Delle cause e delle conseguenze
di Pierluigi Fagan - 26/02/2023
Fonte: Pierluigi Fagan
Tra i tanti fenomeni inediti dell’Era complessa, c’è da rilevare il drastico calo dell’indice di fertilità da almeno cinquanta anni. È un fenomeno mondiale, ma per la parte più sviluppata del mondo è viepiù significativo. I paesi OCSE vanno sotto l’indice di sostituzione di 2,1 figli per coppia, nel 1981. Da allora è sceso di un altro 28% relativo. Per i Paesi più sviluppati, l’inizio della contrazione risale alla fine degli anni ’50, ma verso la fine degli anni ’60 diventa una tendenza globale. Perché?
Naturalmente è un fenomeno complesso quindi dotato di molte variabili co-agenti e co-influenti. Tuttavia, se rimaniamo a grana grossa, impressiona la relativa sincronia del fenomeno in tutte le parti del mondo che pure hanno dinamiche e culture assai diverse.
Osservando i dati specifici europei del 1968, si nota una certa progressione da nord e sud del fenomeno. I primi a fare meno figli dell’indice di sostituzione sono stati gli scandinavi, seguiti dai nordeuropei, poi dai centroeuropei ed infine negli anni ’70-’80 dai mediterranei. Di contro, la media della speranza di vita passa di 55 anni del ’45 a più degli 80 di oggi.
Se ne può dedurre una linea principale di correlazione: più aumenta il benessere, più a lungo si vive, meno figli si fanno. Il concetto di benessere è ovviamente relativo alla versione del sistema moderno. Si tratta di un benessere materiale che ha chiamato una intensificazione costante delle produzioni e dei produttori.
Un grande contributo a questa dinamica l’ha dato il progressivo svuotamento delle campagne in favore delle città, i primi facevano storicamente più figli dei secondi. La sequenza dalla campagna all’industria e dall’industria ai servizi ha profondamente cambiato società e culture. A seguire l’entrata progressiva delle donne nel mondo del lavoro fattore questo di crescita di autonomia personale a scapito del precedente ingaggio famigliare. Lo sviluppo dei contraccettivi e dell’aborto come ultima risorsa, la possibilità di divorziare, hanno progressivamente liberato le pratiche sessuali dalla riproduzione e dall’amore che cementava, vero o apparente che fosse, il nucleo famigliare. La crescita dell’urbanizzazione si è accompagnata a quella della secolarizzazione e dell’istruzione. A seguire la crescita della cultura individualistica, edonistica e narcisistica, il diritto a coltivare sé stessi, le promesse di eterna giovinezza per le popolazioni metropolitane.
Ma potrebbero agire anche incertezze esistenziali come il peso di responsabilità collegate alla paternità/maternità, un sentimento di incertezza sulla propria compiuta maturità. Negli ultimi decenni, l’aumento di preoccupazioni sul futuro ed a volte la precarizzazione del presente, soprattutto per i giovani adulti, hanno ulteriormente offuscato il quadro. Le politiche neoliberali tutte liquidiste per andar a tempo con i rivolgimenti continui dei mercati e le contrazioni sulla spesa welfare certo non hanno aiutato. Per i Paesi mediterranei, gli indici di fertilità delle nazioni coinvolte sono tra i peggiori al mondo in assoluto (per IF: Italia 201°, Spagna 204°, Portogallo 205°, Grecia 207° su 213 Paesi dati CIA WF 2021) e suggerire che le gabbie finanziarie del sistema euro-UE sono particolarmente depressive dell’economia, della società, della voglia ed a volte la semplice possibilità di mettere al mondo figli. Ma Corea del Sud, Giappone e Taiwan hanno indici peggiori della Grecia e la Germania è appena tre posti sopra l’Italia.
Sul piano delle conseguenze, da valutare nell’oggi e nella tendenza che sembrerebbe poter continuare almeno per i tre prossimi decenni, vediamo meglio la specifica posizione europea. Se all’inizio del Novecento, Occidente (Europa + Nord America + Oceania) pesava un 30% del mondo, oggi pesa più o meno la metà ed al suo interno è scesa la quota europea mentre è salita quella anglosassone per merito americano che ha assorbito costante immigrazione. I primi del XX secolo, la sola Europa allora centro del mondo, pesava un 25% mentre oggi pesa meno del 9% ma anche meno visto che nell’aggregato si computano anche la Russia e nazioni dell’estremo oriente occidentale.
Nel suo complesso, il fenomeno comporta un ristagno strutturale della crescita economica poiché il primo fattore di crescita è stato storicamente sempre un costante aumento di popolazione. Questo ristagno ha portato ad una persistenza della disoccupazione. L’invecchiamento delle popolazioni ha comportato una relativa maggior spesa sociale (o almeno avrebbe dovuto), problematico abbassamento dell’età pensionistica, vari tipi di reazioni alla crescente immigrazione. La stessa maggior permanenza al lavoro di fette di anziani ha rallentato l’entrata nel mondo del lavoro delle nuove generazioni. Il pronunciato spostamento del baricentro anagrafico medio delle popolazioni ha portato ad una naturale resistenza al cambiamento per quanto il problema dell’evitazione del necessario cambiamento è legato anche ad altri fattori. Vivacità culturale, speranza del futuro, energia sociale ed intellettuale solitamente legate alle nuove generazioni sono tutti fenomeni rallentati in questo quadro. La mobilità sociale ha cambiato verso invertendosi dalla scalata all’alto al lento scendere in basso.
A livello di mentalità è curioso notare come questa “era delle aspettative decrescenti” definizione del 1979 (C. Lasch) e che avrebbe dovuto ampliare le simpatie per statalismo e socialismo o quantomeno robusta socialdemocrazia secondo le analisi di Keynes, sia invece finita in un quarantennio di neoliberismo sfrenato. Purtroppo, è portato della modernità dividere teorie e discipline in settori non collegati a sistema, così pare nessuno ha notato per tempo l’irrazionalità di questa perorazione estremista delle leggi del mercato per società in pronunciato declino demografico come se l’economia non avesse a che fare con gli esseri umani quindi anche con la demografia. Oltretutto alla luce anche di altre considerazioni come il ristagno della produttività, il non aver più molto da dover produrre dopo due secoli di vivace economia moderna, il restringersi delle opportunità a livello mondo dato il calo del peso demografico e poi di potenza dell’intera sfera occidentale legata intrinsecamente ai destini della modernità.
La demografia, come la geopolitica, sono state a lungo discipline reiette poiché usate nelle immagini di mondo naziste e fasciste, il che dice quanto elementare sia la nostra mentalità. Le discipline inquadrano fenomeni, poi su questi inquadramenti si possono fare vare considerazioni ed elaborare varie teorie, se non piacciono quelle teorie non si vede perché occultare le discipline se queste hanno un senso.
L’accoppiata tra meno giovani e più anziani ha portato a nuove reazioni. La minoritaria parte di società legata ai rendimenti della globalizzazione e dell’ultra finanza è diventata sempre più estremista, oligarchica ed antidemocratica. Nella parte maggioritaria stagnante o perdente si è andato formando un rancore spesso conservatore, a volte reazionario connotato da nostalgia per i tempi perduti. In questo confuso bacino di scontento qualcuno ha visto addirittura opportunità politiche “populiste”. Le famose “istanze sociali” sono sparite dalla consapevolezza e dalle rappresentazioni sostituite da assurdi dibattiti con polemiche inconsistenti su fatti minori.
Il fenomeno Covid è stato discusso sotto le lenti della biopolitica, delle teorie del complotto, della farmacologica coatta, della minacciosa imposizione di restrizioni delle sacre libertà (individuali), tutti punti di vista pur rilevanti. Ma rimane lo sconcerto per il fatto che a fronte di una pandemia di malattie respiratorie, con un 23% di ultrasessantenni che ci fa il Paese con più anziani in Europa, pare che quasi nessuno si sia posto il problema della quantità e qualità della spesa pubblica sanitaria ed assistenziale.
Ma il succo di questa disamina è un altro. Prima di emettere il giudizio ovvero giudicare negativamente o per chi ci riesce positivamente, questi fenomeni, si dovrebbe constatare che l’intero sociale è cambiato e sta cambiando in profondità. Domandarsi allora perché nulla di questo cambiamento si riflette nelle forme dell’intero sociale e nel come lo pensiamo e discutiamo. Potremmo dolerci di questo fenomeno e quindi concentrarci sul ripristino di un apporto demografico maggiore e più costante o potremmo accettare il fenomeno e cambiare tante cose del funzionamento sociale prendendo atto delle mutate condizioni. Ma non facciamo né l’uno, né l’altro e continuiamo a vivere e pensare con le forme sostanzialmente del dopoguerra in società e contesto del tutto diversi.
Il succo della disamina dovrebbe portare a domandarsi che forme ha la nostra conoscenza perché se la conoscenza non ci aiuta a leggere realtà e mondo, vuol dire che ci manca il nostro primo strumento adattativo. La nostra conoscenza ha un strutturale problema a leggere le catene delle cause e delle conseguenze e senza conoscenza, approfondita e condivisa, non siamo in grado di gestire gli eventi.
Attraversare tempi così turbolenti e complessi senza neanche capire cosa sta succedendo promette decenni di qualità di vita assai poco promettenti.