’associazione internazionale a delinquere ch’è la NATO non poteva più contare sulla nostra complicità: e ce ne andammo. Furono Ho Chi Minh ed Ernesto Guevara ad aprirci definitivamente gli occhi: sia sempre benedetta la loro memoria. È ancora la memoria del “Che” a guidarci: aprendimos a quererte – desde tu historica altura – donde el sol de tu bravura – te puso acerca la muerte.
Ma queste sono follie postadolescenziali. Senonché alle follie adolescenziali bisogna restare sempre devotamente fedeli, anche quando si sa bene di averle superate. E l’averle nel proprio DNA ci aiuta a vivere da cittadini e da studiosi onesti ed equilibrati.
Professionalmente parlando, sono uno “storico di mestiere”. E, come sempre fatalmente succede, nel mio mestiere mi porto dietro anche le mie passioni, ma non è detto che l’uno e le altre coincidano sempre: del resto, le contraddizioni sono il sale – e il peperoncino – di qualunque autocoscienza che voglia mantenersi viva e animata da onestà intellettuale.
V a da sé che tutto ciò mi tiene ben lontano da qualunque forma di teleologismo immanentistico nella storia: essa non ha alcuna “ragione”, non tende ad alcun “fine” sul piano del suo concreto processo (non “progresso”); essa è imprevedibile, e perciò gli storici sono semplicemente ridicoli quando si atteggiano a futurologi o, peggio ancora, a “profeti”.
Infine, il mio cattolicesimo. Sono cattolico apostolico romano, credente e praticante. Resto fedele alla Chiesa e al pontefice romano in tutto e per tutto. Il mio “credo” è quello del “Simbolo Niceno”, senza nulla aggiungere e nulla togliere. L’anima del cattolicesimo è la disciplina: le blasfeme buffonate dei neotradizionalisti denunziatori del “papa eretico” e fautori del principio sedevacantista o di quello “provitista” non m’interessano e non mi mettono neppur di buon umore; ho altro cui pensare. Il mio cattolicesimo è profondamente tradizionalista, sono un devoto della Beata Vergine Maria e da Attilio Mordini ho appreso la bellezza e la misteriosa profondità della preghiera del Rosario. Credo che nel cattolicesimo si possa vivere appieno l’esperienza del Sacro in una sua significante variabile antropologica, ma altresì che la fede è una cosa semplice e al tempo stesso sublime, quella espressa nel Cantico delle Creature di Francesco d’Assisi. Quanto alla “mia religione” in sé e per sé, sono un convinto sostenitore del fatto che ebraismo, cristianesimo e Islam sono in realtà tre differenti confessioni di una sola religione, quella da Dio rivelata ad Abramo, a Mosè, ai Profeti e per la quale Dio si è incarnato in Gesù Cristo; quella alla quale appartiene anche Muhammad, Profeta non del Cristo venuto ma del Cristo venturo, come rivelano le Apocalissi musulmane. Quella che Nicola Cusano ha espresso nel dialogo tra Dio e tutti i popoli nel suo De pace fidei.
Oggi lo scontro vero e definitivo non è tra Oriente e Occidente, tra “democrazie” e “dittature”, bensì tra chi si è mantenuto fedele al senso del Divino e chi lo ha tradito, perduto o rinnegato.
Per questi motivi non starò mai con il “nostro Occidente” che ha rinunziato alla misura della Misericordia, per quanto cerchi di barattarla con la sua miserabile caricatura, l’umanitarismo; il “nostro Occidente” che blatera di umanità, di democrazia e di giustizia e poi lascia annegare il “popolo dei gommoni” che ormai ha trasformato il Mare Nostrum in un cimitero; per questo detesto le ostentazioni di opulenza e lo sperpero di ricchezze della nostra vita vissuta nel fasto effimero di quei modelli di vita oggetto delle vetrine dei talk shows animati da sonnambuli perduti nei loro giochetti telematici e delle mortifere illusioni della cosiddetta “intelligenza artificiale” mentre a Gaza uomini, donne e bambini muoiono in un’assurda mattanza e si negano loro perfino i medicinali.
Per questo ritengo che tutte le ricchezze sperperate da un popolo di schiavi del mondo le divinità del quale sono il Possesso e il Profitto, l’Avere e il Comparire, siano infinitamente inferiori sia all’ideologia gentiliana dell’“Umanesimo del Lavoro”, sia soprattutto al semplice fruscio del povero sari bianco-azzurro di Madre Teresa di Calcutta.