Dante ci chiede una rivoluzione cognitiva: se Dio è un punto, tutti i nostri ordini di grandezza vanno rovesciati
di Leonardo Lugaresi - 09/03/2023
Fonte: Leonardo Lugaresi
Dante ci chiede una rivoluzione cognitiva: se Dio è un punto, tutti i nostri ordini di grandezza vanno rovesciati, come “potenti dai troni”. (#Dante, Paradiso, canto XXVIII, vv. 22-96)
Quel puntino su cui ci siamo fermati la volta scorsa, che è Dio!, ha attorno a sé «un cerchio d’igne / che girava sì ratto, ch’avria vinto / quel moto che più tosto il mondo cigne» (vv. 25-27), cioè più veloce del movimento del nono cielo, quel Primo Mobile in cui ci troviamo, «e questo era d’un altro circumcinto, / e quel dal terzo, e ‘l terzo poi dal quarto, / dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto» (vv. 28-30: occhio al v. 30, se sei Dante puoi permetterti fare un verso composto solo di aggettivi numerali che poeticamente funziona alla grande!). Seguono gli altri tre cieli, e tutti e nove sono progressivamente sempre meno veloci di mano in mano che cresce la distanza dal centro, quindi la loro circonferenza. Che razza di visione cosmica è mai questa? Tutti abbiamo sempre saputo che al centro del cosmo di Dante c’è la terra, circondata da nove sfere celesti che ruotano via via sempre più velocemente in proporzione al loro dilatarsi verso “l’esterno” e verso l’alto, là dove al di là di tutto c’è Dio, nell’Empireo che è, se così si può dire, “fuori”, o se si preferisce “al di sopra” dei nove cieli: comunque all’estrema periferia di quel modello cosmico che illustrano, piantandolo per sempre nella mente degli studenti, i disegni immancabilmente esibiti nelle prime pagine da ogni edizione scolastica della Commedia che si rispetti. Ora invece pare che Dio sia “dentro”, e i cieli che più ardono del suo amore e della sua forza siano quelli più piccoli …
È il momento di spiegare che quel bel disegnino che tutti conosciamo e che migliaia di professori giurano essere il “cosmo tolemaico di Dante”, non va affatto preso come una descrizione reale dell’universo (da guardare con un sorrisino post-copernicano di compatimento, oltretutto, dato che di astronomia riteniamo di saperne a pacchi più di lui), bensì come un mero modello interpretativo, da adoperare quando serve, cioè finché consideriamo le cose dal nostro punto di vista terrestre, ma poi da abbandonare a favore di una visione completamente rovesciata in cui noi, coi piedi piantati nell’«aiuola che ci fa tanto feroci», non siamo affatto al centro di un bel niente ma semmai all’estrema periferia di tutto, o se si vuole quasi nel punto più basso (sotto di noi, infatti al centro della terra, c’è solo l’inferno, «l’infima lacuna de l’universo»).
La forma e la dinamica della visione che ora Dante contempla è molto più “reale” e “vera” di quella che continuiamo a spacciare come “la cosmologia dantesca”. Lui stesso di primo acchito ne resta sconcertato, tanto che Beatrice deve intervenire: «La donna mia, che mi vedëa in cura / forte sospeso, disse: “Da quel punto / depende il cielo e tutta la natura. // Mira quel cerchio che più li è congiunto; e sappi che ‘l suo muovere è sì tosto / per l’affocato amore ond’elli è punto» (vv. 40-45). La rima equivoca di «punto» tira con forza l’attenzione anche del più distratto dei lettori su quella parola, che già individuammo nel precedente commento come la vera chiave del canto. Siamo ricondotti, come si dice, al punto: quel punto che è Dio, cioè il Tutto, e che non può che essere il centro di tutto.
Dante però non è ancora convinto e vuole vederci chiaro: perché allora il mondo sensibile è fatto a rovescio, rispetto all’«ordine ch’io veggio in quelle rote?» (v. 47). Nel cosmo, infatti, le sfere celesti sono tanto più vicine a Dio e perciò tanto più veloci nel movimento – come Beatrice ha detto – quanto più sono grandi e lontane dal centro. Non si capisce dunque come mai «l’essemplo / e l’essemplare non vanno d’un modo» (vv. 55-56). È solo nell’ordine della materia, gli spiega Beatrice, che «maggior bontà vuol far maggior salute; / maggior salute maggior corpo cape» (vv. 66-67): più grandi sono i cieli, maggior quantità contengono della virtù divina che li fa muovere, e infatti il più grande di tutti, il Primo Mobile, «corrisponde / al cerchio che più ama e più sape» (vv. 71-72). Ma se dall’ordine della materia passiamo a quello dello spirito e consideriamo la forza divina in se stessa e non «la parvenza / de le sustanze che t’appaion tonde» (vv. 74-75), si vedrà che essa corrisponde mirabilmente al grado di perfezione delle intelligenze angeliche, che è tanto maggiore quanto più sono vicine al punto da cui tutto dipende. Dunque, per noi paradossalmente, sono tanto più spiritualmente grandi quanto più appaiono piccole se ci sforziamo di immaginarle materialmente come circonferenze concentriche al punto-Dio.
È un’ultima conversione dell’intelletto, una vera e propria rivoluzione cognitiva, quella che Dante ora ci chiede: per noi, che viviamo nel mondo corporeo, l’eccellenza è infatti concepibile solo come grandezza. Anche Dio, quando lo pensiamo, non sappiamo immaginarcelo se non come infinitamente grande. Ma se la rappresentazione meno inadeguata che il poeta sa trovare per descrivere Dio è un punto, non significa forse questo che dovremmo immaginarlo ancor meglio come infinitamente piccolo? E questa scoperta non “abbatterà dai troni” tutte le nostre gerarchie e scale di valori? Il Magnificat, in questa logica, non sarà il vero manifesto della rivoluzionaria metanoia a cui Dio rivelandosi ci chiama?
Questa rivelazione è come un vento impetuoso che pulisce da ogni «roffia», cioè da ogni crosta, l’orizzonte mentale di Dante, talché possiamo insieme con lui contemplare la limpida verità: «e come stella in cielo il ver si vide» (v. 87), e unirci al canto di osanna che gli angeli rivolgono «al punto fisso che li tiene a li ubi» (v. 95).