Da dove nasce l’ideologia woke
di Marcello Veneziani - 01/03/2025
Fonte: Marcello Veneziani
È più forte di loro. Prendete un partito, un giornale, un gruppo di pressione, un comitato intellettuale, un collettivo di qualunque natura orientato a sinistra, e prima o poi si costituirà in ufficio permessi e divieti, tribunale dell’inquisizione. Dimenticherà di essere una parte, un partito rispetto al tutto e si sentirà super partes, stabilendo regole, osservanza e infrazioni. Sarà cioè inevitabilmente risucchiato da quell’ideologia che viene riassunta con l’espressione woke. In origine woke voleva dire essere svegli, poi è mutata in vigilanza – la famigerata vigilanza democratica – quindi è diventata sorveglianza. L’ideologia woke è di fatto un regime di sorveglianza che decide a chi rilasciare e a chi vietare i permessi di circolazione e a quali condizioni.
L’ideologia woke nasce come rivendicativa, in difesa di alcune minoranze maltrattate o non adeguatamente protette, e finisce come ideologia vendicativa, che si vendica con la realtà che non corrisponde al proprio codice ideologico. Ideologia del risentimento, direbbe Nietzsche, ma non il vago e mellifluo risentimento verso la vita, la salute, la bellezza, la grandezza che Nietzsche imputava al cristianesimo e ai suoi eredi, come il socialismo. Ma un’ideologia rancorosa che si esercita delegittimando, denunciando, punendo e censurando l’avversario. Mentre di solito non accade l’inverso.
L’ideologia vendicativa è il titolo di un libretto anti-woke scritto da una sociologa e ricercatrice del CNRS di Parigi, Nathalie Heinich, pubblicato da Gog. Il titolo originario in realtà declina il woke col nuovo totalitarismo; ma la sintesi “ideologia vendicativa” è abbastanza fedele al contenuto del testo.
L’ideologia woke è inevitabilmente un’ideologia per le minoranze destinate a restare minoranza; nessuna forza maggioritaria di un paese può mantenere quell’atteggiamento censorio, elitario, sprezzante e arrogante che è tipico di una minoranza che reputa di essere su un piano etico e cognitivo superiore rispetto agli altri. Finché sarà woke la sinistra sarà minoranza astiosa in ogni paese; potrà avere potere di veto, potere intimidatorio e ricattatorio, potrà combinarsi ad altre oligarchie e detenere il potere in spregio alla sovranità popolare e alla volontà reale della gente. Ma non sarà mai l’espressione compiuta di una maggioranza. Al catechismo woke c’è chi reagisce in modo combattivo, come annuncia Trump; c’è chi invece preferisce la tattica di acquattarsi, tacere e andare avanti senza opporsi, salvo che nei comizi, come finora ha fatto il governo Meloni. Ma l’ideologia woke è un’emergenza per la democrazia, mette in pericolo la libertà e l’intelligenza, genera un clima di odio mentre professa di volerlo avversare.
Se sentite di una lezione all’università, di una conferenza, di un convegno o di una manifestazione autorizzata, di un testo censurato, di un autore negato, sapete già in partenza che a decretare l’ostracismo, lo stigma, il divieto è sempre quel ceto commissario e inquisitorio chiamato in breve woke. Così come ogni qualvolta si vuole imporre un busto correttivo alla realtà e alla verità dei fatti, ogni volta che si vuol cancellare un evento, una statua, un personaggio dalla storia, dalla topografia, dalle vie e dalle piazze sapete già che sono loro, i sorveglianti della Woke, la polizia culturale in servizio in Occidente. Le vittime possono essere naturalmente la destra, ridefinita sempre nazifascista o al più reazionaria, ma anche semplicemente chi non si riconosce nel canone woke, non è di sinistra, o perfino lo è ma in modo libero e critico. Che l’ideologia woke sia una mentalità radicata a sinistra lo dimostrano mille indizi: l’ultimo è una ricerca del dipartimento di scienze sociali e politiche della Bocconi sulle “polarizzazioni affettive”. In una relazione mista tra una figlia di sinistra e un fidanzato di destra o viceversa, i più infastiditi e intolleranti sono i famigliari di sinistra (oltre il 60% di votanti del Pd, quasi il 75% di votanti di sinistra e verdi), mentre la grande maggioranza delle famiglie di destra sarebbero molto più tolleranti. Insomma l’ideologia woke opera anche a uso domestico, in famiglia.
Nathalie Heinich fa un’attenta classificazione dei tratti significativi dell’ideologia woke che potremmo così riassumere: impone un rapporto del tutto ideologizzato col mondo; confonde la descrizione con la prescrizione, la norma correttiva a cui adeguarsi; genera un’alleanza tra l’ideologia normativa e gli interessi commerciali; ignora il contesto e non vede la differenza tra la realtà e la finzione; applica criteri di valutazione del presente anche al passato; disprezza i diritti morali degli autori, fino a stravolgere le loro opere nella censura e bonifica dei testi; infine è fanatica, e ciò compendia il moralismo, la speculazione, l’ignoranza militante e arrogante, l’abuso dei testi e degli autori, il disprezzo per l’opera d’ingegno, la negazione della realtà. Tutto questo dà vita a quello che l’autrice chiama totalitarismo woke.
Il wokismo inoltre irrigidisce l’appartenenza a comunità originarie; tanto è fluido nelle questioni sessuali e morali, quanto è rigido nelle identità di partenza, quelle etniche, razziali, “comunitarie”. Chi è bianco, maschio, europeo e cristiano è già marchiato d’infamia nella sua identità, di cui può solo vergognarsi.
Nel cercare un precedente a questa faziosità totalitaria e ideologica, la ricercatrice francese non trova di meglio che ripescare il solito fascismo; ma non ha bisogno di allontanarsi troppo nel tempo e nemmeno dal luogo in cui vive: tutto questo si sviluppò da Parigi in poi nel ’68. Anche quando attribuisce al fascismo la definizione del “tutto è politica” non si rende conto che fu proprio il ’68 a lanciare lo slogan “il personale è politico”, e tutto ciò che è privato sconfina nel pubblico. A voler invece rintracciare un archetipo storico, un precedente ideale e ideologico al catechismo woke, restando in Francia, basta rovesciare quel numero 68 e trovarne un altro: l’89, nel senso della Rivoluzione francese dei giacobini.
Giustamente la Heinich nota che stavolta l’ideologia woke è venuta fuori dall’America, anche se il seme ideologico è europeo; poi se la prende col femminismo ideologico e con la discriminazione mortificante delle quote rosa. E auspica l’uso attivo dell’ironia e dell’umorismo per sconfiggere l’arcigna ideologia woke che ne è totalmente priva.
Spiegando infine le ragioni del successo dell’ideologia woke, l’autrice sottolinea innanzitutto che è redditizio, arreca vantaggi a chi lo usa o lo serve. In secondo luogo nasce dalla paura: paura di stare dalla parte sbagliata e di subirne le conseguenze e paura di invecchiare, di restare cioè fermi al passato, tagliandosi fuori da ciò che è trendy. Sulla scia di Hannah Arendt, l’autrice nota che l’ubbidienza woke attecchisce anche perché i sistemi totalitari preferiscono la mancanza d’intelligenza e di creatività, perché dà maggiori garanzie di lealtà, cioè di conformismo.
Per la Heinich il woke capovolge virtù originarie in oppressione. E come esempi di virtù originarie cita l’ideale ugualitario della Rivoluzione francese e l’ideale comunista della rivoluzione bolscevica. Non le sfiora il sospetto che quelle virtù, proprio perché irrealizzabili e utopistiche, contenevano già in sé le premesse per la loro involuzione totalitaria, tossica e sterminatrice. Del resto, non c’è bisogno di fare congetture: basta vedere dove condusse il Terrore giacobino e poi il totalitarismo comunista ovunque si sia imposto nel mondo. No, l’ideologia woke non nasce dal nulla, anche se può produrlo.