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Dieci anni di crisi. Da Lehman & Brothers al QE

di Roberto Pecchioli - 22/09/2018

Dieci anni di crisi. Da Lehman & Brothers al QE

Fonte: Ereticamente



Sono passati 10 anni dal fatidico 15 settembre 2008, data simbolo della crisi finanziaria ed economica più grave dal 1929. Quel giorno crollò la banca d’affari Lehman & Brothers per le insolvenze dei mutui immobiliari esplose nell’anno precedente. La memoria visiva ci rimanda alle immagini di impiegati allibiti che lasciavano gli uffici di New York reggendo scatoloni di cartone con documenti e effetti personali. Le conseguenze di quelle vicende sono ben presenti nella vita quotidiana di centinaia di milioni di persone e meritano qualche riflessione in chiave italiana ed europea.
Soprattutto adesso, in una fase in cui si moltiplicano allarmi e tensioni di chi teme un nuovo crac. Tra le tante dichiarazioni, colpiscono quelle dell’analista internazionale Juan Ignacio Crespo. Preso atto che la crisi del 2008 fu una crisi di sovra indebitamento, rileva che oggi torniamo a essere indebitati oltre ogni ragionevole limite. Per di più, ed è ciò che più inquieta, l’apparente soluzione, in America con la Federal Reserve e poi in Europa, è stata fare altro debito, sempre più debito. E’ stata nascosta la polvere sotto il tappeto, badando che il tappeto appartenesse agli Stati sovrani.
L’operazione più rilevante è stata forzare lo statuto della Banca Centrale Europea affinché acquistasse a mercato aperto quote crescenti di titoli pubblici. Il meccanismo sta per interrompersi dopo circa quattro anni. Il cosiddetto quantitative easing, alleggerimento quantitativo, ha pompato, meglio ha creato denaro dal nulla al ritmo di 60 miliardi al mese, poi addirittura 80, scendendo a 30 nell’anno corrente, dimezzati a 15 negli ultimi tre mesi del 2018. BCE è oggi la principale detentrice del debito pubblico italiano, acquisito con denaro inesistente, garantito dal nostro lavoro.
Astrattamente, Francoforte potrebbe decidere di liquidare quelle somme, il che la obbligherebbe a ricapitalizzare il suo bilancio con la conseguenza di una bancarotta. Per evitarla potrebbe stampare banconote, generando una forte inflazione dagli esiti drammatici. E’ solo una scenario teorico, il più negativo, reso improbabile dallo statuto della banca che impegna alla stabilità, ma è sicuro che la fine degli stimoli artificiali avrà conseguenze sui mercati europei. Non mancano tuttavia le voci che ritengono possibile un effetto benefico sull’economia a medio termine per il prevedibile rialzo dei tassi dopo la fine del QE.
In Gran Bretagna il meccanismo fu adottato dal 2009 al 2012, provocando un appiattimento della curva dei rendimenti, nonché una caduta della massa monetaria (M4) e dei prestiti. L’economia si trovò due volte prossima alla recessione. Dopo la conclusione del QE, l’M4 e i prestiti risalirono, il Pil si rafforzò e gli investimenti da parte delle imprese subirono un’accelerazione. Storicamente, è dimostrato che esperimenti di questo tipo, realizzati anche in Giappone e negli Usa, non hanno concorso alla crescita né hanno conseguito l’obiettivo di determinare quel tanto di inflazione permessa dal pensiero unico monetarista, responsabile dei disastri degli ultimi decenni.
Ciononostante la tensione sale. In chiave italiana, pesa l’ostilità aperta di Mario Draghi, uno degli ospiti del panfilo Britannia che diede l’avvio nel 1992 all’affossamento dell’Italia, oltreché il “fuoco amico” capitanato dal Quirinale, a partire dalla sconcertante dichiarazione con la quale ha intimato al governo di “non mercanteggiare” in sede di bilancio europeo. Insomma, dobbiamo rimanere servi felici, pagare e tacere. La conclusione è quella di una profonda vulnerabilità del sistema che si ripercuote su un’Italia fragile e divisa, con l’intero establishment schierato contro il governo gialloblù.
Il mondo è oggi più indebitato di dieci anni fa. E’ cambiata la composizione, sta esplodendo il debito privato negli Usa e in Cina, aumenta costantemente in Francia e Germania, mentre l’Italia sta assai meglio di molti altri paesi nel rapporto tra PIL e debito aggregato, la somma delle esposizioni pubbliche e private. Altrove, come in Spagna, il debito privato è stato tamponato trasferendolo sulle casse pubbliche. Il rapporto debito/PIL non superava il 40 per cento nel 2007, ora sfiora il 100 per cento. Un’immensa trasfusione di sangue dal popolo al sistema creditizio. Dell’agonia greca sappiamo.
Un altro rilievo di Crespo riguarda una lezione dei fatti del 2007/2008: “la crisi cominciò perché i veicoli di investimento speciali, creati per realizzare fuori bilancio quello che non era profittevole in bilancio, ignorarono un principio base: finanziarono a breve termine i loro investimenti a lungo termine.” Molto più di un dettaglio, una specie di confessione di colpa, giacché conferma che il sistema si basa su menzogne, illegalità coperta ai massimi livelli, falsificazione di dati, report e bilanci, sostentandosi su scommesse rischiose, folli arrampicate sugli specchi che lasciano sul terreno tre sconfitti: i cittadini investitori gabbati, gli Stati che, come il Cireneo, si sono dovuti caricare sulle spalle enormi perdite altrui, l’economia reale.
I fatti mostrano che le banche contano più di dieci anni fa, non solo per l’impulso europeo all’ unione bancaria. La sostanza è che il peso principale delle perdite è ricaduto sugli Stati, ovvero su tutti noi; oggi abbiamo concentrazioni bancarie progressive in base al principio “too big to fail”, troppo grande per fallire. Tanto il conto lo paga lo Stato, ovvero depositanti e obbligazionisti dopo la legge detta “bail in”. Non si è riusciti a sciogliere neppure il nodo del ritorno alla divisione tra banche d’affari e banche di credito e deposito, le uniche meritevoli di aiuto pubblico.
La Germania, attraverso il centro di potere politico economico e finanziario rappresentato da Angela Merkel e Jens Weidmann (Bundesbank) ha ucciso la Grecia per salvare i propri istituti esposti dopo averne finanziato non solo il deficit, ma anche garantito gli incauti acquisti ellenici di armi sul mercato tedesco e francese, salvando contemporaneamente con il denaro dei contribuenti (europei!) i suoi colossi alla canna del gas. Ciò che è stato vietato all’Italia nelle crisi di MPS e delle banche venete, Berlino lo ha fatto tranquillamente, nazionalizzando di fatto Deutsche Bank e Commerzbank.
La prima, di cui tutti ricordiamo il ruolo di killer esercitato nel 2011 contro l’Italia con la svendita dei Buoni del Tesoro, ha in pancia 42.000 miliardi di euro di titoli derivati, spazzatura pari a 16 volte il PIL della Repubblica Federale di Germania. Commerzbank non sta meglio; il valore sul mercato dei due istituti è crollato di quasi il 90 per cento, di cui il 35 nell’anno corrente. Si prepara una maxi fusione tra i giganti malati, la cui capitalizzazione complessiva è adesso simile a quella di Unicredit. Weidmann, in un’intervista cui la stampa italiana, sdraiata come sempre sugli interessi antinazionali, non ha dato troppo risalto, ha rivendicato tutte le mosse dell’ultimo decennio che hanno rafforzato il ruolo della Germania e messo sotto scacco l’Europa del Sud, a partire dalla sua principale economia, la nostra.
Illuminante è un brano di Adulti nella stanza, libro dell’ex ministro greco Varoufakis, che rivela la dipendenza del ministro italiano Padoan dal falco tedesco Schaeuble, il quale impartì gli ordini di Berlino al governo Renzi in materia di mercato del lavoro. Solo dopo che passarono n Italia i provvedimenti graditi a Schaeuble, riferisce Varoufakis, cessò l’ostilità tedesca all’Italia.
Nessuna indignazione o finta sorpresa. In Germania hanno difeso i loro interessi, con l’aiuto francese. Il problema è l’impossibilità di suscitare in Italia analoga capacità di agire a tutela di noi stessi. Storia vecchia di secoli: gli italiani spalancano sempre le porte agli stranieri. La politica non tenta neppure di riappropriarsi di ciò che è suo, ovvero il potere di determinare le politiche economiche e quelle finanziarie. Dopo Draghi, arriverà il super falco Weidmann: dalla padella nella brace. E’ ancora possibile inserire in un programma politico la riconquista della sovranità monetaria attraverso una profonda riforma del Trattato di Maastricht nella parte relativa alla Banca Centrale Europea e il ritorno di Bankitalia (un istituto il cui nome contraddice la realtà dei suoi azionisti) in mani pubbliche?
Il tabù resiste e nessun progetto di governo potrebbe oggi permettersi di evocare una rivoluzione tanto grande. Pure, se vogliamo sopravvivere come nazione, potenza economica, speranza di futuro comune e indipendente dai signori del debito, non dobbiamo smettere di alimentare il dibattito, elaborare strumenti, individuare percorsi. Come dicevano della riconquista dell’Alsazia Lorena gli irredentisti francesi dopo la disfatta del 1870, alla sovranità monetaria occorre pensare sempre e, in pubblico, parlarne pochissimo.