Dagli al putinista, manganellate al filopalestinese e accidenti ai pacifisti!
di Franco Cardini - 28/02/2024
Fonte: Franco Cardini
È dunque ormai chiara la silhouette della nostra felice democrazia. Ce lo ricordano, in un coro fuori dal quale si situano solo qualche emittente televisiva minore e qualche isolato organo di stampa, i nostri politici di governo e no, di maggioranza e di minoranza, e i saggi opinion makers che compaiono a vario titolo in TV e che scrivono editoriali ed elzeviri sui maggiori quotidiani. A Pisa, un paio di giorni fa, un corteo che manifestava affinché cessi l’orribile macello in atto nella “striscia di Gaza” è stato disperso a manganellate con una foga che ai meno giovani ha ricordato i tempi ruggenti del ministro Scelba e che ha strappato una parola di disappunto perfino al prudentissimo signore attualmente inquilino del Quirinale.
Ma un esponente di punta del primo partito di maggioranza insiste in toni neokennedyani (ricordate l’Ich bin Berliner?) col mantra “Siamo tutti israeliani” – qualcuno di noi disse anche “Siamo tutti americani” dopo l’11 settembre 2001: poi ci ricredemmo… – e alcuni autorevoli dirigenti RAI o direttori di quotidiani siglano perentorie dichiarazioni di solidarietà al governo di Netanyahu qualunque cosa esso dica o faccia ostentando la massima sprezzante noncuranza per il parere – sovente esplicitamente opposto – dei loro stessi collaboratori e dipendenti. Di queste pietre è lastricata la strada che ci porta a una sempre più matura e serena libertà. D’altronde due miei vecchi amici, Fiamma Nirenstein ed Ernesto Galli della Loggia, sentenziano concordi che uno stato palestinese è impossibile e irrealizzabile in quanto lederebbe il principio intangibile del diritto d’Israele alla sicurezza. Rinvio al riguardo al finissimo piccolo saggio ironicamente “neomedievale” di Roberta de Monticelli, una delle nostre più lucide menti filosofiche (tanto che piace perfino all’incontentabile Massimo Cacciari); mi permetto di aggiungere alle sue considerazioni una sola, banalissima considerazione obiettiva. Care amiche, cari amici, per fondare uno stato sono necessarie due cose: un popolo e un territorio. Quanto al popolo, quello palestinese ormai irrimediabilmente diviso in un nucleo settentrionale cisgiordano e in uno meridionale della “striscia di Gaza”, esso è da ormai da quasi cinque mesi soggetto a un sistematico massacro (non parliamo di genocidio, Dio ce ne guardi: ma di strage, perdinci, eccome!) e indotto ad andarsene, per quanto poi i suoi stessi “fratelli” arabi rifiutino di accoglierlo. Vogliamo tener conto, se non altro, del suo stato morale, della sua prostrazione, della sua disperazione? Quanto al territorio, vi consiglio semplicemente la consultazione comparata delle ultime edizioni dell’Atlas géopolitique d’Israël e dell’Atlas des Palestiniens, entrambi delle parigine Éditions Autrement: dalle mappe là pubblicate, vi renderete conto che il territorio del supposto futuro stato palestinese non c’è più, divorato a “macchie di leopardo” che si allargano sempre più dagli insediamenti dei coloni israeliani, illegali secondo il diritto internazionali ma favorite dal governo di Netanyahu e ormai inamovibili. E se da una parte uno “stato indipendente” è impensabile in quanto per esser tale dovrebbe poter stringere alleanze con chi volesse, cosa che evidentemente gli israeliani sono ben decisi a impedire, anche un’annessione dei territori palestinesi come parte integrante dello stato d’Israele è impensabile in quanto modificherebbe gli equilibri demografici interni e, a causa dello squilibrio delle rispettive dinamiche demografiche, ne metterebbe in discussione la stessa ebraicità.
Tutte le strade sono sbarrate, dunque. L’unica prospettiva plausibile che si apre dinanzi ai palestinesi è un destino di “riserve” come quelle dei native Americans negli USA. Altrimenti, restano le strade delle ulteriori stragi (fino a una “soluzione finale” del problema palestinese?) o dell’emigrazione con relativi insediamenti in “campi di raccolta” come quelli in teoria previsti dal governo egiziano nel Sinai (ma ricordate come finirono Sabra e Chatila in Libano?). E, dal momento che i palestinesi non interessano in realtà a nessun governo – quelli arabi compresi –, una volta esaurita la loro funzione di pretesto propagandistico essi non hanno scelta. Salvo una, nell’immediato: il rilancio della lotta terroristica, ratio ultima dei disperati. In questo modo diverranno i “nemici del genere umano” e i giochi saranno fatti, chiudendo il cerchio.
Quanto alla guerra russo-occidentale (possiamo chiamarla altrimenti?), un autorevole giornalista esperto in cose orientali come l’amico Lorenzo Cremonesi continua a insistere sul “Corriere della Sera” sostenendo la tesi – a dir la verità non così evidente… – che “Putin ha già perduto la guerra”. Certo, il suo parere è difficile da mandar giù, specie per chi si sia letto con una qualche attenzione le 324 fitte pagine del n. 1/2024 del noto mensile “Limes”, il cui inequivocabile titolo suona Stiamo perdendo la guerra: e il soggetto sottinteso della frase è fuor d’ogni dubbio “noi”, vale a dire “noialtri occidentali” in genere.
Ma la controffensiva si prepara. Non si capisce se davvero quella militare, con i nuovi alti comandi ucraini provati dalle sostituzioni, il popolo ucraino stufo del salasso umano e dei costi intollerabili, gli americani che dopo aver provocato la guerra ora non vedono l’ora di sfilarsi dal pasticcio e gli europei inossidabilmente occidentalisti che non sanno più che cosa pensare oppure – peggio! – blaterano un irresponsabile “ce la faremo da soli!”. Ma a livello delle risorse diplomatico-propagandistiche, dopo il Putin disperato, il Putin ammalato, il Putin isolato eccetera, ecco l’extrema ratio del bieco tiranno dalle mani lorde del sangue innocente di Navalny. Le prove dell’assassinio mancano, il movente di quella che se fosse vera sarebbe un’azione stoltamente boomerang non regge granché, ma ormai la versione del despota mostruoso invade i media e batte in breccia il buon senso e la capacità critica.
Facciamo chiarezza. Rileggiamo il magistrale articolo di Barbara Spinelli su “il Fatto Quotidiano” di venerdì 21 febbraio scorso, p. IV dell’Inserto speciale dedicato ai Due anni di guerra Russia-Ucraina. Torniamo all’anno nodale 2007, quando Putin trattava ancora gli occidentali da partners, alla severa ammonizione del capo del Cremlino durante la conferenza di Monaco sulla sicurezza tenuta in quell’anno affinché la NATO desistesse dal suo ormai evidente disegno di espandersi sempre più minacciosa ad est e alla demenziale risposta in quella medesima sede del ministro italiano della difesa Arturo Parisi (governo Prodi) secondo la quale non solo l’ONU, ma anche Unione Europea e NATO avevano il diritto di legittimare l’uso della forza “per combattere la violenza ingiusta e ripristinare la pace”. Lì c’è la radice di tutto quello che accadde da allora, a cominciare dal golpe “democratico” in Georgia dell’anno successivo: il Totentanz proseguì con il Putsch in Ucraina che – con la regia dell’allora segretario di stato USA, Victoria Nuland – rovesciò il legittimo governo Yanukovich (e vedemmo allora i nostri governi fieramente antifascisti applaudire le milizie neonaziste ucraine), con le sconsiderate azioni militari e paramilitari in Ucraina e in Donbass che finirono col provocare la risposta russa, con l’invio a pioggia di armi occidentali e ormai, dopo due anni di guerra che hanno provocato decine e decine di migliaia di morti, la definitiva, esplicita, tragica rinunzia perfino al tabù della menzione “magica” della guerra: con una dichiarazione inaudita (nel senso etimologico del termine) dopo il 1945, il 10 febbraio di quest’anno il segretario NATO Jens Stoltenberg (verrebbe da riflettere, sia pur maccheronicamente, nomen omen) ha incitato a predisporre una “economia di guerra” per un confronto con la Russia destinato a “durare decenni” (sic!).
Siamo dunque al riarmo forzato e accelerato. Ce lo promette anche la buona Ursula von der Leyen, mentre il nuovo “patto di stabilità” approvato appunto il 10 febbraio dal Consiglio dell’Unione Europea e dal Parlamento Europeo dichiara il “necessario” aumento delle spese militari degli stati membri dell’Unione, pena gravi sanzioni. Ecco in che modo garantiremo stabilità e rilanceremo l’economia europea creando nuovi posti di lavoro. Finché c’è guerra, c’è speranza. Avanti senza paura, nemmeno più della bomba nucleare. Bentornato, dottor Starnamore!