Dell’insignificanza semantica nel dibattito d’attualità delle parole “antifascismo” e “antifascisti”
di Luciano Lanna - 25/04/2023
Fonte: Luciano Lanna
Il Manifesto degli intellettuali antifascisti è stato pubblicato il 1º maggio del 1925 sui quotidiani "Il Mondo" e "Il Popolo" ed era stato redatto da Benedetto Croce. Ed era stato presentato come la risposta degli oppositori al Manifesto degli intellettuali fascisti, un precedente documento redatto da Giovanni Gentile nel marzo 1925. Fascismo vs. antifascismo: parliamo quindi di una disputa di quasi cento anni fa… Personalmente, non ricordo negli anni Settanta del Novecento nessuno discutere o accapigliarsi, che so, tra garibaldini e pontifici, o tra cavourriani e mazziniani. Eppure, nel 2023, lo stato del dibattito pubblico non riesce a fuoriuscire da questo assurdo e tossico passato che non sembra passare.
Per riuscire a rendere l’idea, mi piace ripercorrere l’itinerario e la riflessione sul tema di un grande filosofo, Augusto Del Noce, il quale riuscì ad affrontare meglio di altri l’interpretazione del binomio fascismo/antifascismo. Ricordiamo che, come tanti italiani del tempo, l’Augusto Del Noce ventiduenne, il 21 aprile 1932 aveva comunque preso la tessera – pur senza condividere la retorica e la cultura del regime – al Partito nazionale fascista, e che nel 1934 da neo-insegnante si era iscritto anche all’Istituto nazionale di cultura fascista e alla Associazione fascista della scuola; ma anche il suo amico Cesare Pavese, due anni più grande del giovane filosofo, aveva preso anche lui la tessera del Pnf. Questa era l’Italia degli anni del consenso al fascismo, soprattutto dopo la Conciliazione con la Chiesa… Poi, è anche ovvio che dentro di loro, i due erano lontanissimi dalle organizzazioni paramilitari del regime, dalla cultura patriottarda, dal giacobinismo e dalla religiosità civile intrinseci al fascismo. Interiormente, si sentivano di fatto antifascisti. Del Noce, ad esempio, si lega molto al filosofo Piero Martinetti: professore di Filosofia, si era distinto per essere stato uno dei pochi docenti, nonché l’unico filosofo universitario italiano, a rifiutarsi di prestare il giuramento di fedeltà al regime fascista. Poi, dopo l’aggressione all’Etiopia e le leggi razziali, Del Noce inizia quella che definirà la sua “fuga senza fine” da quello che gli appariva il male nella storia e nella politica. Di questo passo, dopo l’8 settembre e la fine del regime, tra il ’43 e il ’44, il giovane filosofo entra in contatto con l’organizzazione clandestina dei cattolici nell’Italia del Nord, allora territorio della Repubblica sociale italiana di Mussolini. Ma all’interno di questo osservatorio, il pensatore poté osservare direttamente i metodi di lotta praticati dagli azionisti e dai comunisti e, nel momento stesso in cui elaborava il personale rifiuto della lotta armata sulla base della sua adesione al rifiuto del cedimento al “principio della forza”, ebbe modo di distaccarsi dallo spirito della Resistenza. Spiegherà questo passaggio, nel 1978, nel corso di una lunga intervista con Giampiero Mughini, parlando della sua «incapacità ad accettare e vivere il passaggio dall’antifascismo morale alla guerra civile». La sua impressione fu che «la “guerra” divenisse il fine, non il mezzo. Al contrario di quel che aveva detto Lenin – trasformare la guerra in rivoluzione – la rivoluzione stava trasformandosi in una guerra…».
Da cui, il distacco delnociano dallo spirito della Resistenza, analogo a quello di un antifascista doc come Mario Vinciguerra, da lui definito «un antifascista al di sopra di ogni sospetto, che giudicò sbagliato elevare a mito quello che era stata pur sempre una guerra civile». Del Noce non riuscì mai a pensare, per dirla in un solo giudizio e con le sue precise parole, «che la Resistenza fosse il momento di una rifondazione morale degli italiani». Ammetterà Del Noce, in una confessione datata 1983, di essere stato da giovane «l’antifascista assolutamente risoluto, e perciò condannato all’autodistruzione, che non aveva aderito a nessuno dei movimenti che allora esistevano: Giustizia e libertà, comunisti, gruppi di Ginzburg o anche quello di Capitini». Fino a quando, negli anni della Resistenza, «mi separai dall’antifascismo». Tanto per dire che antifascismo e lotta di Resistenza non sono, e non sono state, la stessa cosa…
E tanto questo era per lui una consapevolezza che nel ’45, subito dopo la fine della guerra, avvia una collaborazione con il quotidiano “Il Popolo Nuovo”, con una serie di articoli il cui tema unificante era proprio l’inedita richiesta di un «superamento dell’antifascismo». Sin dal maggio ’45 Del Noce aveva chiaro che, per un oltrepassamento reale delle contraddizioni che avevano condotto sino alla tragedia della guerra, era necessario andare «al di là del fascismo e dell’antifascismo» e riuscire a inaugurare il “postfascismo”: la sola autentica politica di pacificazione necessaria all’Italia di quegli anni. Che veniva, in uno degli articoli, così caratterizzata: «Una politica di pacificazione […] di “oltre l’antifascismo”». La sua interpretazione del fascismo, connessa al giudizio storico sull’azionismo, era ancora in via di definizione, ma già prefigurava alcuni punti fermi che svilupperà negli anni nelle opere successive, come quello secondo cui il fascismo e l’antifascismo erano due fenomeni culturalmente complementari, che necessariamente dovevano tenersi insieme, avendo entrambi come matrice d’origine il fermento intellettuale espresso dalla rivista “La Voce”. Il movimento di Mussolini non gli appare affatto frutto dell’arretratezza culturale italiana, né un rigurgito di brutale barbarie da parentesi storica, ma l’espressione di un processo coerente della modernità. La sua natura profonda, scriveva Del Noce, è costituita dall’attivismo, che sacrifica tutto all’esigenza del fare. In quanto elevava la politica a valore supremo, il fascismo, era per Del Noce un fenomeno fortemente imparentato con l’antifascismo laico, in particolare con l’azionismo.
All’azionismo, in particolare alla sua componente di sinistra, da Del Noce definita “giacobina”, rimprovera un atteggiamento spirituale simile a quello dell’avversario politico sconfitto: l’insistenza degli azionisti sulla necessità di “sradicare il fascismo” gli appare potenzialmente intollerante e liberticida, perché rivolta in pratica contro tutti coloro che si oppongono al progetto azionista, considerati per ciò stesso sospetti di voler restaurare il passato regime.
Una testimonianza – degli anni Novanta – del figlio Fabrizio tratteggia molto bene il suo stato d’animo: «C’è una frase di Simone Weil che mio padre amava particolarmente: “Noi dobbiamo essere sempre disposti a cambiare di parte come la giustizia, questa eterna fuggiasca dal campo dei vincitori”. Lui certo ha sempre fatto così. Antifascista della prima ora, e soprattutto antifascista per ragioni morali dopo l’aggressione all’Etiopia e successivamente per le leggi razziali, adottò il termine “anti-antifascista” quando cominciò ad assistere a quell’indegno fenomeno di immediato ripudio per ragioni di interesse di quello stesso campo che prima si era abbracciato».
Fatto sta che nei primi anni Cinquanta Del Noce si ritrova in sintonia con le posizioni dei giovani raccolti attorno alla rivista bolognese “il Mulino”. In particolare il filosofo si ritrovava nelle tesi dell’editoriale del 1957 dal titolo “La misura del nostro compito: il post-fascismo”. Sulla stessa linea interpretativa si era già mosso qualche anno prima anche Felice Balbo, un altro filosofo amico di Del Noce, ispirando, tra il ’53 e il ’54, una rivista, “Terza generazione”, che tendeva a porsi fuori ormai dalla logica fascismo/antifascismo per consentire una crescita comune, non ideologica, degli italiani e contagiare l’intellettualità di nuova generazione. Il filo conduttore della rivista era quello di orientare il dibattito pubblico e politico verso una nuova frontiera: il “postfascismo”, obiettivo della nuova generazione degli anni ’50 (la terza) dopo la prima generazione, fascista, e la seconda, antifascista. Un “postfascismo” dichiarato che – come sarà con sfumature diverse per il gruppo de “il Mulino – implicava un riesame interpretativo della storia italiana del Novecento e una rilettura del fascismo come «esame di coscienza delle generazioni».
Proprio sulla consapevolezza della comune fase postfascista, Del Noce scriverà un importante saggio - Idee per l’interpretazione del fascismo - sulla rivista “L’Ordine civile” nell’aprile 1960. L’importanza di questo saggio – che si ricollegava al ragionamento svolto qualche numero prima da Baget Bozzo sulla rivista, in dialogo con un giovane neofascista – sarà tale che verrà considerato come il punto di partenza nell’approccio storiografico al tema del fascismo da parte di studiosi come Renzo De Felice ed Ernst Nolte. La tesi di Del Noce era che occorreva passare, a oltre dieci anni dalla fine della guerra, a una interpretazione oggettiva, in grado di porsi oltre le fuorvianti polemiche tra “antifascismo militante”, di cui la massima espressione era ravvisabile negli azionisti, che si ispirava alla visione “rivelativa” dei mali d’Italia, e “filofascismo”, fenomeno non più concepibile dopo l’esaurimento storico del fenomeno. Lo schema dell’“antifascismo militante” tipico dell’azionismo, poi fatto proprio anche dalle sinistre democristiane, mirava invece a mantenere in vita – ad avviso di Del Noce – il “pericolo” di un fascismo in realtà inesistente da tempo.
Che tutto questo fosse chiaro alla fine degli anni Cinquanta e che, invece, venga cercato di venire attualizzato oggi, oltre sessant’anni dopo, dovrebbe fare riflettere giornalisti, intellettuali e politici. A chi giova riesumare un dibattito morto e sepolto?