“Critica del liberalismo” di Alain de Benoist: contro il pensiero unico mercatista
di Francesco Marotta - 17/12/2019
Fonte: Barbadillo
Il 18 novembre 2019 è uscito l’ultimo saggio di Alain de Benoist, intitolato “Critica del liberalismo. La società non è un mercato”, edito da Arianna Editrice. La Prefazione è a cura dell’ottimo Eduardo Zarelli. Questo scritto è già stato pubblicato in Francia nel gennaio 2019 – “Contre le libéralisme: La société n’est pas un marché” –, destando non poche critiche provenienti da una certa nomenclatura accademica, intellettuale e giornalistica. Una prassi diffusa verso chiunque si degni di criticare, per dirla con Eduardo, la «morfologia del dominio e la sua metanoia».
Un lavoro interessantissimo che fa luce sulle relazioni antropologiche del liberalismo. Innanzitutto, contrariamente a quanto si pensi «non è nato dall’opera di un solo uomo» e soprattutto, non è «una dottrina unificata». In aggiunta, è pressappoco impossibile capire qualcosa del liberalismo, contrapponendo le sue forme una con l’atra: quella economica, politica, culturale e filosofica. Siamo d’accordo col sostenere, come ha scritto giustamente Alain de Benoist, che «l’unità profonda del liberalismo risiede nella sua antropologia; un’antropologia, il cui fondamento è costituito, inscindibilmente, dall’individualismo e dall’economicismo». Punto.
Fatta questa doverosa precisazione, è alquanto evidente che la «società organica di tipo olistico» ¬la comunitଠsia stata sostituita dalla «società contrattuale». Una società di individui connessi uno all’atro dalle reti globali e dall’ideologia mondialista dei diritti individuali, dall’utilitarismo e da un tipo di logica razionale, da stakeholder interessati solo gli interessi di chi “gira” intorno e non a quelli della collettività. Una società che è concepita esclusivamente, quale fosse un «mercato concorrenziale» dove l’Homo oeconomicus, un uomo che tende ad esacerbare l’assioma produzione-consumo, egoista e calcolatore, prova a tutti i costi a massimizzare il suo «interesse materiale e il suo profitto privato»; riducendo i legami e le relazioni sociali, unicamente a dei rapporti di mercato, a dei “desiderata”.
Una società in cui l’uomo post-moderno vede nei suoi simili, dei pericoli per il raggiungimento degli obbiettivi da soddisfare a discapito del buon senso. Il tutto, trascurando l’importanza della civitas e della libertas presenti a Roma ma anche in Grecia, senza più partecipare appieno alla vita pubblica. Preferendogli, quasi irrimediabilmente, l’indipendenza privata, l’ideologia del godimento, quella dei diritti astratti ¬il diritto al lavoro è mai riuscito a dare un lavoro a tutti?¬ e dei bisogni inesistenti, indotti in forma di libido dal capitalismo che destruttura la nozione di autonomia della comunità di appartenenza.
Una libertà liberale che assomiglia più ad un automatismo, congiunta a quella del progresso. La quale, vede nel tempo storico una linearità proiettata solo in avanti: in un futuro astratto che si pensa essere sempre migliore, spostando, di anno in anno, l’asticella verso un Eldorado immaginativo che non arriva mai, sempre più là. In questa visione delle cose, il passato che può darci degli utili consigli per il presente, dove possiamo scorgere l’avvenire, sono poco più di un mezzo per raggiungere l’indipendenza individuale.
L’appartenenza è soggetta alla reificazione del nomadismo delle merci e degli esseri umani ma anche a quella dell’universalismo egualitario. Le tradizioni e il telos, vale a dire il fine ultimo della comunità organica, è annichilito dall’idealismo dello Stato-nazione ¬«la società come perdita o disintegrazione dell’intimità comunitaria» ¬, il fenomeno “societario” edificato alla fine del Medioevo, costituitosi allo stesso ritmo del mercato. Dunque, i popoli sono sempre più atomizzati, degli atomi scollegati uno dall’altro. In questa alienazione sistemica, non è difficile scorgere una hybris (la dismisura) «che le società tradizionali avevano sempre condannato» come un qualcosa di negativo, avere la meglio sulla cognizione di causa del limite.
Al meccanicismo dell’offerta e della domanda, il liberalismo economico sostenuto dalla destra e quello societario rinvigorito dalla sinistra sono destinati a congiungersi: «Il liberalismo economico integrale (ufficialmente sostenuto da destra) reca dunque in sé la rivoluzione permanente dei costumi (ufficialmente sostenuta dalla sinistra) così come questa esige, a sua volta, la liberazione totale del mercato». Ne consegue una sopravalutazione di una morale decodificata dal liberalismo su ciò che è giusto a detrimento del bene, collocando a monte dei doveri categorici non curanti delle virtù. Alla «morale “attrattiva” e teleologica» che rinvia nuovamente al telos, viene preferita quella degli obblighi puramente contrattuali, dei diritti che subentrano al posto dei doveri, di uno stato che dovrebbe essere sociale.
Ma questo errore antropologico, individualista ed economicistica che Alain de Benoist ha individuato essere il liberalismo, riduce anche lo spazio pubblico ad un inutile se non scomodo accessorio dello spazio privato. In questo saggio, troverete delle ulteriori analisi esplicative della mentalità borghese nel suo complesso, sulla visione social-darwiniana, «imparentata con l’ideologia del progresso» e incardinata su di una visione esasperata, «ottimistica e utilitaristica», della storia umana.
Un ordine impersonale e astratto, quello sotto l’egida della terza età del capitalismo, della «riduzione dell’essere al novum», dell’ideologia della proprietà come massimizzazione dell’interesse personale in cui persino il politico, è poco più di uno dei tanti amministratori gestionali della società post-moderna. Un capitalismo che aggira «il principio di gerarchia con un nuovo dispositivo di gestione del personale» dall’assiomatica manageriale, dove «ci sono sempre meno “capi” e sempre più “responsabili» che dettano i tempi della dottrina della flessibilità: il vecchio impianto «dell’impresa tayloristica o fordista» è ormai un surrogato obsoleto «dell’azienda-rete, fenomeno che va di pari passo con l’emergere di un mondo postmoderno sempre più “connesso”».
È facile dedurre, quanto il lavoro sia diventato una categoria capitalistica: il concetto di mestiere è stato sostituito da quello dell’occupazione. Un popolo di non lavoratori «di fronte all’ascesa di una disoccupazione diventata strutturale» e non congiunturale come si continua a ripetere, rimpiazzati dalla robotica, dall’informatica e dall’intelligenza artificiale.
Nonostante questo, uno dei miti liberali che recita quanto «il progresso tecnico ha sempre distrutto dei posti di lavoro, ma ne ha creati altri», cade inesorabilmente sotto i colpi della penna di Alain de Benoist: «Se in passato un contadino ha potuto riconvertirsi in operaio senza grandi problemi, un operaio edile farà molta più fatica a riconvertirsi in informatico». Per il motivo che la robotica «distrugge più posti di lavoro di quanti ne crei», alimentando quella tendenza dell’informatizzazione e della tecnologizzazione di un lavoro senza più qualità.
Il Nostro non assesta solo una stilettata all’ideologia liberale, bensì l’analizza e la smantella in toto. Squarciando contemporaneamente la coltre indissolubile del neo-capitalismo e illustrandone le dinamiche che lo caratterizzano: «l’ideologia del debito e l’ideologia del lavoro si poggiano l’una sull’altra», alimentando la spirale «dell’incremento del lavoro per rimborsare il debito»; pensando così, di riuscire a mantenere un tenore di vita, sproporzionato alle reali esigenze. Una delle imposture del turbocapitalismo che spinge a prendere per concreto l’astratto, spingendoci in direzione del «feticismo della merce» e di un impensabile «rovesciamento del rapporto tra l’uomo e le sue produzioni: le cose ormai dirigono gli uomini». Mentre la produttività delle merci è smisurata per «una domanda solvibile limitata», in quanto l’esigenza di sopravvivenza del capitalismo, necessita del processo di accumulazione del capitale e del profitto indiscriminato.
Un sistema destinato a perire sin dalle fondamenta su cui si basa. Ma a questa guerra di “tutti contri tutti” c’è però una via d’uscita: abbandonare l’ontologia del lavoro e del valore, ripudiando in toto la logica del capitale. Indubbiamente, sembra più facile a dirsi a farsi. Ciò implica, prima di tutto, fare i conti con sé stessi. Iniziando, necessariamente a rafforzare il processo di completamento con il proprio Sé, attraverso ciò che non è il Mega-Io votato al calcolo dell’ideologia liberale. In sostanza, è giunto il momento di liberare l’Io dal sovraccarico delle scelte che riguardano l’uomo: ripristinando il dialogo, l’equilibrio e la sintesi degli opposti, raffigurati dall’Io e dal Sé.
Per la motivazione che il Sé può aiutarci a comprendere il senso del limite, perché è iscritto al destino. E come ha scritto Alain de Benoist, benché «stiamo danzando su un vulcano», la storia è sempre aperta.