Cultura della cancellazione, totalitarismo invertito
di Roberto Pecchioli - 03/04/2022
Fonte: EreticaMente
Confucio a chi gli domandava quale sarebbe stato il suo primo atto se fosse diventato primo ministro, rispose che avrebbe “corretto le denominazioni”. Se le denominazioni, cioè le parole, non sono corrette e non corrispondono alla realtà, il linguaggio diventa senza oggetto, per cui l’azione diventa impossibile. Il principio confuciano è evidente in un mondo che ha distorto e capovolto significati e proibito parole, in cui non esiste più la concordanza tra la parola e la cosa, cioè la verità, adaequatio rei et intellectus per Tommaso d’Aquino, coincidenza della realtà con l’intelletto che la osserva.
L’inversione o la modifica delle denominazioni cambia la psiche umana, confondendola prima di impoverirla. Lo sapeva un altro gigante dell’antichità cinese, Lao Tze: “più vi sono interdetti e proibizioni, più il popolo s’impoverisce.” Ogni sistema ha l’ambizione di produrre un linguaggio proprio, al quale il popolo si deve uniformare: è il potere di stabilire, attraverso le parole, il lecito e l’illecito. Il filosofo greco Xanthos un giorno mandò Esopo a comprare al mercato l’alimento migliore per deliziare i suoi ospiti. Gli portò una lingua, poiché in essa ha fondamento “il vincolo della vita civile, la chiave della scienza, l’organo della verità e della ragione”. Esopo ricevette poi l’incarico di acquistare l’alimento peggiore. Scelse nuovamente la lingua, “madre di tutte le discussioni, nutrice dei giudizi, fonte delle divisioni e delle guerre”. La favola spiega l’importanza delle parole e il fatto che abbiano dei padroni, coloro che esercitano il potere.
Possedere le parole, i termini e i significati significa dominare l’universo interiore dei singoli e delle masse. Di qui l’enorme impatto del linguaggio politicamente corretto, che neutralizza centinaia di concetti e finisce per convincere che il bianco è nero. Per le streghe di Macbeth, motrici della tragedia della smania di potere, brutto è il bello è bello è il brutto. Hanno invertito le polarità della morale e dell’etica, del buon senso e della ragione. Hanno creato caos, disordine, distruzione.
In Alice nel paese delle meraviglie, Humpty Dumpty, l’omino a forma di uovo, rivela il suo approccio all’uso delle parole, che precorre la neo lingua di Orwell e la rivoluzione semantica del politicamente corretto. Quando io uso una parola, spiega, essa significa esattamente ciò che io voglio che significhi: metafora del potere di ogni tempo. “Quando faccio fare a una parola un simile lavoro, la pago sempre di più”. Modernissimo, anzi contemporaneo. Potremmo dire che nelle parole di Humpty Dumpty c’è l’intero impianto della correttezza politica: la torsione delle parole per far assumere loro significati graditi al potere, padrone del linguaggio, o, per usare un’espressione a sua volta politicamente corretta, della “narrazione”. La parola è malleabile: le possibilità di nascondere alcuni messaggi ed evidenziarne altri la rendono una risorsa terribile. Ecco perché sempre il potere ha perseguito il dominio delle – e attraverso – le parole. Non c’è epoca in cui qualcuno non abbia legiferato contro la parola. La novità sta nel metodo, cioè nella cancellazione, che segna un profondo cambio di paradigma. La nuova cultura non cerca solo di colpire il dissidente o costringerlo al silenzio. Quello che persegue è la creazione di un nuovo senso comune, ossia imporre un’egemonia: dominio più consenso. Intende cambiare il quadro di riferimento. Ecco perché la catena di comando della tabula rasa (Big Tech, oligarchie, università americane, comunicazione e intrattenimento) è interessata a cambiare la lingua. Siamo all’approdo finale di un’ideologia di impronta totalitaria. Vi è un’influenza metodologica marxista, ma non è l’unica. Viktor Klemperer analizzò acutamente l’uso della lingua nel Terzo Reich; la sua lezione è che, al di là delle etichette, ogni operazione di modifica del linguaggio cambia il quadro di riferimento della realtà, detta ciò che la gente deve pensare e le parole da utilizzare, un’operazione che non è mai neutra.
La cultura della cancellazione sorge negli Stati Uniti come rigetto della civiltà europea prodotto di “maschi bianchi morti eterosessuali”. Nasce da una visione della realtà esportata oltre oceano dalla Scuola di Francoforte e dalla Teoria Critica. E’ quella che il francese Derrida chiamò decostruzione, in particolare la concezione del linguaggio come chiave del disvelamento degli “errori” introdotti nel subconscio attraverso il lessico. Nelle varie costruzioni culturali si infiltrerebbe una serie di rapporti di potere che configurerebbero il nostro comportamento. Il compito della decostruzione è quello di smantellare tutto, e revocare le ingiustizie rinchiuse nell’enciclopedia del sapere umano.
Chi ci dice, tuttavia, che i decostruttori non introducano nuove menzogne al servizio di un potere che ha modificato i propri obiettivi? La decostruzione è il Grande Reset del linguaggio e dei significati. Alla cultura autodefinita “risvegliata “non interessa affatto la realtà: il fine è unicamente cancellare, imponendo il criterio odierno come unico, indiscutibile, tappa finale di un’umanità finalmente liberata. Ma neanche questo è sufficiente: il progresso è per definizione provvisorio, liquido, snodo verso ulteriori “conquiste”.
Un esempio raggelante sta nell’esplosione improvvisa di casi di disforia di genere in età puberale negli Usa. All’ideologia risvegliata – che nega il dimorfismo sessuale e considera ogni identità come provvisoria, cangiante, frutto di costruzioni socio culturali – non interessa affatto la salute fisica, sessuale, mentale, di chi ha – o a cui sono indotti dolosamente – dubbi e problemi. Conta diffondere un nuovo costrutto culturale distruttivo che rimuove la realtà, una sorta di febbrile voler essere che somiglia al letto di Procuste. Questi era un brigante che aggrediva i viandanti e li straziava battendoli con un martello su un’incudine a forma di letto. I malcapitati venivano stirati a forza se troppo corti, amputati se gli arti sporgevano.
Come Procuste, la cultura della cancellazione vuole ridurre ogni cosa a un unico modello, un solo modo di pensare, agire, parlare. Nessuna preoccupazione per le ferite che lascia sul cammino, i danni collaterali di una mentalità astratta, totalitaria, nella quale il fine perseguito (il “risveglio”, l’abolizione di ogni vestigia di ieri) è superiore a tutto. Una mentalità fanatica, dogmatica, totalitaria. La minaccia della cancellazione si è evoluta, trascinata dal progresso della tecnologia che ha scavalcato gli stessi governi nazionali. Oggi chi discrimina e detta le regole dell’espressione in modo arbitrario sono le cosiddette Big Tech, enormi aziende tecnologiche monopolistiche. Contemporaneamente, la cultura della cancellazione avanza sul terreno del diritto positivo. La questione che sta ponendo è la fine del concetto di parità giuridica di diritti: l’ideologia risvegliata asserisce senza accettare contraddittorio che ogni relazione sociale è soggetta a ingiuste dinamiche di potere che devono essere compensate. Esistono innumerevoli gruppi interconnessi di vittime (teoria della intersezionalità introdotta dalla femminista nera radicale americana Kimberle Crenshaw) e coloro che appartengono a qualcuno di essi devono essere considerati oppressi per motivi storici (i “dannati della terra “) e risarciti dai membri o dagli eredi dei gruppi favoriti. Si risponde a ingiustizie pregresse – talvolta vere, talvolta inventate –con nuove ingiustizie che negano l’uguaglianza giuridica, le pari opportunità e ormai, come alcune normative in materia di reati “di genere”, la stessa presunzione di innocenza. Oppressi e oppressori sono predefiniti in maniera deterministica, a prescindere dalla concreta volontà dei soggetti. Sei un maschio bianco eterosessuale? Sei un oppressore e devi essere condannato, specie se sei accusato da uno qualunque dei gruppi che hanno ottenuto lo statuto di vittime. Gli zeloti della cancellazione lavorano attivamente a modifiche dei codici giuridici che contraddicono millenni di civiltà: un progetto totalitario. Il carattere nuovo è che il radicalismo della tabula rasa non pretende di applicare la legge in via generale. Se ne serve esclusivamente per i casi che interessano, utilizzando il ricatto morale di casi estremi. E’ la tattica del partito radicale nelle sue battaglie per i sedicenti “diritti”. Vogliono l’interiorizzazione dell’autocensura per timore e per tornaconto: il loro obiettivo è il nostro silenzio. I metodi di coercizione fisica del passato sono bypassati, benché la morsa si stia stringendo anche sul versante dell’incolumità dei dissenzienti. I metodi totalitari di ieri dominavano la società ma finivano per rendere più tenace la fiamma della dissidenza. Il metodo incruento, la neolingua, la torsione dei significati e delle parole per esprimerli è più efficace. Plinio Correia de Oliveira lo definì “trasbordo ideologico inavvertito”. Accerchiata dalla coazione, intimidita dall’apparente unanimità, la maggioranza finisce per conformarsi al discorso dominante senza protestare. Un’analista americana con un passato nella CIA, Stella Morabito, cita due procedure complementari: saturazione e soppressione. La prima è la ripetizione costante di uno slogan. Una tautologia semplice che può essere assunta da tutti, con una chiara intenzione manipolatoria. L’obiettivo è far pensare alle persone che qualcosa ripetuto ossessivamente non possa essere una bugia. La soppressione è la cancellazione stessa: mettere a tacere chi disturba, far passare le sue argomentazioni come deliri ridicoli e inaccettabili. Noi aggiungiamo la forza di una credenza assai diffusa, che il governo faccia i nostri interessi o almeno ne abbia l’intenzione. I meccanismi citati hanno un fine comune: infiltrare messaggi nella mente con le parole “giuste”, all’interno di concetti o slogan già accettati dalla società. Il principio della finestra di Overton e il controllo delle denominazioni di Confucio. Se si obietta contro una misura racchiusa in uno slogan che sostiene la lotta alla fame nel mondo, si è accusati di essere affamatori. Questo accade già con la categoria di violenza di genere. La discussione è vietata, l’obiezione criminalizzata, la sfumatura inammissibile. O sei d’accordo su tutto o sei maschilista, violento, eteropatriarcale, i nuovi interdetti a cui non si reagisce per pavidità e per esplicito divieto di argomentazione razionale. I rischi per la libertà sono evidenti, così come l’enorme disinformazione di cui siamo vittime, utilizzata apertamente da poteri e governi che diffondono notizie false e praticano ormai la cancellazione preventiva di alcuni messaggi, ovvero la vera e propria censura. Un piano inclinato che le Big Tech percorrono da alcuni anni e che negli ultimi tempi ha determinato il blocco di siti e agenzie di informazione russi. La democrazia liberale ha perso i suoi tratti distintivi e i due termini – democrazia e liberale – hanno subito una totale deformazione di significato. Governano con il metodo della paura per giustificare la cancellazione di tutto ciò che non coincide con il pensiero (unico) dominante.
Non si può escludere la possibilità che, a causa del fastidio che comincia a manifestarsi nei confronti della cultura della cancellazione, gli effetti dell’indottrinamento risultino contrari alle aspettative e risveglino la resistenza di minoranze attive e risolute. La speranza è anche una virtù teologale. Dobbiamo credere alle parole di Abramo Lincoln: si possono ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non si possono ingannare tutti per sempre. Il principio di verità prevarrà se ci sarà qualcuno deciso a farlo valere. La realtà non è del tutto manipolabile: nella narrazione dominante ci sono contraddizioni, fenditure, autentici spropositi. La neve non è nera e la gente alla fine crederà ai propri occhi. La scommessa è rispondere alla menzogna con il fermo coraggio della verità.
L’imperativo morale è respingere il linguaggio ingannevole e avvalerci del diritto naturale alla resistenza contro chi ci opprime. Vogliono la morte sociale del dissidente e il declino della verità. Dobbiamo coltivare la diffidenza, primo lievito della dissidenza: qualunque verità ufficiale manifestata con il baccano di una falsa unanimità è una bugia nascosta.