Dalla selva primitiva al deepfake: il ruolo della maschera nella società postmoderna
di Giancarlo Chiariglione - 07/04/2025
Fonte: Arianna editrice
Lo scrittore e critico Marco Belpoliti, citando l’arguto e influente filosofo tedesco Thomas Macho, notava come l’uomo odierno occidentale, ormai globalizzato, viva in una sorta di “società facciale”, la quale possiede la prerogativa di produrre volti senza sosta. A ogni angolo di strada, su ogni tabellone, su ogni schermo TV o PC, infatti, la pubblicità ci insegue con i volti più disparati, tanto che noi stessi, volti anonimi, siamo ormai diventati consumatori voraci di volti più o meno celebri, di maschere, sui quali la società ha proiettato la propria struttura di potere .
Il Volto, nella sua duplice valenza di soggetto e oggetto di sguardi, è uno dei simboli più importanti della vita umana, e per tale ragione anche della filosofia e teologia ebraica e cristiana. La variegata terminologia che nelle diverse lingue è connessa al volto, infatti, non solo dà luogo ad una ricca metaforologia poetica, ma attraverso vari passaggi di affinamento linguistico, contribuisce ad esprimere alcuni fondamentali concetti della filosofia della teologia . Il volto di cui parliamo è, ovviamente, quello umano; che è simbolo della persona, dato che se i volti si possono somigliare, ciascuno è irripetibile . Il volto, ulteriormente caratterizzato dal suo “sguardo”, è situato nel lato più visibile del capo (e quindi più vicino al cervello), in una zona ad alta concentrazione percettiva, in cui si trovano gli organi della vista, dell’udito, del gusto, dell’olfatto: la pelle e le mucose di questa zona hanno infatti una particolare sensibilità tattile.
La maschera, viceversa, porta subito a riflettere sul dualismo “essere e apparire” nel quale essa, portavoce dell’apparenza, occulta o permette di far venire alla luce una parte dell’essere umano che, fino a quel momento, era rimasta nell’oscurità. La maschera, infatti, tende a rappresentare quasi sempre una deviazione dello spettatore dalla realtà e dalle verità del mondo: come ricorda anche William Shakespeare quando scrive «Nascondi ciò che sono e aiutami a trovare la maschera più adatta alle mie intenzioni» .
La maschera, nata nella selva, nel rito primitivo, di natura materiale, rigida, morta , aveva una funzione sacra e liberatoria: indossandola si esorcizzava ciò che si temeva (la Morte) o si impersonava (‘persona’, in latino indicava la maschera dell’attore e quindi il personaggio da lui interpretato) ciò che si desiderava (il Potere). Quando negli antichi riti festivi un giovane contadinello impersonava il Re (piuttosto che la morte), catalizzava in pratica nella sua persona i desideri di una comunità in ordine al Potere. Il transfert, che poteva avvenire attraverso un “attore” ma anche tramite un pupazzo (ad esempio il famoso Re Carnevale) , consentiva al collettivo di ritagliarsi l'agone per mettersi in scena; per essere l'oggetto paventato o agognato. Ma la teatralizzazione pubblica del Potere, dell'autorità e dei suoi simboli, quest'avventura immaginaria del soggetto e del collettivo è, appunto, chimerica, improduttiva, fondamentalmente segnata da una mancanza ad essere. Gli antropologi hanno infatti solitamente considerato i riti del “mondo alla rovescia”, in cui quelli che non hanno nessun potere inscenano per un certo lasso di tempo il medesimo, come un meccanismo in virtù del quale gli oppressi possono dare libero sfogo a frustrazioni e ostilità represse, lasciando però inalterato lo status quo strutturale . La festa non riguarda quindi il rapporto servo/padrone dal punto di vista della presa del potere-reale , così come Re Carnevale non è la messa (in scena) alla berlina del Re-reale, ma il tentativo sul registro dell'immaginario di padroneggiare il Re come fantasma di Re. Prefigurando infatti che la Verità del Potere sia inscenabile, attore e comunità, tramite l'allegoria del rito festivo, elaborano un enunciato che pone in scena il Potere. Esso è però il fantasma del Potere reale, tanto che questo, ricomparendo come “effetto di ritorno” nella rappresentazione, determina l'avvento del rovescio del Carnevale: la Quaresima.
Ai nostri giorni, se abbiamo ormai acclarato il fatto che molte dittature novecentesche hanno abilmente “solleticato”, alimentato e poi gestito il desiderio politico del cittadino di primeggiare, di sovvertire lo status quo , siamo allo stesso modo consapevoli che la “baraonda sessantottesca” della marea contestataria autoproclamatasi Potere, è stata infine bloccata e orientata verso quel conformismo, verso quel consumismo propagati dalla trionfante société du consume e du spectacle . Addirittura, si può affermare che l’uomo odierno, sempre più isolato e dominato da una tecnologia massmediatica che, se da un lato fornisce l’illusione dell’«onnipotenza informativa», dall’altro rende sterile qualsiasi possibilità di azione concreta ed efficace in ambito sociale; totalmente alla mercè del Potere reale riaffacciatosi più agguerrito che mai (un potere simbolizzato da quell’élite liberale e cosmopolita di tecnocrati, manager e agenti della comunicazione che determinano il destino delle nostre società) , tende ad indossare una maschera postmoderna, la quale assume i tratti di una inedita Gorgone che ammalia e pietrifica. Ma più spesso di una sorta di clown indifferente verso qualsiasi identità, tabù sessuale e verso lo stesso concetto di perversione: verso ogni ordine e gerarchia sociale.
Stiamo parlando dell’avvento della società dei simulacri, tappa inevitabile della “fine della storia” di cui parla Fukuyama . Una società nella quale la polarità destra/sinistra viene via via sostituita dal dualismo centro (conformismo)/periferia (dissenso). Una società caratterizzata dalla liquidità del global market, dove tutto è sovrastruttura e l’istanza di liberazione tradizionalmente incorporata nell’idea classica di rivoluzione, viene inglobata dal sistema e addomesticata al suo interno. Una società dove i conflitti sono ridotti al minimo e dove, appunto, tutti possono esibirsi digitalmente («Nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per quindici minuti» diceva Andy Warhol nel 1968), attraverso maschere che nascondono identità frammentate e multiformi .
Nomadi senza un preciso destino che non sia quello di consumatori-zombie, gli uomini postmoderni, gli esseri modulari di cui parla Bauman, brancolano tra un edonismo esasperato e il terrore dell’indigente, il quale rappresenta ciò che potrebbe capitare in ogni istante. E si travestono, si occultano utilizzando i nuovi media, all’insegna di un inquietante “carnevale perenne”, alimentato da continue manipolazioni di immagini e di video prodotte dalla cosiddetta intelligenza artificiale: a questo proposito si pensi alla tecnica del deepfake, tramite cui è possibile sostituire il volto di un soggetto con quello di un altro soggetto, imputando così a quest’ultimo atti ed azioni commessi da altri nella realtà.
Un mondo con sempre meno volti e sempre più maschere, dunque. Un mondo nel quale è sempre più ininfluente appartenere a precise cerchie sociali, tali per cui, al primo sguardo che si rivolge a qualcuno, si sa già con chi si ha a che fare . La tecnologia, come detto, è andata troppo avanti. In tal senso, molto aveva compreso il linguista e semiologo francese Roland Barthes (Cherbourg, 1915 – Parigi, 1980), per il quale, tramite l’avvento della cosiddetta “età della Fotografia”, prodromica alla nascita dell’attuale sistema mass-mediatico, vi era stata una progressiva irruzione del privato nel pubblico, o piuttosto la creazione di un nuovo, inquietante, valore sociale: la pubblicità del privato. Un privato però “cristallizzato”, “falsificato”, “sintetico”; dato che nel ritratto fotografico il tempo è ostruito ed è impedito il flusso della vita nella sua continuità e spontaneità. Così come è impedita ogni catarsi; addirittura la dimensione del Tragico . Il ritratto fotografico, infatti, rappresenta quel particolare momento in cui io non sono né un oggetto né un soggetto, ma piuttosto un soggetto che si percepisce diventare un mero oggetto.
Lo studioso francese parla, appunto, di una sorta di “effetto-Thanatos”, per cui noi fotografiamo i vivi (ora noi stessi attraverso i famosi “selfie”), senza pensare che saranno ricordati come morti: moltiplichiamo a dismisura il nostro già corposo archivio d’immagini, producendo inconsapevolmente maschere di morte. E Barthes, ci era arrivato decenni prima della creazione di Facebook, Tik Tok, Instagram, WeChat, Douyin, LinkedIn, YouTube, WhatsApp… Praticamente un profeta.
Note
1. Marco Belpoliti, Dalla fotografia al web in un mondo di volti siamo tutti maschere. Riprendendo il filo di una riflessione cara a Barthes lo studioso tedesco Hans Belting analizza la nostra società di facce. È l’anonimato il destino dell’immagine riprodotta, «La Stampa», 30/12/2014.
2. Classico è l’approccio ebraico di Emmanuel Lévinas, che nella terza sezione di Totalità e Infinito (Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, del 1961), tratta di Volto ed esteriorità. Lévinas usa però una simbologia diversa da quella tradizionalmente agostiniana: l’esteriorità per lui è l’alterità intesoggettiva, non la corporeità. Per il filosofo ebraico-francese, infatti, l’Altro è una rivelazione concessa in particolare dal volto, che è il mezzo di comunicazione primo e lo strumento attraverso il quale l’umanità di ciascuno si palesa. Il volto dell’Altro, infatti, sfugge al pensiero, alla forma e rivela “tracce di infinito”, Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Jaca Book, 2023.
3. Emblematicamente, nella Bibbia, troviamo scritto «Come un volto differisce da un altro, così i cuori degli uomini differiscono fra di loro» Proverbi 27:19.
4. William Shakespeare, La dodicesima notte (atto I, scena II).
5. Lo studioso Pizzorno ricorda che la maschera e la morte sono state in connessione fondamentale sin dal principio, dato che il modello originario di tale oggetto sarebbe stato «il teschio umano o il cranio di un animale», Alessandro Pizzorno, Sulla maschera, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 27.
6. Dice Hillman «La pittura rupestre dei primitivi, i volti degli aborigeni, il teatro greco e quello giapponese, sono tutte dimostrazioni che la maschera contiene ed emana un'effettiva capacità di agire [...] Attraverso la maschera è presente qualcosa che va oltre l'umano, si recita un dramma più elevato e vengono evocati poteri più grandi. Questi poteri giungono attraverso l'atteggiamento, la voce, attraverso quello che colui che indossa la maschera dice, e ne aumentano la statura, gli conferiscono importanza. Dentro questa persona (nel senso latino) potrebbe anche non esserci nessuno o magari soltanto un modesto commediante [...] e tuttavia, anche se la si guarda dentro, [...] quella persona conserva una posizione di potere». James Hillman, Forme del potere, Garzanti, Milano, 1996, pp. 100-101.
7. Antesignano di Pulcinella & Co. (e loro proto), burlesca figura derivata dall'antico Re dei Saturnali, Re Carnevale era inizialmente impersonato da un uomo che veniva sacrificato per il bene della collettività. Col tempo però si adottò un fantoccio di paglia che la sera del martedì grasso veniva bruciato come una specie di vittima designata.
8. Il valore di tali riti è psicologico: riducono il livello di ansia nelle persone, suscitano in esse la benefica impressione di esercitare un qualche controllo sulla propria esistenza (mentre le autorità imitate, dileggiate da tali manifestazioni, generalmente se ne stanno semplicemente a guardare). Tale spiegazione richiama quella dell'antropologo Bronislaw Malinowski a proposito dei riti magici (in uso per esempio tra gli abitanti delle isole Trobriand). Per lo studioso polacco «tipico della magia è l'esecuzione del rito in circostanze in cui risulta importante ottenere un risultato positivo, ma gli individui non hanno, oggettivamente, controllo alcuno sugli eventi; nonostante la loro impotenza, essi avvertono però l'esigenza di fare qualcosa; ciò li rassicura e dà loro la sensazione di avere un qualche controllo sul loro destino». David I. Kertzer, Riti e simboli del potere, Sagittari Laterza, Bari, 1989, pp. 175-176.
9. «Il rancore del Servo si consuma nell'identificazione fugace con le imagines del Padrone» asserisce in relazione a questo aspetto Alessandro Fontana. A. Fontana, in Storia d'Italia, I, Einaudi, Torino, 1972, p.805.
10. Per provare a spiegare l’effettiva, innegabile identificazione delle masse popolari d’Italia nei confronti di Benito Mussolini, lo scrittore Camillo Berneri (1897-1937), si soffermò sulla maschera del fondatore del fascismo (diversa da quella bonaria di Stalin che celava però un carattere talvolta spietato e aggressivo); su quegli atteggiamenti istrioneschi e “nazionalpopolari” che tanta importanza ebbero per la sua affermazione, Camillo Berneri, Mussolini grande attore. Scritti su razzismo, dittatura e psicologia delle masse, Spartaco editore, 2007.
11. Emblematicamente, il Presidente della Repubblica Charles de Gaulle, suggellò l’ordine di spazzar via i moti sessantottini del “Maggio Francese”, attraverso una perentoria affermazione passata alla storia: «Le Carnaval est fini».
12. Il Sessantotto, nato con la giustificazione della rivolta contro un sistema ritenuto ingessato, oppresso dai retaggi conservatori del passato e antidemocratico, finì di fatto per ipostatizzare e materializzare tutte le tesi della società dello spettacolo, a cominciare da una rivolta emozionale fondata su faglie labili o liquide del tipo “vecchio” contro “nuovo”, “progresso” contro “reazione”, “doveri” contro “diritti”, “vecchi” contro “giovani" e via dicendo. A questo proposito, si consiglia la lettura dell’illuminante testo di Guy Debord, La società dello spettacolo, Massari Editore, 2002.
13. Negli ultimi decenni del secolo scorso, le oligarchie dominanti, che hanno ormai sviluppato una visione turistica del mondo, hanno operato uno scatto in avanti per lasciarsi dietro le spalle moltitudini di reietti e, soprattutto, una middle class ritenuta tecnologicamente arretrata, politicamente reazionaria, repressiva nella morale sessuale, retriva nei gusti culturali, Christopher Lasch, La rivolta delle élite. Il tradimento della democrazia, Neri Pozza, 2017.
14. Nell’estate del 1989, quando il Muro di Berlino era ancora in piedi ma il comunismo stava collassando, Francis Fukuyama (Chicago, 27 ottobre 1952), giovane e brillante politologo statunitense, affermò che la Storia era finita. Egli, in sostanza, vide l’umanità incamminarsi verso l’unico, inevitabile destino da cui non si sarebbe più affrancata e oltre il quale non sarebbe più potuta andare, quello della democrazia liberale, Francis Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992.
15. A fronte del proliferare dei social media e della moltiplicazione delle identità digitali caratterizzate, ad esempio, da fotoritocchi; sociologi, psicologi e psichiatri denunciano allarmati fenomeni come la “selfie dysmorphia”, una condizione in cui non si è più in grado di distinguere la propria immagine reale da quella postata sui social network. Con gravi risvolti psicologici e disturbi della personalità.
16. Tramite l’espressione uomo modulare, Bauman intende un individuo che in ogni occasione si munisce di una forma diversa, che cambia senza sosta, che assume una pluralità di maschere, ruoli, stili temporanei, magari anche in esplicita contraddizione tra loro, Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, 2000, pp. 159-163.
17. Il filosofo e sociologo tedesco Georg Simmel, che aveva già rilevato una crescente “estetizzazione” delle relazioni sociali, notava come il volto di un uomo facesse in modo che di costui si comprendesse il suo status, il suo ruolo sociale, già al suo apparire. A tal proposito, Simmel, infatti, afferma «Si resterà meravigliati di quanto sappiamo di un uomo al primo sguardo che gli rivolgiamo», Georg Simmel, (1908), Sociologia, Edizioni di Comunità, Milano, 1989, p. 552.
18. Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it. a cura di R. Guidieri, Einaudi, Torino, 2003, p. 91.