Democrazia, liberalismo, uguaglianza: quando le parole non servono a niente
di Luca Leonello Rimbotti - 24/10/2023
Fonte: Italicum
Diceva il vecchio marxista Antonio Labriola che, per misurare le persone e le loro idee, non bisogna ascoltare le parole, ma giudicare dai fatti. E, per esemplificare, tirava in ballo la figura di Tocqueville, il padre nobile del liberalismo ottocentesco, quello nazionale, si direbbe, quello conservatore. Tale liberalismo è defunto in Europa e nel mondo da molto tempo e, per giunta, proprio per mano del cainico fratello minore, il liberalismo democratico-egualitario e globalista, oggi alla guida politica mondiale. Un automa uscito dalle viscere illuministe dell’idea di progresso, fecondate grazie alla copula oscena fra idea libertaria americana, fanaticamente millenarista, e vocazione dittatoriale giacobina. Labriola, da bravo socialista di una volta – ignaro delle infiltrazioni postume di tanti “liberali” nelle file persino comuniste, alla maniera del camaleonte gigante Napolitano, recentemente salito agli altari della repubblica italiana - segnalava che il liberale Tocqueville ragionava moltissimo di libertà, certamente, soprattutto individuali, poi però stava sempre dalla parte dei reazionari. Era stato, in pratica, un difensore dell’Ancient Régime, di cui apprezzò la capacità riformista, la crescita del ceto borghese (in atto ben prima dello scoppio della grande rivoluzione), sul quale si appoggiava l’amministrazione centralizzata del re, e poi il rafforzamento dei piccoli proprietari rurali, il declino della grande proprietà feudale, la disintegrazione della nobiltà, ormai deprivata del potere almeno dai tempi del re Sole. Tutte cose che esistevano dunque ben prima del 1789 e di cui la rivoluzione si approprierà, considerandole sue conquiste.
Proprio Tocqueville smorzava il proprio incerto credo progressista riflettendo sulle aporie dell’Ottantanove, una delle quali – l’astrazione intellettualistica dalla realtà storica e la vocazione cosmopolita – veniva centrata in pieno:
La Rivoluzione francese […] ha considerato il cittadino in maniera astratta, al di fuori delle singole società, così come le religioni considerano l’uomo in generale, indipendentemente dal luogo e dal tempo.
In questo modo, veniva anticipato genialmente lo sposalizio fra religione (cattolica in questo caso) e modernità cosmopolita di marca giacobina: proprio ciò che da generazioni sta soffocando il mondo europeo, conducendolo prima o poi a morte certa. Effettivamente, se c’è un caso in cui si ha la prova palmare che quello liberale non è mai stato un ideale omogeneo, ma solo una spinta verso cose anche opposte fra di loro, questo caso può essere benissimo rappresentato da Tocqueville. Questo mal conosciuto santone libertario è una specie di manifesto dell’atroce catalogo ideologico partorito dalle contraddizioni moderne.
Fin dall’inizio, la sua è la posizione del fragile basculatore fra gli opposti. Pur fedele ai Borbone, nel 1831, dopo la deposizione di Carlo X, giura fedeltà al “re borghese” Luigi Filippo, poi non disdegna gli onori presso la seconda repubblica, è membro della costituente del 1848, addirittura ministro degli esteri di Luigi Napoleone per un breve periodo, ma quanto bastò per partecipare direttamente, l’anno seguente, alla liquidazione manu militari della Repubblica Romana di Mazzini e per reinsediare sul trono di Pietro quella bella figura di papa illuminato che fu Pio IX, il vero campione dell’oscurantismo a livello europeo: appena tornato a Roma, il vicario di Cristo si affrettò ad abrogare le leggi repubblicane e la Costituzione da lui stesso promulgata nel ’48, reintrodusse la pena di morte, abbatté la statua di Giordano Bruno, ricacciò gli ebrei nel ghetto, vessandoli di balzelli: tanto per chiarire che il “papa liberale” del 1848 era stato solo uno scherzo.
Il liberale, verrebbe allora da dire, cioè l’uomo antropologicamente liberale, è quello storico caso umano che, mentre elogia le libertà naturali e quelle politiche, di fatto è un costruttore di divieti e proibizioni, un maneggiatore di macchine civili e militari di repressione, un teorico e un pratico della segregazione. Un’esagerazione? Per nulla, se solo si pone mente al fatto che – ad esempio - proprio Tocqueville fu tra i promotori dell’occupazione dell’Algeria negli anni trenta dell’Ottocento e che ne sostenne l’annessione territoriale alla madrepatria francese. Ma, beninteso, con l’esclusione degli algerini da ogni tipo di cittadinanza. Il filantropo, che aveva condannato l’etnocidio dei pellerossa, in pieno svolgimento negli anni in cui si era recato a visitare gli Stati Uniti (1831-33), trovava del tutto logico che i francesi tenessero alla cavezza gli arabi algerini:
Colpisce insomma che Tocqueville, sensibile come sappiamo ai problemi e ai diritti degli indiani e dei negri d’America, lo sia molto meno nei confronti di quelli delle popolazioni autoctone d’Algeria: sconcerta ch’egli assuma punti di vista tanto differenti, a seconda che si limiti al ruolo dell’osservatore, come in America, o giudichi una vicenda che riguarda il suo Paese, come in Algeria. Facciamo così conoscenza con un Tocqueville paladino della segregazione anziché dell’assimilazione e convinto che gli algerini non potranno né dovranno europeizzarsi.
E quindi, quando leggiamo certe tirate di Tocqueville contro l’idea di razza che aveva il suo amico conte de Gobineau, bisogna diffidare. In ogni caso, si rese conto molto presto della natura ingannevole, sanguinosamente millenarista, della violenza americana, allorquando dipinse così il risvolto criminale dei democratici d’oltre-oceano:
Questo mondo ci appartiene, si dicono tutti i giorni: la razza indiana è chiamata a una distruzione finale che non si può impedire, e che non è desiderabile ritardare. Il cielo non li ha fatti per civilizzarsi, bisogna che muoiano. Del resto non voglio affatto immischiarmene, mi limiterò a fornir loro tutto quanto potrà precipitarne la perdita. Con il tempo avrò le loro terre e sarò innocente della loro morte. Soddisfatto del suo ragionamento l’Americano se ne va nel tempio ove ascolta un ministro del Vangelo ripetere ogni giorno che tutti gli uomini sono fratelli e che l’Essere eterno che li ha fatti sullo stesso modello ha imposto a tutti il dovere di mutuo soccorso.
Sono frasi agghiaccianti, nella loro lucidità. Questa pagina, cent’anni esatti prima dell’avvento del nazionalsocialismo al potere, che oggi è universalmente condannato proprio per questi motivi, spiega la dinamica che corre fra un’idea fanatica di elezione e la necessità di fare il giusto olocausto di quanti ostacolano il disegno divino. In queste righe si mostra il motore immobile che muove all’azione la macchina di potere americana, oggi come allora lanciata alla conquista violenta del mondo infliggendo il male nel nome del bene. Qui vediamo bene in azione la sindrome dualista che governa l’universo liberale, la sua biblica nevrosi.
Questa doppiezza non era casuale, ma strutturale. Si tratta della tipica bipolarità del liberale. Qualcosa che ci fa venire in mente quel tale che, in piena assemblea costituente dello Stato della Virginia, nel 1776, si alzò dal suo banco a raccomandare, convinto di essere nel giusto, che non gli venisse lesa la sacrosanta libertà, in quanto latifondista, di possedere schiavi, non considerati membri della società civile e pertanto estranei alla “dichiarazione dei diritti universali”. Nessuno gli rise in faccia, nessuno lo denunciò o lo fece ricoverare. E ricordiamo pure che i giacobini al potere dopo il 1789 non si sognarono neppure di abolire la schiavitù nella Martinica, e tantomeno lo fece Napoleone: questi alcuni tra i frutti bacati della grande illusione illuminista. Ma del resto, non furono certi padri della repubblica democratica a stelle e strisce, del tipo, tanto per dire, di un George Washington o un Thomas Jefferson, per l’appunto dei ricchi proprietari di schiavi? Nessuna contraddizione. La contraddizione va ricercata più a monte, nella mentalità antropologicamente malsana, surreale, dell’uomo liberale in sé. Tocqueville, in tutto questo, fece la sua parte. Fu anch’egli un pioniere.
Il suo infatti ci appare oggi come un perfetto esempio di quanto la stortura insita nel pensiero e nella pratica liberali abbia radici profonde e inestricabili. Le convinzioni, nel senso degli ideali, per questo mondo non hanno alcun valore. Non esiste una concezione che possa dirsi liberale in senso proprio. Esistono tante proclamazioni, questo sì, molti fatti e avvenimenti. Si tratta davvero di un movimento progressista? Oppure è qualcosa di sostanzialmente regressivo? Il dilemma non è poi di poco conto. Serve anche a capire davanti a quale enigma ci troviamo oggi, che il liberalismo, nella sua variante mondialista, ha inghiottito ogni sorta di posizionamento alternativo, macinando progressismo e socialismo, comunismo e persino fascismo, imperialismo e democrazia, radicalismo e razzismo (pensiamo alla magnifica America segregazionista di Roosevelt, Truman e Eisenhower), come fossero altrettante pillole anabolizzanti.
Questo ci dà la dimostrazione – se ancora occorresse – che quando Marx giudicava la politica borghese un mascheramento degli interessi del ceto dominante, in nulla entrando fattori di natura ideale, aveva perfettamente ragione. La politica borghese liberale in realtà non è politica, ma amministrazione, e quindi le diversificazioni non sono politiche, ma d’interesse, sono lotta economica fra membri di un medesimo ceto: un fatto sociale. Mai come oggi, e specialmente in Italia, questa osservazione ci appare veritiera, davanti al recitativo, classicamente liberal, della finzione governo/opposizione, in cui la politica è marginale, tutto decidendosi intorno alla gara di solerzia fra servitori professionali del potere economico.
L’assurdo posto in questo modo al vertice sociale consiste nell’annullamento della Weltanschauung: la disintegrazione dei concetti di destra e sinistra – nati nell’emiciclo della Convenzione del 1792, emigrati nel parlamentarismo britannico, ritornati sul continente in confezione massonica, grazie alla monarchia di luglio – venne originata dalla possibilità di riunire sullo stesso soggetto politico (singolo uomo o singolo partito) le due ali del dilemma ideologico. Un primo testimone dell’inutilità dei due termini fu proprio Tocqueville, caso sommo di rimescolamento semantico: ci teneva a dichiararsi di sinistra, ma era un legittimista dinastico-borbonico; era liberale, ma di destra, come venne dai più etichettato. Provate un po’ a sciogliere la sciarada: un progressista nostalgico della monarchia, un umanitarista nazionalista, un “uomo della Restaurazione”, che odia la “dittatura della maggioranza”, ma che è devoto agli ideali rivoluzionari: libertà, uguaglianza, certo, ma anche, qua e là, dosi non innocue di franco razzismo.
C’è chi ha visto in questa folla di ossimori la natura stessa della questione politica degli ultimi secoli. Se Tocqueville riassume in sé l’essere contraddittorio del liberalismo, occorre aggiungere a quanto detto che la sua è la figura di un nobile normanno di vecchio stampo che crede nella democrazia e nell’eguaglianza ma, al contempo, nella funzione storica dell’aristocrazia, del comando elitario, ciò che ne fa un anticipatore della sociologia differenzialista di un Pareto.
È stato scritto che Tocqueville mitigò il suo aristocraticismo di casta con un’iniezione di moralità cristiana, che avrebbe temperato le naturali asperità che consistono nel credere nell’uguaglianza e, contemporaneamente, nella differenza di status e ruolo sociale:
È attraverso tale filtro morale, che congiunge – in maniera, non lo si dirà mai abbastanza, del tutto originale – alcuni principi del liberalismo classico con altri propri alla tradizione del conservatorismo europeo, che Tocqueville affronta, in momenti diversi, alcuni nodi della questione sociale.
Si dice che Tocqueville preservò i valori della società pre-rivoluzionaria, unendoli all’umanitarismo cristiano, la cui faccia politica sarebbe stata rappresentata «dall’esito liberale – e democratico - della rivoluzione francese». Ma noi chiediamo: l’esito liberaldemocratico della rivoluzione francese? Forse si allude ai giacobini, a Robespierre, o invece alla dittatura militarista di Napoleone? Alla leva in massa? O piuttosto tali “eredi liberaldemocratici” furono i comunardi parigini? O magari il socialismo francese, che va da Proudhon a Sorel? Diremmo, invece, che l’esito liberaldemocratico della rivoluzione francese lo possiamo apprezzare soltanto oggi, da qualche decennio, con la melassa cosmopolita del potere autoritario francese, che conosce benissimo la differenza fra autorità liberale e politica democratica, gestendo a meraviglia la stessa spinta imperialista che vigeva ai tempi di Tocqueville. La cui eredità ideologica non è affatto solo sul versante della democrazia, ma molto di più su quello del potere nazional-liberale.
In ogni caso, letto dal di dentro, il profilo di Tocqueville è un grande manifesto dell’inconsistenza ideologica borghese. Oppure, se vogliamo, una grande dimostrazione di proto-fascismo totalitario, che tutto in sé racchiude, anche gli estremi, anche gli opposti. Anche il totalitarismo del Novecento, a ben vedere, ha spesso fatto confusione fra liberalismo e democrazia, fra autorità e libertà. Difatti, se solo lo volessimo, potremmo anche togliere Tocqueville dalla teca liberale, angusta e monotematica, e riporlo nella vasta vetrina del nazionalismo radicale post-rivoluzionario, in cui si è attuato il vero e unico superamento storico e ideologico dell’antinomia fra destra e sinistra. Perché no? Del resto, le etichette sono definizioni importantissime, ignorarle potrebbe essere pericoloso, non sapremmo più se abbiamo fra le mani un farmaco oppure un veleno.