Della dissoluzione dei programmi scolastici
di Andrea Zhok - 06/06/2021
Fonte: Andrea Zhok
La maggiore difficoltà nell'affrontare l'involuzione della pubblica istruzione negli ultimi decenni consiste nello sforzo di rimanere nell'ambito dell'argomentazione civile.
E' difficile, perché sai che l'argomentazione civile non bucherà l'opinione pubblica, in effetti non se la filerà nessuno, e che quindi corbellerie come quelle indefessamente proposte da ministri e sottosegretari da vent'anni a questa parte continueranno a navigare serene, contando sull'inconsapevolezza generale.
D'altronde un ministro che in un anno in cui è stato eliminato lo scritto alla maturità, guarda in faccia l'intervistatore e proferisce con ira funesta: “È una sciocchezza dire che all’esame di maturità quest’anno non c’è lo scritto“, beh, può dire assolutamente qualunque cosa, impunemente.
Una considerazione a parte la merita il tema della dissoluzione dei programmi scolastici.
Come ben spiega l'articolo, i programmi scolastici sono stati sostituiti da Indicazioni Nazionali, il cui senso è quello di ritagliare i programmi in maniera individualizzata, abbandonando le "vecchie rigidità".
Ora, la prima cosa da notare è che, come al solito, la fuffa retorica è l'unico autentico contenuto pensato nella formulazione di queste normative: ci si immagina l'insegnante impegnato, come un dignitoso precettore di famiglia nobile, a interagire su base personale con il contino, pardon il discente, individualizzando la lezione in modo da ottimizzarne le capacità.
Ovviamente un'operazione del genere, quand'anche fosse da accogliere con plauso, sarebbe concretamente possibile solo in classi con al massimo 5 allievi, a stare larghi.
In classi normali la gabellata 'individualizzazione' significa semplicemente la libertà di omettere, saltare o aggiustare in corso d'opera qualunque richiesta, come strategia della minimizzazione del danno.
Ma il vero punto è il senso profondo, quello proclamato e vantato da questa concezione. L'idea è che anche la scuola, come tutti gli erogatori di beni e servizi, come i fornitori di jeans e quelli di Iphone, debba idealmente strutturarsi come servizio personalizzato per il cliente. Dopo tutto, non è questa la modernità? La lezione on demand?
Questo è lo stesso spirito che aveva promosso dieci anni fa la scomposizione dei corsi universitari in moduli, che idealmente lo studente avrebbe potuto prendere isolatamente dalla bancarella dell'offerta formativa.
L'idea era di non avere più quegli onerosi corsi universitari che sviluppavano un argomento strutturato su più mesi, ma di avere piccole unità maneggevoli, cui lo studente poteva rivolgersi per appagare le proprie legittime curiosità (un po' come Wikipedia). Così, perché farmi una paccata di corso sull'Etica di Spinoza, quando posso farmi un'agile Introduzione allo Shintoismo, un saggio di Günther Anders e poi qualche articolo sull'Estetica postmoderna? Tanto il punto non è aver capito qualcosa che prima non avevo capito, - che anzi può essere controproducente - ma imbiancarsi la faccia con la farina della 'cultura'.
Per fortuna, anche grazie alla resistenza di fatto di molti docenti, quella tendenza è parzialmente rientrata.
Ma nella scuola il problema è molto più grave, e lo è per una ragione squisitamente sociale.
I 'programmi scolastici' sono (erano) la previsione di un percorso di conoscenze reputate qualificanti e degne di essere conosciute dai discenti, futuri cittadini. Il fatto di poter contare (almeno di principio) sul fatto che i miei coetanei abbiamo contezza di Manzoni, Leopardi o Pascoli ha un valore supplementare rispetto allo specifico valore culturale dei citati: è un'operazione che definisce uno spazio di riferimenti comuni, una cultura comune, concetti affini sviluppati in relazione a problemi interpretativi affini.
Un 'programma scolastico', per quanto svolto in maniera diseguale, per quanto, come sempre accade, soggetto alle variabilità delle annate, dei docenti, delle classi, rappresenta(va) la spina dorsale di un nucleo comune, sulla cui base si può sperare di istituire una mutua comprensione, una comunicazione effettiva.
In una società in cui le spinte alla destrutturazione comunicativa, alla costruzione di bolle di opinione idiosincratiche e incomunicabili, sono potentissime, la scuola dovrebbe essere il luogo di resistenza a questa tendenza, il luogo che per eccellenza opera per creare una cittadinanza comune innanzitutto come retroterra culturale comune.
Al contrario, la cosiddetta 'personalizzazione' rema precisamente nel verso della corrente, alimentando ulteriormente percorsi culturali incomunicanti, privatizzati, fino ad un auspicato isolamento integrale dell'individuo, cotto a puntino per esprimere le sue solitarie preferenze in acquisti su Amazon.
Alle volte, di fronte alle palesi tendenze degenerative della società liberale contemporanea, alcuni chiedono se siano concepibili vie d'uscita, se ci siano cose che è possibile fare per contrastare il processo decostruttivo.
Ecco, premesso che non esistono singole risposte risolutive, una delle piccole cose da cui partire sarebbe proprio la riassegnazione consapevole alla scuola del compito di formare una cittadinanza, capace di interagire costruttivamente e chissà, magari di rivitalizzare le pratiche democratiche (che non sono andare ogni 5 anni alle urne ad esprimere la propria preferenza sul mercato politico).
E dunque la prima cosa da fare sarebbe cacciare tutti i sedicenti 'modernizzatori' incistati nelle burocrazie ministeriali dell'istruzione, la cui coscienza modernizzatrice è consistita semplicemente nel trasportare i meccanismi mentali del mercato liberale all'interno della pubblica istruzione.