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Critica della ideologia liberale (II parte)

di Alain de Benoist - 26/01/2020

Critica della ideologia liberale (II parte)

Fonte: Destra

D’altro canto, se l’individuo è sempre per definizione il miglior giudice dei propri interessi, chi può in questo caso obbligarlo a rispettare anche una semplice norma di reciprocità? La dottrina liberale sostiene che il comportamento morale non derivi più dal senso del dovere o dalla regola morale, ma da una buona comprensione dell’interesse. Non arrecando danno alla libertà di un altro, lo dissuaderei dal recare danno alla mia. Si suppone che la paura del gendarme faccia il resto. Ma se acquisisco la certezza che trasgredendo la regola incorro in pochissimi rischi di essere punito, e che la reciprocità mi è indifferente, chi può davvero impedirmi di violare la regola o la legge? Ovviamente, nulla e nessuno. Il solo fatto di tenere in conto il mio interesse personale mi invita, anzi, a farlo quanto più spesso mi è possibile.

Nella sua Teoria dei sentimenti morali (1759), Adam Smith scrive senza ipocrisia: «Anche se fra i diversi membri della società non vi è né amore reciproco né affetto, la società, sebbene meno felice e meno gradevole, non è necessariamente disgregata. Essa può continuare ad esistere fra gli uomini come continua ad esistere fra i mercanti, grazie ad una sensazione di utilità, senza alcun legame di amore reciproco e di affetto; e se nessuno ha il minimo obbligo oppure non è tenuto alla minima gratitudine, la società può ancora mantenersi con l’ausilio dello scambio interessato di servizi, secondo un valore convenuto »21. Il senso di questo brano è chiaro. Una società può senz’altro fare economia – s’impone l’uso di questo termine – qualunque forma di socialità organica, senza per questo cessare di essere una società. Le basta diventare una società di mercanti: il legame sociale si confonderà con la sensazione della sua «utilità» e con lo «scambio interessato di servizi». Basta dunque partecipare agli scambi mercantili, fare liberamente uso del diritto di massimizzare il proprio interesse, per essere umano. E’ vero che Smith dice che una società di questo genere sarà «meno felice e meno gradevole», ma la sfumatura sarà presto dimenticata. Ci si può persino chiedere se, agli occhi di certi liberali, il solo modo di essere pienamente umani sia nel comportarsi alla maniera dei mercanti, ossia di coloro ai quali un tempo si concedeva soltanto uno status subordinato, non perché non li si considerasse utili, e anzi necessari, ma proprio in ragione del fatto che erano soltanto utili e che la loro visione del mondo era accecata dal solo valore di utilità. Questo, ovviamente, pone la questione dello status di coloro che non si comportano in questo modo, sia che non ne abbiano il desiderio, sia che non ne abbiano i mezzi. Sono ancora uomini, costoro ?

 

In realtà, la logica del mercato si impone progressivamente solo a partire dalla fine del Medioevo, quando il commercio a lunga distanza e il commercio locale cominciano ad essere unificati all’interno di mercati nazionali sotto l’impulso di Stati nazionali in formazione, desiderosi di monetarizzare al fine di prelievo fiscale degli scambi intracomunitari, non mercantili, prima insequestrabili. Lungi dall’essere un fatto universale, il mercato è dunque un fenomeno strettamente localizzato nello spazio e nel tempo. E questo fenomeno, lungi dall’essere spontaneo, è invece creato artificialmente. In modo particolare in Francia, ma anche in Spagna, il mercato non si costituisce assolutamente contro lo Stato nazionale, bensì grazie ad esso. Lo stato e il mercato nascono insieme e progrediscono di pari passo, con il primo che crea il secondo nello stesso momento in cui si istituisce. «Quantomeno», scrive AIain Caille, «è opportuno non considerare mercato e Stato come due entità radicalmente diverse e antagoniste, bensì come due momenti di uno stesso processo. Storicamente, mercati nazionali e Stati-nazione si edificano in un solo passo, e gli uni non procedono senza gli altri »22.

Entrambi, in effetti, si sviluppano nella stessa direzione. Il mercato amplifica il movimento dello Stato nazionale che, per consolidare la propria autorità, non smette di distruggere metodicamente tutte le forme di socializzazione intermedia che, nel mondo feudale, costituivano altrettante strutture organiche (clan familiari, comunità di villaggio, confraternite, mestieri, ecc.) relativamente autonome. La classe borghese, e insieme ad essa il liberalismo nascente, continua ed aggrava questa atomizzazione della società, nella misura in cui l’emancipazione dell’individuo a cui aspira richiede la distruzione di tutte le forme non scelte di solidarietà o di dipendenza che rappresentano altrettanti ostacoli all’espansione del mercato. «Da questo punto di vista», osserva Pierre Rosanvallon, «lo Stato nazionale e il mercato rimandano a una medesima forma di socializzazione degli individui nello spazio. Sono concepibili solo nel contesto di una società atomizzata, nella quale l’individuo è considerato autonomo. Non vi possono dunque essere Stato nazionale e mercato, nel senso sia sociologico che economico di questi termini, in spazi dove la società si dispiega come un essere sociale globale »23.

La nuova forma di società che emerge dalla crisi del Medioevo si costruirà quindi progressivamente partendo dall’individuo, dalle sue norme etiche e politiche e dai suoi interessi, infrangendo a poco a poco la coincidenza degli spazi politici, economici e giuridici, o anche linguistici, che la vecchia società tendeva a realizzare. Nel XVII secolo, lo Stato e la società civile tuttavia continuano ad essere un’unica entità: l’espressione «società civile» è sinonimo di società politicamente organizzata, cioè di Stato. La distinzione si attua a partire dal XVIII secolo, specialmente con Locke, il quale ridefinisce la «società civile» come sfera della proprietà e degli scambi, essendo lo Stato, o «società politica», votato ad assicurare la protezione dei soli interessi politici. Questa distinzione, che trova il proprio punto d’appoggio nell’autonomizzazione della sfera della produzione e degli scambi e rimanda alla modalità, di costruzione dello Stato moderno, caratterizzato dalla specializzazione dei ruoli e delle funzioni, porta o alla valorizzazione di una società politica nata dal contratto sociale, come in Locke, oppure all’esaltazione di una società civile fondata sull’adeguamento spontaneo degli interessi, come in Mandeville24 o in Smith. Autonomizzandosi, la società, civile apre infatti la strada al libero dispiegarsi della logica economica degli interessi. Il risultato è che con l’avvento del mercato, come scrive Karl Polanyi, «la società, viene gestita come un ausiliaria del mercato. Invece di essere l’economia intrappolata nelle relazioni sociali, sono le relazioni sociali ad essere invischiate nelle relazioni economiche»25 È proprio questo il senso della rivoluzione borghese.

La società assume nel contempo la forma oggettiva di un ordine propriamente sociale, distinto dall’ordine naturale e cosmico, che coincide con la ragione universale, alla quale si ipotizza che l’individuo abbia immediatamente accesso. La sua oggettivazione storica si cristallizzerà in un primo momento nella dottrina politica del diritto, di cui si può seguire lo sviluppo da Jean Bodin sino ai Lumi. Analogamente, l’economia politica s’impone come una nuova scienza generale della società, nella quale quest’ultima viene intesa come un processo di sviluppo dinamico che va nel senso del «progresso». La società deve ormai essere oggetto di una specifica conoscenza scientifica. Nella misura in cui accede ad un modo di esistenza che si presuppone razionale, e in cui tutte le prassi si sottopongono spontaneamente alla razionalità strumentale come principio ultimo di regolazione, il mondo sociale deve necessariamente dipendere da un certo numero di «leggi». Ma proprio per questa oggettivazione, sia l’unità della società sia la sua integrazione in una dimensione simbolica, diventano estremamente problematiche tanto più che la privatizzazione delle appartenenze e delle connessioni non tarderà a tradursi nella frammentazione del corpo sociale, nella moltiplicazione conflittuale degli interessi particolari e in un inizio di deistituzionalizzazione. Nuove contraddizioni faranno presto comparsa, non più tra la società instaurata dalla classe borghese e alcune sopravvivenze dell’Ancien Régime, ma all’interno stesso di quella società borghese, ad esempio con la lotta di classe.

La distinzione tra pubblico e privato, Stato e società civile, si accentua ulteriormente nel XIX secolo, generalizzando una appercezione dicotomica e contraddittoria dello spazio sociale. Il liberalismo, avendo esteso il suo potere, promuove già una «società civile» assimilata esclusivamente alla sfera privata e denuncia l’influenza «egemonica» del settore pubblico e dello Stato, il che lo porta a perorare la causa della fine del monopolio statale sulla soddisfazione dei bisogni collettivi e dell’estensione delle modalità di regolazione intersocietaria di natura mercantile. La «società civile» assume allora una dimensione in larga misura mitica. Definendosi sempre meno attraverso se stessa e sempre di più in contrasto con lo Stato, come rappresentazione dai contorni piuttosto vaghi di ciò che ad esso è teoricamente sottratto, essa appare nelle vesti di un operatore ideologico più che in quelle di una realtà precisa.

A partire dalla fine del XIX secolo tuttavia sono state introdotte alcune modifiche alla logica puramente economica di regolazione e di riproduzione della società. Di conseguenza, tali modifiche, non sono più tanto il risultato delle resistenze conservatrici, ma piuttosto delle contraddizioni interne della nuova configurazione sociale. La stessa sociologia nasce dalla resistenza che la società reale oppone ai cambiamenti politici e istituzionali, al di fuori dell’invocazione di un «ordine naturale» da parte di coloro che denunciano il carattere formale e artificiale del nuovo modo di riorganizzazione sociale. Per i primi sociologi, l’ascesa dell’individualismo fa nascere una duplice paura: paura della «anomia» risultante dalla disgregazione del legame sociale in un Durkheim, paura di una «folla» formata da individui atomizzati e poi all’improvviso radunati in una «massa» incontrollabile in un Le Bon o in un Gabriel Tarde (entrambi tendono a ricondurre l’analisi dei fatti sociali a una «psicologia»). La prima di queste paure troverà un’eco soprattutto nei pensatori controrivoluzionari; la seconda sarà percepibile principalmente all’interno di una borghesia che si preoccupa prima di tutto di premunirsi contro le «classi pericolose».

Sebbene il mercato fosse sostenuto e costituito dallo Stato nazionale, da quel momento in poi l’antagonismo tra il liberalismo e il «settore pubblico» andrà crescendo. I liberali non smetteranno più di tuonare contro lo Stato assistenziale, non comprendendo che è la stessa estensione del mercato a rendere inevitabili interventi statali sempre più vasti. L’uomo, la cui forza lavoro è abbandonata esclusivamente al gioco del mercato, è in realtà vulnerabile, perché può accadere che, sul mercato, la sua forza lavoro non trovi un acquirente, o addirittura che non valga niente. L’individualismo moderno, d’altronde, ha distrutto le relazioni organiche di prossimità, che erano innanzitutto relazioni di mutuo soccorso e di reciproca solidarietà, facendo scomparire allo stesso momento le vecchie forme di protezione sociale. Sebbene regoli l’offerta e la domanda, il mercato non regola le relazioni sociali; al contrario, le disorganizza, per il semplice fatto che non tiene conto dell’esistenza di una domanda non solvibile. L’espansione dello Stato assistenziale diventa allora una necessità, dal momento che esso è il solo a poter correggere gli squilibri più eclatanti, ad attenuare la miseria più evidente. E’ il motivo per il quale, come ha ben mostrato Karl Polanyi, ogni volta che il liberalismo è sembrato imporsi, si è paradossalmente assistito ad una recrudescenza di interventi statali resi necessari dai danni causati al tessuto sociale dalla logica del mercato. «In mancanza di una relativa pace sociale ottenuta grazie allo Stato assistenziale» osserva Alain Caillé «l’ordine del mercato sarebbe stato puramente e semplicemente spazzato via »26. Questa sinergia fra mercato e Stato ha caratterizzato a lungo (e continua, per certi versi, a caratterizzare) il sistema fordista. «La protezione sociale», conclude Polanyi, è «l’accompagnamento obbligato del mercato autoregolatore»27.

Nella misura in cui i suoi interventi mirano a compensare gli effetti distruttivi del mercato, lo Stato assistenziale svolge in un certo modo un ruolo di “demercantilizzazione” della vita sociale. Tuttavia, non può sostituirsi integralmente alle forme di protezione comunitaria che si sono sgretolate sotto l’effetto dello sviluppo industriale, dell’ascesa dell’individualismo e dell’espansione del mercato. Rispetto a quelle antiche forme di protezione sociale, esso presenta in effetti alcune caratteristiche che sono altrettante limitazioni dei vantaggi che può apportare. Mentre le solidarietà di un tempo si basavano su uno scambio di prestazioni reciproche che implicava la responsabilità di tutti, l’assistenzialismo spinge alla deresponsabilizzazione e trasforma i membri della società in assistiti. Mentre solidarietà di un tempo si situavano all’interno di una rete di relazioni concrete, esso si presenta come un’invenzione astratta, anonima e lontana, dalla quale ci si attende tutto pensando di non doverle niente. La sostituzione delle vecchie solidarietà, immediate, con una solidarietà impersonale, esteriore e non trasparente, è dunque tutt’altro che soddisfacente. Al contrario essa è alle origini dell’attuale crisi dello Stato assistenziale, che per la sua stessa natura sembra votato a poter mettere in atto soltanto una solidarietà economicamente sterile, in quanto sociologicamente inadatta. Come scrive Bernard Enjolras, «superare la crisi interna dello Stato assistenziale presuppone, di conseguenza, il ritrovare le condizioni di produzione di una solidarietà di prossimità», che sono anche «le condizioni di una rifondazione del legame economico, al fine di restaurare la sincronicità fra produzione di ricchezze e produzione del sociale »28.

 

«Tutto l’avvilimento del mondo moderno» scriveva Péguy, «ossia tutta la svendita del mondo moderno, tutto l’abbassamento del suo prezzo, deriva dal fatto che il mondo moderno ha considerato negoziabili valori che il mondo antico e il mondo cristiano consideravano non negoziabili »29. Di questo «avvilimento» l’ideologia liberale porta su di sé una responsabilità rilevante, nella misura in cui si fonda su un’antropologia irrealistica e da essa deduce una serie di conclusioni errate.

L’idea in base alla quale l’uomo agisce liberamente e razionalmente sul mercato non è altro che un postulato utopico, poiché i fatti economici non sono mai autonomi, bensì relativi a un determinato contesto sociale e culturale. Non esiste una razionalità economica innata; essa è solo il prodotto di un’elaborazione storico-sociale ben determinata. Lo scambio mercantile non è la forma naturale della relazione sociale, e tantomeno della relazione economica. Il mercato non è un fenomeno universale, bensì un fenomeno localizzato. Esso non realizza mai l’adeguamento ottimale tra domanda e offerta, non fosse altro perché prende in considerazione esclusivamente la domanda solvibile. La società è sempre qualcosa di più delle suoi componenti, così come la classe è sempre qualcosa di più degli elementi che la formano, perché è essa a costituirli come tali e ne è quindi logicamente e gerarchicamente distinta, come lo dimostra la teoria dei tipi logici di Russell (una classe non può essere membro di se stessa, così come nessuno dei suoi membri può, da solo, costituire la classe). In conclusione, la concezione astratta di un individuo disinserito, “decontestualizzato”, i cui comportamenti si baserebbero su anticipazioni strettamente razionali e che sceglierebbe liberamente la propria identità a partire dal niente, è assolutamente insostenibile. Al contrario, i teorici comunitaristi (Charles Taylor, Michael Sandel) hanno dimostrato l’importanza vitale per gli individui di una comunità che costituisce necessariamente il loro orizzonte, la loro episteme – fosse anche solo per costruirsi una rappresentazione critica -, tanto per la costruzione della loro identità quanto per la soddisfazione dei loro scopi. Il bene comune è la dottrina sostanziale che definisce il modo di vivere di questa comunità e dunque la sua identità collettiva.

 

La crisi attuale proviene dalla contraddizione che va esasperandosi tra l’ideale dell’uomo universale astratto, con il suo corollario di atomizzazione e di spersonalizzazione dei rapporti sociali, e la realtà dell’uomo concreto, per il quale il legame sociale continua ad essere basato sui legami affettivi e sulle relazioni di prossimità, con il loro corollario di coesione, di consenso e di obblighi reciproci.
Gli autori liberali ritengono possibile l’avvento di una società che sia interamente conforme ai valori dell’individualismo e del mercato. È pura illusione. L’individualismo non ha mai modellato la totalità dei comportamenti sociali, e non potrà mai farlo. Meglio ancora, esistono delle buone ragioni per pensare che l’individualismo possa manifestarsi in una società senza distruggerla né distruggersi nella misura in cui essa rimane ancora in qualche senso olistica. «L’individualismo», scrive Louis Dumont, «è incapace di rimpiazzare completamente l’olismo e di regnare su tutta la società […]. Inoltre, non è mai stato capace di funzionare senza che l’olismo contribuisse alla sua vita in maniera inosservata e in un certo senso clandestina »30. È ciò che conferisce all’ideologia liberale la sua dimensione utopistica. Si sbaglierebbe quindi nel vedere nell’olismo unicamente un’eredità del passato, necessariamente destinata a scomparire. Anche nell’epoca dell’individualismo moderno, l’uomo rimane un essere sociale. L’olismo riappare sin dal momento in cui, di fronte alla teoria liberale di una «armonia naturale degli interessi», si riconosce l’esistenza di un bene comune che ha la priorità sugli interessi particolari.

 

 

Note

  1. Le désenchantement du monde, Gallimard, 1985, p. 77.
  2. L’ère de l’individu. Contribution à une histoire de la subjectivité, Gallimard, 1989, pp. 7677.
  3. Louis Dumont, Homo æqualis. Genèse et épanouissement de l’idéologie économique, Gallimard, 1977, p. 17.
  4. Alcuni autori liberali si sono tuttavia ingegnati a distinguere l’indipendenza dall’autonomia, mentre altri (o gli stessi) si sforzavano di stabilire la differenza tra soggetto e individuo o tra individualismo e narcisismo. Contrariamente all’indipendenza, l‘autonomia è in realtà compatibile con la sottomissione a regole sovra-individuali provenienti da una normativa auto-fondata. Questo è, ad esempio, il punto di vista sostenuto da Alain Renaut. op. cit. pagg. 81-86. Questa argomentazione è poco convincente. In realtà, l’autonomia differisce molto dall’indipendenza (da un certo punto di vista accade persino il contrario), ma il problema basilare non risiede nella sfumatura fra i due termini. La vera questione è capire cosa, da un punto di vista liberale, può costringere un individuo a rispettare una qualunque limitazione della sua libertà, se tale limitazione viene a porsi in contrasto con il suo interesse.
  5. De la liberté des Anciens comparée à celle des Modernes (1819).
  6. La vertu d’égoïsme, Belles Lettres, 1993.
  7. cit.
  8. Deuxième traité du gouvernement civil (1690), chap.
  9. Du droit de la guerre et de la paix (1625).
  10. Oltre a sostenere il “primato del “meccanicismo» caratteristico dell’ideologia liberale, al quale conferisce peraltro un valore epistemologico fondamentale, Marx aderisce ad una metafisica dell’individuo che ha condotto Henry Michel a considerarlo “uno dei primi pensatori cristiani dell’occidente» (Marx, GalIimard, Paris, vol.2, pag. 445). «Tutta la filosofia di Marx, scrive Pierre Rosanvallon può […] essere intesa come un tentativo di approfondimento dell’individualismo moderno […]. Il concetto di lotta di classe d’altronde ha un senso solo nell’ambito di una rappresentazione individualistica della società. Nella società tradizionale invece, non ha nessun significato» (Le libéralisme économique. Histoire de l’idée de marché, Seuil-Points, 1989, pp. 188-189). Marx certamente ricusa l’illusione dell’l’Homo œconomicus sviluppatasi a partire dal XVIII secolo, ma è solo perché la borghesia ne ha fatto uso per alienare l’individuo reale e incatenarlo a un esistenza limitata unicamente alla sola sfera dell’interesse. Ora, per Marx, l’interesse è l’espressione della separazione fra l’individuo e i rapporti sociali stessi. (E’ la base di quel che c’è di meglio nella sua opera, vale a dire la sua critica della «reificazione» dei rapporti sociali). Ma non intende affatto sostituire all’interesse privato un qualsiasi bene comune. Non c’è nemmeno interesse di classe in lui.
  11. De l’individualisme. Enquête sur le retour de l’individu, PUF, 1985, p. 16.
  12. cit., p. VII.
  13. Recherches sur la nature et les causes de la richesse des nations, Garnier-Flammarion, 1991, vol. 1, livre III, chap. 4.
  14. , vol. 1, livre I.
  15. Tale è, riguardo il ruolo dello Stato, la posizione liberale più diffusa. I libertari (detti anche «anarco-capitalisti») si spingono oltre, poiché rifiutano perfino lo «Stato minimo» proposto da Robert Nozick. Poiché non produce capitale, mentre lavora, lo Stato è per essi necessariamente un « ladro ».
  16. Harmonies économiques (1851). C’est la thèse bien connue que soutient Mandeville dans sa Fable des abeilles : « Vices privés, vertu publique ».
  17. cit., p. 124.
  18. cit., vol. 1, p. 92.
  19. Vers une anthropologie générale. Modernité et altérité, Droz, Genève 1992, p. 57
  20. Splendeurs et misères des sciences sociales. Esquisse d’une mythologie, Droz, Genève 1986, p. 347.
  21. The Theory of Moral Sentiments, Clarendon Press, Oxford 1976, p. 86.
  22. cit., pp. 333-334.
  23. cit., p. 124.
  24. La fable des abeilles (1714).
  25. La grande transformation. Aux origines politiques et économiques de notre temps, Gallimard, 1983, p. 88.
  26. cit., p. 332.
  27. cit., p. 265.
  28. « Crise de l’Etat-Providence, lien social et associations : éléments pour une socioéconomie critique », in Revue du MAUSS, 1er semestre 1998, p. 223.
  29. Note conjointe sur M. Descartes, Gallimard.
  30. cit.

 

Traduzione a cura di Cristina Laura Masetti