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Così i falsi giovani 60enni hanno fatto fuori le generazioni successive

di Bruno Giurato - 15/09/2016

Così i falsi giovani 60enni hanno fatto fuori le generazioni successive

Fonte: linkiesta

Che i giovani siano stati bellamente fottuti, in parole acconce esclusi da quel meccanismo di ascesa sociale, di ricchezza individuale e collettiva, che aveva funzionato dal Dopoguerra in poi, è un dato di fatto di cui si parla da un bel po'. Sembra uno dei motivi della decadenza italiana e forse europea e occidentale in genere (altrove le cose vanno spesso in altro modo).
I quarantenni si possono consolare offrendo il kaffeee sulle loro pagine Facebook come evidenziato dai pregiati sfottò così diffusi, i trentenni vagolando intorno ai più vari hipsterismi (l'hipster come fenomeno metropolitano è finito, ma gli hipsterismi rimangono, nebulizzati, li si ritrova nell'ossessione per il metodo, per le regole, per la ricercatezza formale bizantina che fa paravento a una qualche desolazione sostanziale) e frequentando molto i commercialisti che si occupano di partite iva, i ventenni ancora non sappiamo, per i diciottenni comunque c'è la mancetta di 500 euro di Renzi da spendere in Cultura.
Tutto questo mentre -inutile precisare- le leve del potere, del denaro, della cultura vera sono ancora in mano ai sessanta/settantenni.

È l'ultima versione della mitologica querelle vecchi/giovani, attuale dai tempi di Crono, scivolata tra gambe di Bernardo di Chartres, rilanciata dal Rinascimento, rimpallata da Perrault a Novalis a Ivan Turgenev a Pirandello, fatta arma pedagogica/ideologica dai totalitarismi di destra e sinistra e finalmente, fatalmente (e fintamente) portata al trionfo dal Sessantotto in poi.
Già il poi. Poi qualcosa si è inceppato. Cosa esattamente si sia inceppato, e perché, e come, ce lo racconta un giornalista quarantenne in un libro che sembra un pamphlet ma è molto di più: Un'estate invincibile. La giovinezza nella società degli eterni adolescenti (Bietti, 220 pp. 15 Euro). Già dalla bella prefazione di Stenio Solinas si raccoglie un'immagine.
Quella del presidente del Consiglio Matteo Renzi in libera uscita da impegni istituzionali, che passeggia con addosso il chiodo, come Fonzie di Happy Days. Giovane? Anagraficamente sì, anche. Ma, avverte Solinas, dietro il chiodo si intravede "la papalina e il pizzetto ingrigito del suo sessantenne genitore".

Come stile che per una volta fa sostanza Renzi è solo l'inviato di una generazione precedente in quella successiva. I riti, le modalità, gli scopi del potere -per non parlare del sistema di franchigie e salvaguardie sociali che mantiene in vita- sono sempre quelli della vecchia Dc o del vecchio Pci. Ma è il chiodo che dice tutto.

L'arma culturale attraverso cui i sessantenni hanno bellamente fottuto -in parole acconce escluso dalle famose leve della ricchezza e del potere- le generazioni successive è il giovanilismo. La faccenda ha un che di grandiosità nel paradosso: i vecchi che tengono a freno i giovani con l'arma della giovinezza
Sì perché l'arma culturale attraverso cui i sessantenni hanno bellamente fottuto -in parole acconce escluso dalle famose leve della ricchezza e del potere- le generazioni successive è il giovanilismo. La faccenda ha un che di grandiosità nel paradosso: i vecchi che tengono a freno i giovani con l'arma della giovinezza.
Paradisi lo spiega benissimo nella parte pamphlettistica del suo libro. Nella cultura, in quello che una volta si sarebbe chiamato l'immaginario, i giovani sono sempre loro. Quella che ha avuto vent'anni negli anni 60/70 è ancora la generazione che, a suo dire, ha rotto i limiti del vecchio mondo. Che ha prodotto e ascoltato la musica migliore del Novecento, che ha liberto il sesso, che ha lottato contro le ingiustizie, che ha decostruito tutte le mistificazioni (da quelle religiose a quelle politiche) su cui si erano rette le epoche precedenti.
E che non guarda alle generazioni successive con il cipiglio dell'anziano, ma con la condiscendenza del fratellone. Sono condizioni che rendono difficile, se non impossibile, qualsiasi rivolta dichiarata dei giovani di adesso nei confronti dei giovani di allora.
Ma intanto i fatti parlano da soli, e Paradisi nel suo libro ne fa una ricostruzione puntuale, e abbastanza agghiacciante, coi numeri in mano.

Ecco qualche esempio: oltre 300 mila giovani hanno perso il lavoro dal 2009 ad oggi. Nel 1997 i dirigenti con meno di 35 anni erano il 9, 7% del totale, dieci anni dopo si scende al 6%. Mentre i giovani entrati nel mercato del lavoro a metà degli anni 80 riuscivano nel giro di sette anni ad aumentare il proprio salario dell'85%, quelli degli anni 90, dopo lo stesso periodo, avevano raggiunto aumenti inferiori al 54%. Altro dato: l'Italia è il paese all'ultimo posto per mobilità sociale, con il 5%.
E vogliamo parlare di università? I cattedratici sotto i 35 anni in Italia non arrivano all'1 %, contro il 7, 3% degli Usa, l'11, 6% della Francia e il 16 della Gran Bretagna. “Le cattedre sono andate al grey power: la fascia più numerosa degli ordinari italiani, e così tra gli associati” commenta Paradisi. Che chiude così: “Se è vero che l'età della massima creatività scientifica è intorno ai 35 anni, si deve prendere atto che un'intera generazione intellettuale è stata annientata”.
Aggiungiamo qualche considerazione sul welfare. Secondo Paradisi quello italiano è “un sistema organizzato contro i giovani, in cui il grosso delle risorse si dirige verso la popolazione più anziana” e non mancano accenni alla riforma Dini che col passaggio al sistema contributivo per chi è entrato nel mercato del lavoro dopo il 1996 ha di fatto scaricato sui giovani un costo sociale gigantesco.

All'università un'intera generazione intellettuale è stata annientata. E i costi della riforma del welfare degli anni 90 gravano interamente sui giovani. Dalla generazione dei quarantenni in poi l'Italia è un luogo devastato
Il panorama che Paradisi descrive in poche pagine di compilazione secca è quello di una landa desolata. Desolata perché devastata. Ce ne sarebbe abbastanza e anche di più per un pamphlet sul conflitto generazionale.
Solo che Un'estate invincibile non è un pamphlet. E' una riflessione, che chiama a raccolta riferimenti filosofici, antropologici, narrativi, cinematografici, musicali, sul concetto di giovinezza in generale. Soprattutto un grandissimo elogio della dépense e della gratuità contro “il tempo regolato dall'orologio e dalla busta paga”.
O se si vuole un inno all'utopia, ma in versione schiettamente impolitica, quindi senza quel divanetto/assicurazione sul futuro che si chiama filosofia della storia. Non offre soluzioni politiche o sociali al cambiamento in atto, piuttosto è un piccolo manuale di ribellione silenziosa e una schìcchera che orienta in direzione di una franca e suicidalità (concetto che appartiene al misticismo come al punk), e che troviamo bel bello in questo pensiero di Jung: “a partire dalla metà della vita resta vivo solo colui che vuole morire insieme alla vita”.
Prima regola: evitare l'eterna adolescenza e soprattutto mollare i giubbotti di Fonzie. O si finisce come Renzi.