Il suo nome ufficiale è Sars-Cov-2. È il virus responsabile dei casi di Covid19, ovvero la malattia che sta avendo caratteristiche di pandemia che ha spinto l’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, a dichiarare l’emergenza sanitaria globale, cosa già avvenuta in passato per le epidemie di H1N1, Zika ed Ebola.
Il virus è uno dei tanti “coronavirus” che sono stati scoperti e che hanno colpito la popolazione umana nel corso degli anni. Non è un caso si chiami “Sars-Cov” in quanto ha in comune almeno il 70% del patrimonio genetico con un altro ben noto, e molto più pericoloso, “coronavirus”: la Sars.
Oltre a Sars-Cov-2, che per semplificazione narrativa chiameremo Covid19, e oltre al virus della Sars, ne esistono altri cinque: HCov-OC43, HCov-HKU1 (betacoronavirus), HCov-229E, HCov-NL63 (alphacoronavirus) e il Mers-Cov.
Come alcuni di voi ricorderanno l’epidemia di Sars-Cov esplose in Cina, nella provincia di Guangdong, nel novembre del 2002, mentre quella di Mers-Cov è più recente e risale al 2012 ed il primo caso è stato registrato in Arabia Saudita.
Al 22 febbraio, in base ai dati pubblicati dal Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (Ecdc) nel sito dedicato al focolaio da nuovo coronavirus, sono stati notificati complessivamente 77825 casi confermati in laboratorio di Covid19, di cui 2359 decessi. Un tasso di letalità pari al 3,03%.
Piccola parentesi terminologica: il tasso di letalità è un rapporto tra il numero dei morti e quello dei contagiati, il tasso di mortalità invece tra il numero dei morti e quello dell’intera popolazione (sana e non).
Se il 3% di letalità sembra tanto, occorre però considerare che altre due malattie da coronavirus che hanno assunto le caratteristiche di epidemia in passato hanno avuto tassi molto più alti: 9,5% per la Sars e 34,5% per la Mers.
Ora che abbiamo inquadrato la malattia nel suo “albero genealogico” possiamo addentrarci nel tema principale, ovvero provare a fare chiarezza sulle varie teorie che circolano a riguardo la nascita del virus Covid19.
Le teorie sull’origine della pandemia di Covid19
Attualmente esistono tre narrazioni sulle genesi della malattia.
La prima, quella principale e diremmo ufficiale, che sia derivata da una qualche forma di passaggio naturale del virus tra animale e uomo, in quanto esistono prove crescenti che dimostrano il legame tra Covid19 e altri coronavirus noti simili e circolanti tra i pipistrelli. Più precisamente quelli delle sottospecie di pipistrelli rhinolophus. Queste sottospecie sono abbondanti e ampiamente presenti nella Cina meridionale e in tutta l’Asia, il Medio Oriente, l’Africa e l’Europa. Studi recenti indicano che sono stati identificati oltre 500 tipi di coronavirus nei pipistrelli in Cina. Sotto la lente d’ingrandimento sarebbero quindi le abitudini alimentari dei cinesi in quella regione.
La seconda riferisce di un possibile esperimento sul virus andato fuori controllo nei laboratori cinesi. Secondo due biologi della South China University of Technology “le possibili origini del coronavirus 2019-nCoV potrebbero avere come causa gli animali infetti tenuti in laboratorio dal Centro per il Controllo delle Malattie di Wuhan (Whcdc), tra cui 605 pipistrelli”. “Il Whcdc è anche vicino all’Union Hospital dove il primo gruppo di medici è stato infettato durante questa epidemia. È plausibile che il virus sia trapelato e che alcuni di essi abbiano contaminato i pazienti iniziali, sebbene siano necessarie nuove prove”. La tesi dei ricercatori, come riportato anche da Adnkronos, è che i pipistrelli una volta hanno attaccato un ricercatore e “il loro sangue è finito sulla sua pelle”. Tesi suffragata da indagini sul genoma del virus, che è stato dimostrato essere identico in una percentuale che oscilla tra l’89 e il 96% a quello del coronavirus Bat Cov ZC45, ovvero quello dei pipistrelli. Il virus quindi sarebbe trapelato dal laboratorio, dopo il primo passaggio tra animale e uomo, che si trova a dodici chilometri da Wuhan.
La terza tesi, più complottista, è quella che Covid19 sia in realtà un’arma batteriologica studiata dagli Stati Uniti per colpire la Cina in un momento in cui Pechino sta sfidando apertamente l’egemonia di Washington sul piano globale.
Facciamo finta per un momento di non sapere che, sebbene la Cina stia compiendo passi da gigante nel campo della tecnologia militare, sia ampiamente indietro rispetto agli Usa per il semplice fatto che non dispone delle stesse capacità di proiezione di forza e nemmeno ha un arsenale nucleare tale da essere considerabile un efficace strumento per un first strike, ma solo in grado di offrire una, al momento moderata, capacità di dissuasione e deterrenza. Facciamo anche finta di non sapere che la Cina non ha le stesse capacità Istar (Intelligence Surveillance Target Acquisition and Reconnaissance) che hanno gli Stati Uniti, e che sono fondamentali nel quadro del controllo del campo di battaglia e anche per lo stesso controllo della situazione globale. Facciamo finta di non sapere che la strategia americana è quella di contenere le potenze locali affinché non diventino egemoni su di uno scacchiere regionale, con possibilità di futura proiezione globale, e che pertanto gli attriti tra Washington e Pechino vadano inquadrati in questo senso piuttosto che in quello di una minaccia diretta all’egemonia globale americana, che non c’è (almeno per il momento), in quanto, lo ricordiamo, sono le navi militari battenti bandiera a stelle e strisce a pattugliare il Mar Cinese Meridionale, non quelle cinesi a farlo nel Golfo del Messico.
Limitiamoci quindi a considerare se sia possibile che Covid19 possa essere o meno un’arma batteriologica.
Le caratteristiche di un’arma batteriologica
Per capirlo ci vengono in aiuto gli stessi manuali militari che fissano i parametri affinché un agente patogeno possa essere utilizzato come arma batteriologica. Parametri che sono mutuati dalla virologia ma che, contrariamente a quanto possa pensare la vulgata, non sono per nulla intuitivi e soprattutto vanno considerati e rispettati nel loro insieme, pertanto anche se uno solo di questi viene a mancare, non si può parlare di arma batteriologica.
Essi sono sette:
- La virulenza, che misura la patogenicità (o potere patogeno) di un agente, ossia quanto esso è capace di provocare una malattia e di indurre lesioni nei tessuti colpiti, che deve essere pesante anche se non necessariamente letale –
- L’infettività, che misura con quanta facilità un agente patogeno è in grado di infettare l’ospite. L’infettività è inversamente proporzionale al numero di organismi necessari per l’instaurarsi dell’infezione in un determinato ospite e si può considerare come la quantità di agente richiesto per scatenare l’infezione, che deve essere molto bassa per mantenere basso il rapporto dose/efficacia.-
- La stabilità, cioè la capacità di un patogeno di sopravvivere per tempi più o meno lunghi al di fuori dell’ospite finché non colpisce la vittima designata, che deve essere moderata. –
- Il grado di immunità naturale che deve essere necessariamente basso per poter assicurare la diffusione del contagio –
- La disponibilità di vaccini specifici per garantire agli utilizzatori delle armi biologiche l’immunità alle stesse –
- La possibilità di intervenire con terapie idonee per ridurre il malessere fisico che deve essere scarsa –
- La trasmissibilità, cioè la facilità con cui la malattia si diffonde, che deve essere molto bassa al fine di non diffondere troppo l’epidemia e circoscriverla al gruppo di persone che si vuole colpire. A corollario di questo principio il tempo di incubazione deve necessariamente essere relativamente breve, per evitare che la fase asintomatica possa causare una diffusione dei soggetti colpiti col rischio di espansione incontrollata del contagio.
Covid19 quindi riesce a soddisfare tutti questi criteri?
Per quanto riguarda la virulenza della malattia i dati ufficiali sono ancora incerti, ma la maggior parte dei casi attualmente confermati sembra avere una malattia lieve, e circa il 20% sembra progredire verso una malattia grave: polmonite, insufficienza respiratoria e in alcuni casi morte. Tali forme gravi sembra che si manifestino più spesso in soggetti già immunodepressi, debilitati da altre patologie, o anziani.
Per quanto riguarda l’infettività sembra che sia alta: secondo l’Ecdc il rischio di infezione per coloro che risiedono o sono in visita in zone con presunta trasmissione locale è, al momento, alto. Questo significa che il patogeno, che si trasmette principalmente per droplet e per contatto, ha un rapporto dose/efficacia basso.
La stabilità al momento non è calcolabile in quanto i tempi di sopravvivenza e le condizioni che incidono sulla persistenza di Covid19 nell’ambiente sono attualmente sconosciuti, anche se è stata notata una certa capacità di permanenza sulle superfici che quindi vanno disinfettate accuratamente.
Il grado di immunità naturale è alto: una buona percentuale di contagiati sta guarendo naturalmente e la malattia, come già detto, è caratterizzata da una letalità sensibilmente inferiore rispetto a quella osservata per altri coronavirus.
Per quanto riguarda la disponibilità di un vaccino specifico, questo ancora non esiste, e molto probabilmente non esisterà ancora per un periodo che va dai 6 ai 18 mesi. Questo è uno dei punti fondamentali per capire che non si può parlare di arma batteriologica: nessuno, infatti, ricorrerebbe ad una simile soluzione col rischio di essere a sua volta esposto al contagio non avendo un vaccino a disposizione, ed il virus è stato rilevato anche negli Stati Uniti.
La possibilità di intervenire con terapie idonee per ridurre il malessere sembra scarsa: attualmente non ci sono terapie consigliate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, e nelle linee guida sull’assistenza ai pazienti sono indicate solo terapie di supporto, come l’ossigeno-terapia, la somministrazione di fluidi e l’uso empirico di antibiotici per trattare eventuali co-infezioni batteriche. Su alcuni pazienti si stanno però utilizzando alcuni farmaci già in uso o in sperimentazione per altre patologie, mentre per altri sono iniziati i test preclinici in vista di un possibile uso. Il 18 febbraio l’Iss riporta che il Chinese Clinical Trial Registry ha annunciato l’avvio di una sperimentazione clinica con clorochina (un antimalarico dimostratosi efficace in vitro e su modelli animali contro numerosi virus tra cui il coronavirus della Sars) e del lopinavir/r (una combinazione di due farmaci precedentemente usata con successo contro un altro tipo di virus – Hiv – ed utilizzata precedentemente durante l’epidemia di Sars che colpì la Cina nel 2003) e i primi risultati per quanto riguarda il primo farmaco sembrano incoraggianti.
La trasmissibilità del virus, il secondo fattore più importante per capire se i tratti di un’arma batteriologica, è alquanto elevata soprattutto se paragonata ad altri virus come la Mers o la Aviaria (H7N9). Questa caratteristica si misura tramite un parametro chiamato R0 (si legge “R naught”). Se si stima che ogni persona ne contagi un’altra, R0 equivale a 1, se invece l’indicatore risulta elevato rispetto al valore 1, significa che ogni persona ne sta contagiando più di una, e cioè che il virus si sta diffondendo velocemente. Covid19 ha un R0 compreso tra 1,4 e 5,5 (il morbillo, per fare un paragone, fa segnare un valore compreso tra 12 e 18, l’Hiv tra 2 e 4) mentre altre malattie molto più letali, nella fattispecie la Mers e l’Aviaria, hanno un R0 inferiore a 1, fattore che, preso singolarmente, ne farebbe paradossalmente degli agenti più idonei per un’arma batteriologica. Il tempo di incubazione poi, stabilito tra i 2 e i 14 giorni, è mediamente troppo lungo.
Siamo davanti quindi ad un’arma batteriologica? Stante queste considerazioni possiamo dire di no: l’assenza di un vaccino, l’elevata trasmissibilità, la bassa virulenza, il buon livello di immunità naturale sono indicatori che non ci troviamo ad avere a che fare con questa possibilità.
Chi scrive pensa che le spiegazioni più logiche sull’origine di questa pandemia siano essenzialmente due, ovvero quella naturale oppure quella di un esperimento di laboratorio sfuggito di mano; esperimento che forse era volto alla ricerca di un vaccino polivalente per i coronavirus, che, storicamente, sembrano originarsi più spesso in quelle regioni del mondo.
La logica dell’arma batteriologica, che si basa esclusivamente sul molto filosofico ma poco scientifico principio del cui prodest, non regge, né per motivazioni geopolitiche in senso generale né per le motivazioni tecniche sulle armi di questo tipo come abbiamo avuto modo di vedere.