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Dalla Geografia Sacra alla Geopolitica del virus (II)

di Claudio Mutti e Daniele Perra - 08/08/2020

Dalla Geografia Sacra alla Geopolitica del virus (II)

Fonte: Azione Tradizionale

Quanto è emerso ricalca l’insegnamento tradizionale, espresso anche da René Guénon, per cui una scienza, sacra perché fondata sui princìpi spirituali, nel corso del suo sviluppo perde progressivamente tali princìpi, assumendo un carattere sempre più profano. Bene, su tali presupposti, potresti approfondire il concetto di “spazio”, come inteso sia dalla geografia sacra, sia della geopolitica?
Daniele Perra – L’idea di Scienza che si “evolve”, assumendo col passare del tempo un carattere profano. si presta particolarmente ad una interpretazione del concetto di spazio o di dimensione spaziale in rapporto a geografia sacra e geopolitica.
In precedenza si è fatto riferimento alle idee di centro e di origine. Ora, per usare una terminologia heideggeriana, ogni dimensione spaziale si pensa in rapporto alla vicinanza con la propria “origine”. Più è vicina a tale “origine” (anche in termini religioso-filosofici) più mantiene la sua intrinseca centralità. Essa, al contrario, si perde quando più si allontana dall’origine. Questo “allontanarsi” dall’origine determina la spaesatezza: ovvero, l’oblio e la dimenticanza del proprio essere originario. Prendendo in considerazione lo spazio eurasiatico, sarà facile notare come la civiltà iranica e quella cinese siano riuscite a mantenere tale centralità. Nonostante le comunque evidenti distorsioni della modernità, lo spirito cinese è ancora intrinsecamente confuciano, mentre quello iranico è legato ad un Islam profondamente influenzato dal modello escatologico mazdeo-zoroastriano[10]. Lo stesso non si può affermare dell’Europa che ha smesso da tempo di considerarsi “centro”.
I modelli cartografici iranici ai quali si è fatto un rapido accenno in precedenza, di fatto, ricalcano uno schema geografico-sacrale in cui Eran-Vej (l’origine – la culla – della civiltà iranica) viene considerata come il cerchio centrale di un disegno che comprende altri sei keshvar ad esso adiacenti e che nel loro insieme rappresentano lo spazio accessibile all’uomo nella sua interezza (i keshvar, è bene ricordarlo, come afferma il grande iranista Henry Corbin, possono essere sia dei “climi” che delle zone della terra, secondo una rappresentazione analoga a quella dell’orbis latino). Lo schema dei keshvar è stato applicato alla geografia fisica dal cartografo medievale al-Biruni che pose al centro, ancora una volta, l’Iran, e nei sei cerchi ad esso adiacenti e di raggio uguale a nord, il mondo slavo-bizantino ed il Turkestan; a sud, l’Arabia e l’India; ad ovest, la Siria e l’Egitto; ad est, la Cina e il Tibet.
Similarmente, per i Cinesi, al di là dei quattro lati dello spazio imperiale (raffigurato questa volta in forma quadrata) si trovavano quattro regioni che venivano chiamate i Quattro Mari. La raffigurazione quadrata dello spazio deriva dall’idea che la terra stessa (il Basso) avesse forma quadrata ed il cielo (l’Alto) forma circolare. Per questo i Cinesi immaginavano il mondo come una tartaruga (con il carapace quadrato in basso e rotondo in alto) o come un carro (base quadrata e baldacchino circolare). Punto di congiunzione tra l’alto ed il basso era naturalmente il palazzo imperiale costruito ad immagine dell’universo. Qui, il Sovrano che opera secondo il Tao (Principio Supremo il cui primo significato è “cammino”, così come il significato principale di Shari’a è “via”) incontra i suoi Vassalli e da qui, ogni cinque anni, compie un viaggio all’interno dei confini dell’Impero ad imitazione del percorso del Sole. Esso, così, si troverà ad Est in Primavera, a Sud d’Estate, ad Ovest in Autunno, a Nord d’Inverno.
Questa è quella che potremmo definire una concezione dello spazio di carattere qualitativo. Essa differisce totalmente da una concezione di tipo quantitativo che è propria della modernità e di quell’imperialismo che si pone in netto contrasto rispetto alla concezione tradizionale di Impero.
Per l’imperialismo, l’estensione imperiale diviene una mera accumulazione di spazio priva di vincoli sacrali. Il confine viene annullato dal diritto talassocratico ed al suo posto fanno la loro comparsa le “fasce di sicurezza” poste a contenimento delle potenziali minacce emergenti e del rinvigorirsi di antiche e combattive civiltà.
Questo è spazio meramente omologato. L’Europa ne rappresenta l’esempio più evidente. La sua inesorabile decadenza, come già detto, inizia nel momento in cui smette di pensarsi come “centro”, viene sradicata dalla sua naturale collocazione spirituale, e le viene imposto di pensarsi e definirsi come “Occidente”.
Centro Studi Raido – Per concludere, rivolgo ad entrambi un’ultima domanda alla ricerca di una sintesi e di spunti con cui interpretare il futuro che ci attende dal punto di vista dei princìpi spirituali. Infatti, anche in occasione degli ultimi eventi “geopolitico-sanitari” (se mi permettete), ma anche degli ultimi fatti relativi all’iniziativa di Erdogan su Aghia Sophia, sembra riproporsi incessantemente la dialettica Oriente-Occidente, come espressa anche da René Guénon. In Oriente, vediamo Stati, come Iran, Russia e anche la Cina, che, sulla base di forte legame alla loro identità e alla loro terra, tendono ad affermare la loro posizione su scala locale; mentre, in Occidente, vediamo stati che, spinti da una bruta volontà di dominio, tramite i mari, vogliono violentemente depredare ricchezza presso altri territori, oltre i loro mari. Ebbene, tale chiave di lettura della dialettica Oriente-Occidente può ancora darci strumenti interpretativi? Che prospettive apre?
Claudio Mutti – Per rispondere a questa domanda occorre compiere un’operazione preliminare: definire il concetto di Occidente e stabilire il rapporto che intercorre fra l’Occidente e l’Europa.
Come scrive Franco Cardini in uno dei suoi diecimila libri, la nozione di Occidente è una delle “più infide e scivolose”, tanto più che essa tende a diventare assoluta e metastorica. Infatti l’abbondante documentazione raccolta dal noto medievista ci mostra ancora una volta come il concetto di Occidente sia relativamente nuovo, al punto da diventare inscindibile da quello di modernità (ovvero di “mondo moderno”, se vogliamo usare il lessico tradizionalista). Secondo Cardini è molto problematico sostenere l’esistenza effettiva di un’identità “occidentale” e magari identificare, sia pure in maniera più o meno imperfetta, il concetto di Europa con quello di Occidente. Eppure, soprattutto nella cosiddetta Europa occidentale si è tentato di far coincidere i due termini, definendoli attraverso il confronto con l’Oriente (ieri comunista, oggi islamico e confuciano, tanto per citare Huntington).
A questo Occidente/modernità, identificato in maniera abusiva con l’Europa, si sono volute attribuire antiche radici, che servissero a nobilitarlo: e sono state cercate nella Grecia antica, nella civiltà romana, nella Cristianità medioevale e moderna, infine – per soddisfare tutte le varietà ideologiche dell’occidentalismo – nella cosiddetta cultura giudaico-cristiana. Contro questi tentativi occorre protestare con forza.
La civiltà greca non può essere vista sic et simpliciter come antesignana della modernità, che è, come ci insegna Max Weber, “disincanto del mondo”, Entzauberung der Welt.  Infatti la cultura dei Greci non produsse soltanto il razionalismo sofistico, l’atomismo democriteo ed epicureo, la filosofia degli scettici e dei cinici, ma si espresse anche e soprattutto nella religiosità olimpica, nel mito, nei Misteri, nella metafisica di Platone, nel neoplatonismo teurgico e mistico, ragion per cui non può essere presentata seriamente come precorritrice o genitrice della modernità. Un discorso analogo vale per Roma, la cui civiltà si basa su quanto vi è di più estraneo al pensiero occidentale e di irriducibile alle esigenze della modernità: ossia sullo stretto rapporto dell’ambito religioso con quello giuridico e politico (la stessa cosa che oggi viene rimproverata all’Islam). Naturalmente, l’operazione genealogica compiuta dagli occidentalisti (la loro “scelta degli antenati”, per dirla con Evola) richiede che vengano sottaciuti o minimizzati tutti quegli eventi storici che, nell’antichità e nel Medioevo e anche in seguito, hanno volta per volta rappresentato o una sinergia greco-persiana, o un’alleanza germano-turanica, o un incontro fra Cristianesimo e Islam, oppure – a proposito di Ayasofya o Ἁγία Σοφία che dir si voglia – l’assunzione del patrimonio imperiale bizantino da parte di un Impero islamico. Simultaneamente, il pregiudizio occidentalista ha cercato di oscurare lo scenario geopolitico di tali eventi, che tendeva puntualmente ad assumere più o meno estese dimensioni eurasiatiche. Insomma, si è riusciti ad enucleare un concetto in apparenza univoco di “Occidente” ignorando o minimizzando l’importanza di grandi sintesi eurasiatiche e mediterranee come quella avviata da Alessandro Magno, che almeno dal I secolo a. C. diventò il fulcro delle scelte politiche e culturali dell’Impero romano; o come quella che in età moderna prese forma col grandioso edificio imperiale dell’Impero Ottomano.
Che cos’è allora che possiamo chiamare legittimamente Occidente? Qual è la sua figura archetipica?
Invece di chiederlo a Huntington, a Luttwak, a Bannon e agli altri agit-prop occidentalisti, chiediamolo a Platone. Nel Crizia e nel Timeo leggiamo che in tempi immemorabili sorgeva ad occidente, oltre le Colonne d’Eracle, un’isola grande un continente, sede di una potente talassocrazia. Il nome dell’isola, Atlantide, deriva da quello di Atlante, mitico sovrano dell’oceano Atlantico; Atlante era figlio di Poseidone, dio delle acque, che sarebbe stato anche il primo re dell’isola. Secondo quanto raccontò un sacerdote egizio all’ateniese Solone (racconto riferito da Platone), la talassocrazia atlantidea estendeva il suo potere al di qua delle Colonne d’Eracle, nel nostro mondo, dove dominava il Nordafrica e le coste occidentali dell’Italia. Ebbene questa potenza occidentale – raccontava il sacerdote egizio – tentò di sottomettere la Grecia, l’Egitto e gli altri territori mediterranei. “Fu allora, – disse il sacerdote al visitatore ateniese – che la potenza della vostra città diventò illustre dinanzi a tutti gli uomini, per virtù e forza”. Infatti, dopo avere fallito l’obiettivo di invadere Atene, Atlantide sprofondò nelle acque oceaniche per opera di Poseidone.
Secondo Numenio di Apamea (vissuto ad Alessandria d’Egitto fra il II e il III secolo) gli abitanti di Atlantide rappresentano i démoni “materiali” (hylikòi) che vivono nella regione occidentale della terra. Porfirio conferma questa veduta dicendo che “l’Oriente conviene agli dèi e l’Occidente ai démoni”. René Guénon, che è stato menzionato più volte, ha attribuito la scomparsa di Atlantide “ad una deviazione che, per certi aspetti, si può forse paragonare alla deviazione che constatiamo ai giorni nostri”. D’altronde Guénon ha collocato nell’isola di Atlantide la nascita della “controiniziazione” ed ha ipotizzato che, per il tramite dell’antico Egitto, un’eredità atlantidea sia pervenuta agli Ebrei. Quello di Atlantide è un mito. In quanto mitica, la storia di Atlantide “riferisce un avvenimento che ha avuto luogo nel tempo primordiale, il tempo favoloso delle ‘origini’” – direbbe Mircea Eliade. Tuttavia il conflitto tra la grande isola dell’emisfero occidentale e il nostro mondo – che è il mondo dell’emisfero orientale – non si è certo esaurito in illo tempore, per usare un’espressione cara ad Eliade, ma si ripresenta drammaticamente in hoc tempore ipso, nel nostro tempo stesso, cosicché il mito vive nella storia contemporanea e gli elementi della geografia mitica e sacra si velano e si rivelano nella geopolitica.
Dunque la dialettica Oriente-Occidente, che in Platone si presenta nei termini della primordiale opposizione Mediterraneo-Atlantide, tradotta in termini geopolitici si presenta come antagonismo fra l’Occidente e l’Eurasia. Per quanto poi concerne la questione che ci siamo posti circa l’Europa e il suo rapporto con l’Occidente, il mito platonico dà una risposta chiarissima: lo spazio che si trova al di qua delle Colonne d’Eracle non è Occidente. D’altronde sarebbe sufficiente osservare il planisfero di un qualunque atlante geografico, per rendersi conto che l’occidente della geografia terrestre coincide con il continente americano e con le acque oceaniche che lo circondano, mentre l’Europa si trova nell’emisfero orientale ed è parte integrante di quell’unità continentale che la geografia definisce come Eurasia.
Per quanto riguarda l’Iran, la Russia e la Cina, mi sembra riduttivo dire che questi Stati “tendono ad affermare la loro posizione su scala locale”. Questo è sicuramente vero, ma la funzione che essi svolgono è più ampia, in quanto costituiscono un vero e proprio triplice presidio a difesa del continente eurasiatico. Quanto all’Iran, la sua funzione geopolitica consiste nel costruire tra l’Asia Centrale e l’Oriente mediterraneo un blocco capace di respingere l’aggressione atlantica e di contendere l’egemonia sul Vicino Oriente al più pericoloso avamposto dell’imperialismo nordamericano: il regime sionista che occupa la Palestina. La Russia, nonostante il crollo dell’Unione Sovietica e nonostante la penetrazione della NATO fino ai suoi confini occidentali, continua ad estendere il suo immenso territorio da San Pietroburgo fino a Vladivostok. La Cina, come avvertiva il generale Jordis von Lohausen, è in grado di resistere a tutti i tentativi di intrusione; ha accumulato tutta l’esperienza della storia mondiale e resiste ad ogni trasformazione. La Cina è inattaccabile. Probabilmente la Nuova Atlantide sarà costretta a rendersene conto.
Daniele Perra – Se si considera da un punto di vista esclusivamente geografico solo la massa continentale eurasiatica, appare evidente che l’Europa ne rappresenta l’estremità occidentale. Secondo tale prospettiva, come affermava ancora una volta Heidegger nella celebre Lettera sull’Umanismo, l’Occidente (inteso come Europa) non può in alcun modo essere pensato come assolutamente contrapposto all’Oriente[11]. L’Esser-ci greco, ad esempio, percepì il confronto con quello orientale quasi come una “necessità”.
Volendo porre la cosa in termini di “Tradizione”, si potrebbe affermare che la “via dell’azione” (Occidente) non può essere scissa dalla “via della contemplazione” (Oriente). Non può esservi agire senza pensare; non può esservi gihad minore senza gihad maggiore (utilizzando una terminologia islamica). Una caratteristica che accomunava il mondo greco-romano a quello sinico-confuciano era proprio il fatto che al pensiero (ed alla parola scritta o pronunciata) dovesse necessariamente fare seguito l’azione.
Oggi, in quello che attualmente viene chiamato “Occidente”, l’agire è un agire meramente tecnico, privo di pensiero iniziale. Ecco, questo “Occidente”, di cui l’Europa altro non è che la periferia imperiale, è totalmente contrapposto all’Oriente. In questo “Occidente”, l’agire viene valutato solo in base alla sua capacità di produrre “profitto”. È la “civiltà del denaro” e della materia che si oppone alla “civiltà della fede”. L’uomo occidentale, immerso nella tecnica, tralascia di pensare la dimensione in cui ci si pone la domanda sul divino autentico (che poi è la dimensione della geografia sacra). O, se lo fa, lo fa rivolgendosi al luogo sbagliato e nel momento sbagliato. Così, ci si ritrova travolti da un lato dal più becero progressismo e, dall’altro, da quel conservatorismo che richiede la preservazione di presunti valori “giudaico-cristiani” che sono semplicemente il prodotto di quella che René Guénon avrebbe definito come una “contraffazione ideologica”.
Il “polo” di attrazione geopolitica di questo “Occidente”, che non ha timore ad identificarsi in una dimensione geografica a cui le civiltà tradizionali attribuivano un connotato demonico (di decadenza e morte), è naturalmente l’America. E se si osserva da vicino l’attuale “conflitto” (se così si può chiamare) tra le differenti fazioni interne al centro imperiale, si può meglio comprendere la correttezza dell’intuizione guenoniana.
Da un lato, ci sono i progressisti che rivendicano la loro superiorità morale in quanto progressisti; dall’altro, ci sono conservatori di varia natura (trumpisti e “qanonisti” compresi) che invocano la loro superiorità morale in quanto conservatori; eredi della tradizione puritana, della retorica del nuovo esodo biblico e della Nuova Israele che nasce in totale contrapposizione all’Europa. Entrambi sono fermamente convinti che l’America, nella sua interezza, sia il Messia: un Messia “laico” nel primo caso; uno “giudaico-evangelico” nel secondo, di cui Donald J. Trump, per taluni, dovrebbe essere una sorta di “profeta”. Inutile dire che l’idea del “Messia collettivo” è puramente moderna. Questa, infatti, ha la sua origine in alcune forme deviate di messianismo direttamente riconducibili a certi gruppi estremisti ebraici.
Questa idea di totale contrapposizione all’Europa è fondamentale perché, di fatto, su di essa l’America ha sviluppato la sua stessa essenza geofilosofica. L’idea di “destino manifesto”, o di pax Americana, sono estremamente connessi alla citata convinzione dei migranti puritani di rivivere l’esodo biblico e di costruire in terra la “Gerusalemme celeste”. Questa convinzione è in qualche modo ricollegabile alla geografia sacra. Guénon, infatti, parla espressamente di “centri spirituali” che possono essere utilizzati alla rovescia, “per scopi contrari ad ogni spiritualità”[12].
Applicando tale nozione alla geopolitica, appare evidente inoltre come un “polo” geopolitico possa essere portatore di una spiritualità contraffatta o, al contempo, essere capace di de-spiritualizzare i centri sacri primari. I casi eclatanti, in tal senso, sono: quello di Gerusalemme occupata dai sionisti; della Mecca occupata dalla setta eterodossa anti-tradizionale wahhabita; oppure del Giappone occupato dagli USA al termine del secondo conflitto mondiale, quando il tennō (il sovrano celeste), fondamento dell’ideale imperiale nipponico, fu costretto a rinunciare alla sua natura di principio politico e divino.  
Questo riferimento al Giappone permette, in qualche modo, di ricollegare il discorso alla contemporaneità. Precedentemente si è avuto modo di citare il grande orientalista Giuseppe Tucci. Questi invitò all’ISMEO (Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente) il generale, professore e studioso di geopolitica tedesco Karl Haushofer che il 6 marzo 1941 (dunque, in pieno conflitto) tenne una conferenza il cui contenuto è stato pubblicato qualche anno fa dalle Edizioni all’insegna del Veltro col titolo Lo sviluppo dell’idea imperiale nipponica (Parma 2004).
Haushofer, in tale conferenza, descrisse come l’obiettivo dell’Impero del Sol Levante, a partire dagli anni ‘30 del XX secolo, fosse quello di costruire un’area di cooperazione panasiatica capace di eliminare l’ingerenza delle potenze talassocratiche, mercantiliste e democratiche anglosassoni in Oriente.
Il Giappone, come noto, fallì nel suo intento non solo a causa dell’atomica, ma, soprattutto, per l’errore di calcolo del proprio Stato Maggiore militare, convinto di poter ottenere una rapida vittoria contro gli Stati Uniti. Tuttavia, tale obiettivo era difficilmente raggiungibile per il semplice motivo che la produzione industriale nordamericana non poteva essere in alcun modo scalfita dagli attacchi aerei giapponesi.
Oggi, la Cina sta cercando di fare esattamente la stessa cosa: costruire un’area di cooperazione eurasiatica libera dall’ingerenza della talassocrazia statunitense. E sta cercando di farlo usando anche il vettore marino, pur rimanendo sostanzialmente, alla pari del Giappone imperiale, una potenza tellurica.
Haushofer, a suo tempo, criticò l’estremo espansionismo militare nipponico. La Cina, al contrario del Giappone, intende costruire tale cooperazione attraverso una politica commerciale dove non ci siano un vincitore ed uno sconfitto. Essa si pone in opposizione alla tradizionale concezione talassocratica in cui il vettore marino serve per asservire e depredare. Mari e fiumi devono unire e non dividere, trasformandosi così in una sorta di vera e propria “frontiera vivente”. E la Cina, rispetto al Giappone degli anni ’30 e ’40, ha un vantaggio fondamentale: una produzione industriale non paragonabile a quella nordamericana ed una capacità militare che, in caso di conflitto diretto, le potrebbe permettere di colpire obiettivi strategici e sensibili sul suolo statunitense.
Ciò in cui è debole, e l’“Occidente” estremamente forte, è il lato della propaganda. Quella propaganda che, ad esempio, ci dice che la Cina minaccia l’“Occidente” nel Mar della Cina, magari perché rivendica i propri diritti su arcipelaghi che da millenni rientrano nello spazio geo-economico sinico; quella propaganda che, oggi, chiede una “nuova Norimberga” (quindi, un nuovo processo farsa) per imporre dei risarcimenti economici sulla base di non meglio precisate teorie sulla paternità cinese di un virus che, in realtà, sembra essere in circolo da molto prima della sua apparizione a Wuhan[13].
Per quanto riguarda la questione di Ἁγία Σοφία, l’ex basilica rientra nel novero di quei centri spirituali che emanano un’influenza sia sull’ambito sovrasensibile che su quello sensibile. Per la Cristianità orientale rappresenta il centro del mondo, un luogo di congiunzione tra cielo e terra; e nella sua pavimentazione è indicato con ampi segni circolari il luogo di apparizione della Vergine Maria. Alcune leggende greco-ortodosse, inoltre, raccontano che l’ultimo Imperatore bizantino Costantino XI Paleologo vive ancora, in una condizione di occultamento simile a quella di Muhammad al-Mahdi (ultimo Imam dello sciismo duodecimano), in un luogo sotterraneo dal quale ritornerà nel momento in cui la basilica verrà restituita alla sua fede originaria.
Come molti altri centri spirituali, la basilica ha subito un inesorabile processo di desacralizzazione nel corso del tempo. Può essere letta in tale modo anche la sua conversione in museo da parte del regime laico e modernista di Mustafa Kemal, dopo che la cattedrale, divenuta moschea, aveva rappresentato per circa mezzo millennio il luogo di culto primario di una istituzione imperiale che si ergeva ad erede politica di Bisanzio.
Tuttavia, c’è un altro aspetto da considerare. Una voce controcorrente dell’Islam contemporaneo, quella dello Shaikh Imran Hosein, sostiene non solo l’erroneità della scelta di riconversione in moschea attuata dal governo turco (da lui percepita come un vero e proprio tradimento della Sunna profetica)[14], ma anche il fatto che tale errore sia il prodotto di quello che definisce come l’atto più vergognoso della storia dell’Islam: la conquista ottomana di Costantinopoli[15]. Infatti, secondo la sua interpretazione dei Testi Sacri, la conquista islamica della città si sarebbe dovuta compiere in prossimità dei tempi ultimi, non prima. E ad essa avrebbe dovuto far seguito l’apparizione del Dajjal (il messia impostore, figura centrale dell’escatologia islamica). Dunque, la presa ottomana avrebbe un valore meramente politico e non religioso[16]. Perciò la recente decisione del governo turco sarebbe anch’essa esclusivamente politica.
Ora, senza considerare il ruolo geopoliticamente nefasto di quel Patriarcato di Costantinopoli che nel corso degli ultimi anni si è messo in mostra per il suo totale asservimento (dietro lauto compenso) agli interessi della NATO (si veda la concessione dell’autocefalia alla Chiesa ortodossa ucraina), a lasciare ancora una volta perplessi sono il tradizionale doppiopesismo e l’ipocrisia “occidentali”. È chiaro che la scelta turca, nonostante i proclami, è stata gradita da coloro i quali gioiscono per un eventuale scontro tra Islam e Cristianità ortodossa. Allo stesso tempo, nessuno in “Occidente” ha mai alzato un dito in difesa di quei cristiani del Levante che subiscono quotidiani soprusi di vario genere da parte delle forze di occupazione sioniste o dei gruppi takfiri (allevati da CIA e Mossad) che hanno portato la guerra in Siria e ed in altre aree limitrofe.
L’islamofobia rimane un pilastro della costruzione ideologica dell’Occidente. Tuttavia, sarebbe bene ricordare che in 1300 anni di convivenza (più o meno bellicosa) nello spazio mediterraneo ed orientale con l’Islam, l’Esser-ci europeo non è stato in alcun modo minato. Anzi, ha avuto modo di arricchirsi enormemente. Settantacinque anni di “Occidente” l’hanno completamente annichilito.

NOTE

[1] La “geografia visionaria” è quella inerente il mundus imaginalis: ciò che i mistici sufi, ad esempio, chiamerebbero la “patria delle visioni celesti”. È il luogo dell’immaginazione creatrice, dove avvengono le esperienze teofaniche e profetiche. All’ambito della geografia visionaria pertiene, a titolo esplicativo, il viaggio notturno del Profeta Maometto “dal Tempio sacro (La Mecca) al Tempio più remoto (Gerusalemme)” (Corano, Sura XVII).

[2] M. Heidegger, Hölderlin. Viaggi in Grecia, Bompiani, Milano 2012, p. 13.

[3] G. Tucci, Il Buddismo, Edizioni Ghibli, Milano 2013, p. 194.

[4] Full text of Joint Statement on Comprehensive Strategic Partnership between I.R. Iran and P.R. China, www.president.ir.

[5] Intervista all’hojjatolislam Abolfazl Emami Meybodi, a cura di C. Mutti, “Eurasia”, 1/2018, genn.-marzo 2018.

[6] Oltre alla cosiddetta “Scuola di Francoforte”, tale interpretazione è stata fatta propria, seppur in modo meno “distorsivo”, dallo scrittore greco Nikos Kazantzakis, autore di un vero e proprio “seguito” dell’Odissea (in versi) in cui viene ripreso lo stereotipo dell’Ulisse modernista assettato di avventura e “conoscenza” (da non intendersi in termini di conoscenza sacra).

[7] M. Heidegger, Hölderlin. Viaggi in Grecia, ivi cit., p. 37.

[8] M. Granet, Il pensiero cinese, Adelphi Edizioni, Milano 1975, p. 94.

[9] W. Kubitschek, Limes, in Enciclopedia Italiana, 1934.

[10] Il geopolitico italiano Carlo Terracciano riteneva che Kerbala (luogo del martirio dell’Imam Hussein), oltre ad essere un luogo di primaria importanza nella geografia sacra dell’Islam, rappresentasse anche la linea di confine tra due differenti forme di Islam: quello dei beduini nomadi del deserto e quello dell’altopiano iranico profondamente influenzato dalla cultura indoeuropea.

[11] M. Heidegger, Lettera sull’Umanismo, Adelphi Edizioni, Milano 1995, p. 23.

[12] R. Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Adelphi Edizioni, Milano 1982, p. 201.

[13] Si veda ‘Trump owes us an apology’. Chinese scientist at the center of Covid-19 origins theories speaks out, www.sciencemag.org.

[14] “Se la preghiera non può essere svolta in conformità e nel rispetto della Sunna – afferma Imran Hosein – si sospende la preghiera. Non si tradisce la Sunna”.

[15] Come noto, Imran Hosein è uno strenuo difensore dell’alleanza tra Cristianità ortodossa ed Islam in chiave anti-occidentale. Alleanza di cui ritrova i fondamenti nello stesso Corano. A questo proposito, ha constatato, altresì, come gli unici Paesi islamici che stiano perseguendo attualmente tale via siano l’Iran ed il Pakistan.

[16] Si veda I. Hosein, Constantinople in the Qu’ran, su www.imranhosein.org.