Crollo della modernità e mito dell'Europa
di Luca Leonello Rimbotti - 21/11/2020
Fonte: Italicum
Solo quando qualcuno o qualcosa tornerà ad agitare i grandi miti legati al popolo, alla sua storia, ai suoi bisogni e ai suoi sogni, si potrà parlare davvero non di un ricambio, ma di un sommovimento generatore di spazi aperti. L’Europa è un grande mito vivente che aspetta soltanto di essere risvegliato.
Quando si dice che l’Europa è vecchia e che l’Italia è decrepita, si dice ancora troppo poco. L’invecchiamento della nostra società è più di un dato anagrafico. Vecchia è dapprima la testa, vecchie sono le idee, vecchio è il modello di società imposto, tutte cose che lentamente fanno degenerare e morire i corpi. La bioetica della sterilità viene dopo l’impotenza di tutta una cultura egemone, votata al suicidio.
Nietzsche indicò una volta nel culto della modernità un sintomo sclerotico della vecchiaia: quello «stato d’animo crepuscolare» che indirizza le coscienze verso l’orgoglio di una tappa raggiunta – il “migliore dei mondi” – e al tempo stesso verso la morte per troppa smania di progresso. La strada sbarrata di fronte al futuro è il destino dei morenti. Le razze fertili che stanno sommergendo l’Europa di giovani corpi riproduttori sono il simbolo che il progressismo ha sbagliato i suoi conti. Il gesto violento di occupare in massa il posto lasciato vuoto dai pochi nasconde una legge di vita. Quello di sparire è il futuro che incombe su quanti vivono unicamente il presente. Il progressismo, che ha elevato altari alla modernità, ci dice esso stesso quanto oscuramente nasconda un principio di morte. “Moderno”, non per caso, etimologicamente deriva da “odierno”. L’oggi, e non già un oggi proiettato nel futuro, ma solo un oggi tragicamente conchiuso in sé, è il limite massimo cui può aspirare il progressista. Egli vive la dimenticanza, esprime l’oblio, vuole il tradimento di ciò che impone l’inumana, anzi la superumana natura: un futuro che instancabilmente ritorna a se stesso. La vita naturale si nutre di un futuro che è il passato eternamente ritornante. La vita innaturale del progresso si nutre invece di una quotidianità opaca, che è declino permanente.
Tradendo la vita e nascondendosi tra le pieghe della finzione di un progresso illimitato, il moderno invecchia senza prole, muore senza eredi, raggrinzisce senza produrre virgulti, non lascia dietro di sé retaggi. L’idea stessa di “generazione”, di riproduzione del gene e di dominio sul futuro, è estranea alla società dell’immediato e dell’attimo. È in questo quadro che avvengono i fenomeni sociali di immobilismo, per cui si caratterizza di fatto la società moderna. A fronte di una facciata cangiante e mutevole, in realtà il cambiamento non è che la maschera della stasi comatosa. Ne è una indizio rivelatore l’assenza di un vero circuito delle idee, dato che nessuna nuova cultura si è imposta, nessuna nuova visione del mondo è emersa.
A imporsi sono soltanto i fatti, brutalmente. L’invecchiamento ineluttabile della società è dunque un fatto demografico oggettivo, ma soprattutto è uno stato d’animo, legato al procedere del modello di “sviluppo” che produce l’individualismo e l’edonismo disperato.
Dietro le quinte della modernità opulenta fermenta l’immobile gioco di un potere privo di alternative, e quindi libero di impedire ogni sorta di ricambio. Le generazioni che si succedono alle generazioni sono tenute accuratamente fuori dal circuito della decisione che conta. L’assenza di una vera politica permette questa drammatica mancanza di rinnovamento. Senza una politica mossa da progetti, senza entusiasmo comunitario, senza solidarismi creativi, senza dunque una forte spinta che dal basso attivi la domanda innovativa e forzi l’esclusivismo oligarchico, nulla si muove e l’amministrazione, priva di ostacoli, è libera di perpetuarsi.
Le indagini sociologiche riportano i dati, ben conosciuti, circa le difficoltà che le giovani generazioni incontrano nell’accedere al mercato del lavoro, alle università, alle professioni e alla politica.
Si tratta di un vero blocco intestinale che impedisce in particolare al sistema italiano di rigenerarsi, sclerotizzandosi in forme fisse di partecipazione alla vita sociale e lavorativa. Se anno dopo anno calano le percentuali dei giovani imprenditori, professionisti, insegnanti, lavoratori dipendenti, se tende ad alzarsi il numero di persone che rinunciano addirittura a cercare un lavoro, anche nel caso in cui in passato l’abbiano avuto, e se il fenomeno del precariato sta assumendo proporzioni di insicurezza sociale dilagante, il vero nodo è la politica. Gli oligarchi al potere non mollano la presa. A fronte di qualche ingresso mass-mediale di “veline” o giovani portaborse tra le retrovie del partitismo parlamentare, si ha di fatto un pluridecennale congelamento delle posizioni che contano.
La circolazione delle élites, a questo punto, che Pareto aveva individuato come l’essenza organica di una società vitale, diventa nulla più che una formula di scuola. Ad ogni livello, ciò che si verifica è invece lo sbarramento. Questa democrazia, difatti, nonostante alcune apparenze di segno contrario, non conosce la trasformazione del cuore del sistema, ma si presenta come un soggetto chiuso. La recente liquidazione dei partiti politici e la loro sostituzione con apparati che non si interessano della comunità ma soltanto degli equilibri di potere, ha aperto la strada al tentativo di partecipazione dal basso, giovanile ma non solo. Si fa largo la coscienza che, forse, un altro tipo di “democrazia” sia possibile, magari partendo dalla famosa “società civile”. Su questo terreno sono note le formidabili cantonate prese dai “movimentisti” oppure da quanti si illudono che soluzioni del tipo delle “liste civiche” possano destabilizzare l’ordine oligarchico e promuovere nuove partecipazioni.
L’interruzione del circuito di potere detenuto dalla “plutocrazia demagogica” o “populista” non potrà avvenire da soggetti ulteriormente scaricati di energia politica. Non sarà dedicandosi solo alle realtà locali o ai bisogni di settore che si potrà organizzare un nuovo protagonismo di nuove cerchie decisionali. Poiché, se la “democrazia” dall’alto, quella oligarchica, non funziona e tiene alla larga la maggioranza della popolazione, la “democrazia” dal basso funziona ancora meno, attivando anzi ulteriori illusionismi.
Una società sana fa circolare nelle sue vene le forze fresche del ricambio, poiché non le teme, ma anzi le sollecita. In situazioni di tipo organico-comunitario, la chiamata dei giovani all’assunzione della responsabilità è costante, rappresenta anzi un dato storico caratteristico. Non è un caso che, alle volte, le rivoluzioni politiche autentiche siano state anche rivoluzioni generazionali. Una nuova ondata raggiunge il potere, rovescia i valori e insomma va alla radice del problema.
Ma quando è l’individualismo a dettare la legge morale, allora il cambiamento riguarda il pelo d’acqua, non la profondità; accade ciò che Pareto definiva il vizio interno della democrazia, che alterna minoranze interessate solo al comando e intercambiabili tra loro. Ciò che mai come oggi è ben visibile a tutti. In realtà, il vero problema della finta “democrazia” liberalcapitalista è che essa si assegna il monopolio delle grandi sparate metafisiche (uguaglianza, libertà, diritti…), ma poi i popoli vengono regolarmente giocati. De Benoist ricordava tanti anni fa che il problema del regime democratico «non è né il numero, né il suffragio, né l’elezione né la rappresentanza, ma la partecipazione». E citava la frase di Moeller van den Bruck: «La democrazia è la partecipazione di un popolo al suo destino». La democrazia è dunque fatta non dalle istituzioni, ma dalla partecipazione del popolo alle istituzioni. Il contraffatto mito della modernità e del progresso, indicando modelli di evasione impolitica, ha comunque di fatto spento ogni anelito alla partecipazione popolare alla vita comunitaria. Questo è un risultato che colpisce in particolare il mondo dei giovani. La ghettizzazione delle masse giovanili entro i recinti della morale consumistica ha finora permesso al regime liberalcapitalista di contenerne le spinte e di dosarne gli accessi alla decisione politica, imbandendo la tavolata mass-mediale. I “volti nuovi” della politica italiana, della società, della cultura, nella loro inconsistenza quali alternative credibili, sono la migliore garanzia per i valori e il potere dei vecchi.
Manca, in verità, una cultura del conflitto. Solo la consapevolezza della contrapposizione può generare una modificazione sostanziale nella società, aprendo le porte a nuove classi, nuove aristocrazie, e soprattutto a nuovi popoli maturi e coscienti, in grado di esprimerle. Il bacino in cui si attua la paralisi del ricambio di ogni ruolo è l’indistinto: il liberalcapitalismo è il regno dell’indistinto e a tutti, individui e gruppi, promette l’indistinzione e lo smarrimento nel calderone del consumo e del debito a oltranza. In questa trappola fatta di buonismi e di proclamazioni di buoni propositi è stata rinchiusa l’antica energia al rinnovamento, di cui i popoli sono stati sempre bisognosi per determinare il proprio destino.
Eppure, sono parecchi decenni che chi ha occhi per vedere, vede. Citiamo un nome a caso. Max Scheler. Nel suo libro sulla “Metafisica del conflitto”, Gianluca Giannini ha scritto: «Scheler non ha fatto altro che declinare l’elemento conflitto non più solo come lotta dello e per lo Spirito, ma anche come vero e proprio antidoto esistenziale al cospetto della minaccia proveniente da altri, nella fattispecie dalla minaccia proveniente da quell’ordine tecno-economico rappresentato dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti». Oggi chi fornisce più ai nostri giovani di questi antidoti?
Non si vorrà credere davvero che la nicchia sparuta dei “disobbedienti”, che ogni tanto appare come cornice folklorica di eventi internazionali, costituisca un antidoto all’immobilismo dispotico del potere liberale…Non si vorrà immaginare che nei sodalizi antagonisti “per genere” (gli omosessuali, le “donne”, gli emarginati, gli immigrati…chi altri?) vibri davvero un astuto disegno di sostituzione degli apparati dominanti…Essi non indicano nulla di più che il voluto frazionamento del popolo in innumerevoli impotenze.
Ciò che occorre al momento presente non sembra essere un ricambio generazionale o un rinnovamento del personale politico e civile…Ci vuole ben altro. Bisogna rovesciare il tavolo e ricominciare da capo. Bisogna rifarsi umili missionari di una santa trinità oggi aborrita e che si chiama popolo, terra, lotta. Bisogna che ai giovani si torni a dare, come diceva Giuliotti, «cibo leonino» e non mangimi edulcorati per polli in batteria. Solo quando qualcuno o qualcosa tornerà ad agitare i grandi miti legati al popolo, alla sua storia, ai suoi bisogni e ai suoi sogni, si potrà parlare davvero non di un ricambio, ma di un sommovimento generatore di spazi aperti. L’Europa è un grande mito vivente che aspetta soltanto di essere risvegliato. In esso giacciono ancora inespresse tutte le possibilità politiche e sociali che in un colpo solo risolverebbero l’angoscia giovanile moderna, mutandola in forza e in gioia.