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Difficile che l'inferno sia vuoto

di Luigi Copertino - 23/01/2024

Difficile che l'inferno sia vuoto

Fonte: Franco Cardini

CONSIDERAZIONI SUL POST MORTEM DELL’UOMO
Una discussa tesi teologica
Inferno vuoto? Ha fatto molto discutere l’affermazione del Papa, intervistato da Fabio Fazio, voce del conformismo politicamente corretto, a proposito della possibilità che l’inferno sia vuoto. Si è alzato un polverone giacché la tesi di un inferno vuoto è un vecchio arnese della teologia cosiddetta “progressista”. Una tesi che andava molto di moda immediatamente dopo il Concilio Vaticano II ed è rimasta latente nel sottofondo post-conciliare, allorché si è preferito ricorrere ad una pastorale improntata a evidenziare la Misericordia di Dio ma, un punto questo molto delicato, un po’ troppo a discapito della Sua Giustizia.
Si tende a dimenticare che se quest’ultima non ci fosse tutto sarebbe permesso e nessuna differenza potrebbe esserci, in ordine al post mortem, tra Netanyau ed i bimbi palestinesi da lui trucidati. Oppure tra il Ceo manager di una multinazionale ed i bambini da essa sfruttati in Africa. In realtà, nella dogmatica cattolica, la Misericordia di Dio non si dà mai disgiunta dalla Sua Giustizia ed il perdono mai senza un autentico pentimento ed una vera espiazione del male fatto, qui su questa terra o di là mentre si viaggia, purificandosi, verso la “Terra dei Viventi”.
Ad essere, tuttavia, precisi ed onesti il Papa non ha affermato che l’inferno è vuoto ma soltanto che egli spera che lo sia. Qui Papa Francesco sembra essersi richiamato al teologo Hans Urs von Balthasar al quale, a suo tempo, è stata erroneamente attribuita la tesi dell’inferno vuoto mentre egli, sulla base delle esperienze mistiche di Adrienne von Speyr, aveva soltanto affermato che è lecito poterlo sperare. Nel riproporre questa speranza, il Papa ha presentato la questione come una sua personale convinzione ossia da teologo privato e non da Maestro della fede ovvero da Pontefice. E tuttavia, per come è stata detta la cosa, in un luogo inappropriato come una televisione, in un contesto come quello della società mediatica che tutto banalizza aumentando anziché diminuendo l’incultura delle persone, il rischio, anzi il fatto, è che i più, a cominciare dallo stesso Fazio, hanno recepito un messaggio disastroso, per le finalità escatologiche della vita di ciascuno di noi, ossia che l’inferno è certamente vuoto, dato che lo pensa in fondo anche il Papa. Ma affermare o anche solo indurre a pensare che l’inferno è vuoto significa, in pratica, per quanto diremo tra breve, negare la libertà dell’uomo.
Non è la prima volta che Papa Bergoglio si presta ad equivoci a mezzo stampa. Intervistato da Eugenio Scalfari, anni fa, disse che le anime dannate non soffrono perché sarebbero “cancellate”. Che è certamente ancor più equivoco di quanto ha detto da Fazio. Tanto è vero che, poi, la sala stampa vaticana fu costretta a intervenire comunicando che quelle affermazioni erano frutto di una cattiva interpretazione di Scalfari. Il quale, però, da parte sua ribadì di aver riportato fedelmente le parole del Pontefice. L’impressione, quindi, è che il Papa sia effettivamente convinto delle sue ipotesi teologiche, e allora dovrebbe spiegare alla Chiesa come concilia queste sue convinzioni con la dottrina della fede, con la Rivelazione, perché è difficile, molto difficile, individuare, a prima vista, una qualche conciliazione. D’altro canto non sarebbe la prima volta di un Papa con convinzioni da teologo privato in dissonanza con le verità di fede. Fu, ad esempio, il caso di Giovanni XXII (1316-1334), in ordine alla visione beatifica che egli in tre omelie rinviava al giudizio universale. Tuttavia, in punto di morte, ritrattò la sua tesi eterodossa.
In ordine al problema della sorte escatologica degli uomini, quel che di certo la fede cristiana può affermare è che Dio non vuole la perdizione di nessuno ed ha apprestato tutti gli strumenti di salvezza possibili nel rispetto – ecco il punto! – della nostra libertà. Ma, oltre questo, non ci è possibile affermare che tutti si salvano sicché l’inferno sarebbe vuoto. Se fossimo costretti ad amare Dio, che amore sarebbe quello coatto? E se fossimo salvati per forza, anche contro la nostra libera scelta, che salvezza sarebbe quella coatta? Persino la Vergine Maria era totalmente libera quando le fu chiesto il suo “sì”. Ella, in quel momento, non era costretta ad accettare di diventare Madre di Dio. Poteva rifiutare perché del tutto libera; e, infatti, liberamente ha accettato.
Quindi, anche se Dio vuole la salvezza di tutti, non è affatto escluso che qualcuno, pochi o molti, vogliano deliberatamente rifiutarla chiudendosi al Suo amore. Questo è il mistero della libertà umana cui è connessa, sempre, la possibilità e, purtroppo, spesso l’attualità del peccato. Ed è per questo che la Chiesa non ha approvato la teologia di Origene, padre della Chiesa, riguardo l’apocatastasi, ossia la salvezza universale di tutti, compreso Satana e i suoi angeli, alla fine dei tempi.
Misericordia e Giustizia in Dio, dunque, si danno assieme, sempre. Mai l’una senza l’altra e viceversa. Sicché il solo “misericordia” costituisce un disequilibrio come anche il solo “giustizia”. La sola misericordia sarebbe, infatti, un’enorme ingiustizia, perché significherebbe che anche il peccatore non sinceramente pentito, magari all’ultimo istante, si salva. Questa della salvezza impenitente era la posizione di Lutero, il quale, nella convinzione dell’irrimediabile corruzione dell’uomo, riteneva che la Grazia semplicemente “copre”, non rimette, il peccato che resta tutto e in tutta la sua essenza, in quanto non può esserci trasformazione del cuore (da qui poi l’inutilità delle opere esteriori), e pertanto, in nome del “sola fides”, invitava, reinterpretando un aforismo di sant’Agostino di ben altro senso, a “pecca foriter, sed fortius fide et gaude in Christo” (lettera del 1 agosto 1521, n. 424).
In un altro pubblico intervento, durante la visita alla parrocchia romana di Santa Maria del Redentore a Tor Bella Monica, nella III domenica di Quaresima dell’8 marzo 2015, Papa Francesco, in coerente fedeltà alla dottrina cattolica, ribadì: “All’Inferno non ti mandano: ci vai tu, perché tu scegli di essere lì. L’Inferno è volere allontanarsi da Dio perché io non voglio l’amore di Dio. Questo è l’Inferno. Va all’Inferno soltanto colui che dice a Dio: ‘Non ho bisogno di Te, mi arrangio da solo’, come ha fatto il diavolo”; e tuttavia, anche in quell’occasione, probabilmente facendo troppa leva sulla verità per la quale la Misericordia di Dio comunque sovrabbonda sulla Giustizia, aggiunse, temerariamente, a proposito del diavolo “che è l’unico che noi siamo sicuri che sia all’Inferno”. Temerariamente perché, se la Misericordia di Dio è immensa, resta tuttavia temerario affermare che tutti gli uomini si siano disposti al pentimento necessario affinché Essa possa prevalere sulla Giustizia. Sicché è difficile affermare che il Ribelle sia solo nell’inferno, senza, purtroppo, umana compagnia, a parte quella degli angeli che, in illo tempore, lo seguirono nel gran rifiuto del “non serviam”. Molto più prudentemente Giovanni Paolo II, alla luce del dogma cristiano, ha spiegato che “La dannazione rimane una reale possibilità, ma non ci è dato conoscere, senza speciale rivelazione divina, se e quali esseri umani vi siano effettivamente coinvolti” (Udienza generale del 28 luglio 1999).
La non contraddizione tra l’infinita Misericordia di Dio e l’inferno, condizione che l’uomo si crea da solo, è palesata proprio dalla somma libertà che il Creatore lascia alla sua creatura accentandone il rischio, che da potenziale può farsi attuale, del rifiuto. Allorché l’uomo sceglie nella sua follia auto-deificatoria – la quale, tradotta su un piano mondanamente sociale, si chiama individualismo – di elevarsi sopra Dio, “Eritis sicut Dei” (Genesi 3,5), di preferirsi a Dio ovvero di essere “dio di sé stesso”, il Creatore ne rispetta la scelta, ratificando la sua libera volontà e lo tiene lontano ma sempre pronto ad approfittare di un pur minimo segno di pentimento per riportarlo a Sé. L’inferno, dunque, alla cui radice c’è il “Fai ciò che vuoi, questa è tutta la legge” (Aleister Crowley), è opera dell’uomo, non di Dio. E, purtroppo, per la libertà all’uomo concessa, non è ragionevolmente vuoto.

In contraddizione con la Rivelazione
Che l’inferno sia vuoto, a ben vedere, cozza frontalmente contro la Rivelazione e la Tradizione. L’auspicio di Papa Francesco è vanificato dal Vangelo stesso. I passi nei quali Cristo parla dell’inferno sono molteplici. “Via, lontano da me nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per gli angeli suoi” è detto di coloro che non sono stati trovati aperti all’amore, ma chiusi nel proprio ego, in Mt. 25,41, dove poi è aggiunto che, per non aver praticato l’amore del prossimo, se ne andranno al supplizio eterno mentre i giusti alla vita eterna (Mt. 25,45-46). Addirittura sono i figli del Regno, quelli chiamati per primi, gli invitati alla festa di nozze che con scuse varie rifiutano l’invito o entrano alla festa senza indossare la veste adatta, ad esser “cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti” (Mt. 8,12). Come pure alla fine del mondo “Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e lì getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti” (Mt. 13,40-50). Nella parabola del ricco epulone, in Luca 16,19-31, è detto “Figlio, tu hai avuto i tuoi beni e Lazzaro i suoi mali … per di più tra noi e voi c’è un grande abisso e nessuno da qui può venire a voi, né da costì venire a noi”. L’esigenza di Giustizia è talmente radicata nel Vangelo che viene chiesto persino il taglio della mano ed il cavamento dell’occhio se essi sono di scandalo, perché “è meglio entrare nella vita zoppo, che essere gettato con due piedi nella Geenna”, ed “è meglio entrare nel Regno di Dio con un occhio solo, che essere gettato con due occhi nella Genna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue” (Mc. 9,43-48). Ed anche l’evangelista Marco parla della Geenna dal “fuoco inestinguibile” (Mc 9,43).
Anche nell’Antico Testamento diversi sono i passi che si riferiscono alle realtà oltremondane. Nel Primo Libro di Samuele è narrato del re Saul che, contravvenendo la volontà divina, ricorre alla negromante di Endor per evocare lo “spirito” di Samuele dallo Sceól. Nella Bibbia lo Sceól è il corrispondente dell’Ade, o Tartaro, pagano dove si radunano le “ombre” dei morti. Infatti, nella concezione più arcaica, dell’uomo alla morte residuava un’anima psichica, che è qualcosa di naturale come il corpo, destinata a dissolversi ed a vagare negli inferii ma entrando spesso in contatto con il mondo terreno in cerca di “vita”. Si tratta di ciò che nel folklore popolare sono, per un verso, i “vampiri” e, per altri versi, i “fantasmi”, ed è all’origine dei fenomeni para-psichici, come quelli che si manifestano nelle sedute spiritiche. La negromante di Endor, pertanto, non evocò l’anima spirituale di Samuele, bensì il suo residuo psichico, nell’ebraico biblico chiamato “ob”. Ma l’uomo è dotato non solo di una anima psichica, ma anche dello spirito che lo unisce allo Spirito di Dio, sicché il destino oltremondano è più complesso di quanto sembrano attestare le credenze più antiche, dimentiche, per il contraccolpo immediato dell’allontanamento da Essa, della Sapienza Originaria nella sua integralità. La quale torna a rivelarsi un po’ alla volta mentre ci si avvicina storicamente all’Incarnazione.

Ri-svelamento graduale della realtà oltremondana dell’uomo
È, infatti, possibile constatare che l’immagine dell’oltretomba cambia nel corso dei secoli appropinquandosi alla svolta dell’anno zero. Nel Secondo Libro dei Maccabei (12,43-46) – che è uno dei passi scritturali a fondamento della dottrina cattolica del Purgatorio (della quale quella ortodossa delle “dogane” è in qualche modo un parallelo che, con altro linguaggio, rinvia allo stesso ordine di idee) – troviamo la rivelazione della salvezza post mortem legata al concetto di responsabilità personale che, presente già nel Vecchio Testamento, diventa sempre più chiaro quanto più che ci avviciniamo alla venuta di Cristo. La sorte escatologica dei soldati caduti sotto le cui vesti si rinvengono oggetti “idolatrici”, provenienti dal saccheggio, viene legata al sacrificio espiatorio da officiarsi al Tempio di Gerusalemme, sicché è evidenziato che il destino eterno dell’uomo non è necessariamente lo Sceól, la dissoluzione, ma è potenzialmente aperto a ben altre e migliori possibilità. Va notato che, nella stessa epoca nella quale in ambito ebraico inizia a ri-svelarsi una più ampia visione dell’oltretomba, anche nel mondo pagano l’immagine del post mortem si modifica e all’Ade, al quale nell’Eneide l’ombra di Achille dice di preferire una vita da servo sulla terra, si affiancano i “campi elisi” dove i giusti dimorano in beatitudine. Il fatto che i campi elisi – cui corrisponde l’“Isola dei beati”, o “Isole Fortunate”, del paganesimo nordico, germanico-celtico – siano talvolta considerati una parte separata dell’Ade, riservata ai giusti, ed altre volte come luogo a sé stante “ai confini del mondo”, indica l’approfondimento, anche nella cultura ellenistica, del concetto di responsabilità personale e dell’esigenza di una Giustizia retributiva. In Platone, nel Libro X de La Repubblica, la vicenda di Er, un soldato che, rivivificato, racconta della sua esperienza nell’aldilà, mostra quanto anche nel mondo pagano le idee di un giudizio post mortem, di una diversa sorte per i reprobi e i giusti, di pene e di premi, diventano ampiamente presenti man mano che ci si avvicina all’era cristiana.
Gesù Cristo, nella sua predicazione, laddove svela il carattere penale e doloroso dell’inferno, ossia del luogo dove non c’è che “pianto” e “stridor di denti”, usa il termine Geenna (traduzione in greco, gehena, dell’ebraico himmon), con il quale era chiamato l’immondezzaio ai margini della Città Santa, laddove i rifiuti erano bruciati, posto nella Valle di Ennom a sud-ovest di Gerusalemme, che era stata maledetta dal re Giosia perché vi venivano celebrati i rituali a base di sacrifici umani – bambini, per lo più – del culto fenicio-cananeo di Moloch o Ba’al Hammon. Il fatto che Cristo, per indicare l’inferno, faccia riferimento all’immondezzaio, già luogo di cruenti sacrifici, potrebbe far intendere un richiamo all’antico Sceól come luogo di dissoluzione dell’anima psichica e quindi luogo di residualità ontologica. Una dissoluzione parallela alla putrefazione del corpo e per ritardare la quale gli antichi egizi praticavano l’imbalsamazione del cadavere onde consentire la sopravvivenza più a lungo possibile del Ka, corrispondente all’ebraico Nefesh, ovvero della psiché greca, intesa quale respiro vitale, ovvero quale parte dell’anima più strettamente legata alla corporeità, che per sussistere ha bisogno, appunto, del corpo. In realtà Cristo, l’Eterno Verbo/Logos Incarnato, ha usato anche una diversa immagine in relazione alla sorte oltremondana dell’uomo. Un’immagine che anticipa, in parte, la definitiva ri-svelazione dell’originaria e diversa visione del destino post mortem dell’essere umano. Lo ha fatto laddove, per indicare la sorte delle anime dei giusti, Egli afferma che esse sono accolte nel “seno di Abramo” (Luca 16,19-31). Questa era l’espressione usata dall’ebraismo del Secondo Tempio per indicare il luogo di riposo dei giusti. Nell’interpretazione dei Padri della Chiesa, ad esempio Tertulliano, si tratta di una regione dell’aldilà, non celeste ma corrispondente alla parte più alta degli inferi, nella quale le anime dei giusti, morti prima di Cristo, godono di una consolazione provvisoria fino alla resurrezione della carne, quando anch’esse riceveranno la mercede per le loro opere. C’è, qui, una allusione al cosiddetto “stato intermedio”.

Lo stato intermedio
Non dobbiamo dimenticare che in tutte le Tradizioni sapienziali, non solo quella cristiana e non solo quelle abramitiche, nel continuum tra i Piani del Reale – terminologia preferibile in ambito abramitico a quella di “Stati Molteplici dell’Essere”, che potrebbe indurre ad una visione emanazionista e dar luogo all’idea dell’essere come caduta e non come dono e partecipazione – è contemplato lo “stato intermedio”, caratterizzato da un’ambivalenza per cui da esso si può precipitare verso il basso, verso l’inferno, o innalzarsi gradualmente, purificandosi, verso l’Alto, verso il Cielo o i Cieli, al plurale, propriamente detti. Solo questi ultimi, nella loro gerarchia angelica, sono piani di realtà veramente spirituali e in quanto tali superiori a quello psichico, intermedio. Nel mondo di mezzo, che le anime attraversano, ci sono sia pericoli sia aiuti dall’Alto. Se l’anima ha vissuto chiusa in sé sarà preda di forze tendenti al basso e sarà trascinata negli inferii. Al contrario, se l’anima ha vissuto aperta all’Amore di Dio e del prossimo sarà tratta verso l’Alto in un itinerario ascendente e gradualmente sempre più luminoso, fino alla comunione con la Luce Increata. Cosa che presuppone un processo di purificazione giacché nulla di impuro può entrare in Cielo.
La realtà dello stato intermedio è attestata da molte fonti antiche, anche pre-cristiane. In tutte le Tradizioni spirituali dell’umanità corrisponde alla dimensione “sottile” del cosmo e dell’uomo. I riferimenti a questa dimensione del post mortem, con forti valenze purificatrici ma non priva di altrettanti pericoli tali da disorientare il viaggio dell’anima verso la Luce deviandolo verso altre e oscure direzioni, sono ampiamente attestati anche prima, molto prima, della comparsa sulla scena storica e sociale della borghesia mercantile dei comuni medioevali, che, secondo la tesi di Jacques Le Goff, sarebbe alla radice dell’invenzione cattolica del Purgatorio, nel quadro di un tentativo di aggiustamento dottrinale onde venire incontro alle esigenze economiche di un ceto emergente per sua natura esposto a molti peccati ad iniziare da quello di usura. Gli esempi di tale attestazione sono diversi – anche, come detto, di età precristiana – ma qui ci limitiamo a citarne tre, ossia i viaggi nell’aldilà risalenti a cronache del VII e del IX secolo che hanno per protagonisti, rispettivamente, Wetti, un monaco, Drythelm, un devoto laico, e l’imperatore Carlo il Grosso. In questi, e altri racconti similari, è già chiaramente attestata l’esistenza di diversi stati del post mortem, orrifici o beatifici, e tra essi alcuni che consentono all’anima del defunto la possibilità di purgarsi per mezzo di pene “corporali”, talvolta destinate a durare fino alla fine dei tempi, e con l’aiuto dei sacrifici dei parenti nonché delle Sante Messe offerte in loro favore[1].

Realtà, più che verità, metafisica
Senza assolutamente fare comparativismo o sincretismo è tuttavia giusto e necessario segnalare un dato oggettivo, nella convinzione mordiniana che ogni altra Tradizione spirituale – compresa quella islamica che, sebbene successiva, è ad essa collaterale più che estranea – si mostra quale imperfetta preparazione, parziale propedeuticità, non priva talvolta di ambiguità, alla Tradizione cristiana, quest’ultima definitivo ri-svelamento della Tradizione Originaria del Verbo/Logos. Il dato oggettivo segnalato è che per la Metafisica tradizionale – ripetiamo simile, in questo, presso le diverse Tradizioni spirituali, dal “libro tibetano dei morti”, al “libro egiziano dei morti”, alla mistica ebraica, cristiana e islamica come anche all’Avestā zoroastriana – nel post mortem soffriremo, in forme orrifiche, o godremo, in forme beatifiche, di tutto il male e di tutto il bene che abbiamo fatto nella nostra vita terrena, anche dei nostri pensieri malvagi o di bontà, negativi o positivi. Le nostre azioni e i nostri pensieri, nel post mortem, assumono forme concrete, dolorose o luminose, e come tali le sperimenteremo nel nostro vissuto spirituale oltremondano. È ciò che la Rivelazione cristiana chiama, per l’inferno e il purgatorio, “pena del senso” – una pena definitiva nell’inferno, alla quale si accompagna la “pena del danno” ossia l’irrimediabile perdita di Dio, solo temporanea nel purgatorio – e, per il paradiso, “visione beatifica”.
Non sono barzellette. Sono realtà, ancor più che verità, metafisiche. Alle quali i testi sacri fanno riferimento con immagini che i moderni, nella loro presunzione progressista, hanno ritenuto fantasie, credulonerie, superstizioni di primitivi.
Nell’induismo e nel buddismo (Bardo Thodol), ad esempio, l’anima del defunto, per effetto del suo “karma”, ovvero delle azioni malvagie o buone, incontra nel suo percorso post-mortem “deità” irate o benevoli che atterrendola o attirandola ne determinano la successiva “rinascita”, la quale – attenzione! – non va intesa nel senso popolare della “reincarnazione”, ma in quello di un passaggio di livello ontologico di esistenza: inferiore, demonica o superiore, divina. Nella tradizione dell’antico Egitto, l’anima giudicata ossia pesata sulla bilancia, simbolo della Giustizia – idea che ritroviamo anche nel Cristianesimo dove il ruolo di psicopompo, pesatore delle anime, è solitamente riservato all’arcangelo Michele –, viene ammessa alla beatitudine delle regioni celesti se trovata più leggera di una piuma o al contrario destinata ad essere “macerata”, “masticata” da un mostro, forma che assume il male da essa fatto, se trovata più pesante della piuma. Nell’Islam, per arrivare a un ambito abramitico, lo spirito del defunto, a seconda di come egli ha vissuto, sarà chiuso nella tomba in compagnia di vecchie megere che lo tortureranno oppure vivrà in un giardino di delizie in compagnia di bellissime donne che lo serviranno. Lungi dall’essere una concezione “materialista” dell’oltretomba, in realtà qui si allude, per l’appunto, alla forma repellente nella quale il male fatto si scaglierà contro l’anima dannata ovvero alla forma beatifica con la quale il bene fatto si mostrerà all’anima del giusto. Anche nel Cristianesimo, del resto, il post mortem è spesso raffigurato con immagini similari, che rinviano all’idea di una pena o di un premio “sensoriale”. Questa idea è evidente non solo, ad esempio, nel concetto di contrappasso usato da Dante ne La Commedia – per il quale ogni pena ed ogni beatitudine, nella concretezza del loro vissuto oltremondano, corrispondono esattamente al male o al bene fatto in vita –, ma nelle stesse parole di Nostro Signore Gesù Cristo laddove, come si diceva, l’inferno è da Lui assimilato al fuoco della Geenna e il Paradiso al banchetto e alla festa, precipuamente alla festa nuziale (Mt. 22,1.14).
Molta teologia cattolica contemporanea ha dimenticato queste realtà. Ma basta spulciare un po’ di letteratura mistica, anche quella più recente, per trovare ampie conferme da chi nello stato intermedio, ma anche nell’inferno e nei Cieli, ci è stato per permissione divina affinché lo raccontasse agli altri. Si possono citare, in proposito, per restare in ambito cristiano, diverse fonti dell’esperienza mistica delle pene infernali o purganti e delle beatitudini celesti, come quelle ad esempio dei veggenti di Fatima, di santa Veronica Giuliani, di santa Caterina da Genova (autrice di un noto Trattato del Purgatorio), di santa Teresa d’Avila, di santa Caterina da Siena, di san Giovanni Bosco, di san Pio da Pietrelcina, di san Giovanni della Croce, di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, di santa Faustina Kowalska e altri ancora.
Quest’ultima, una mistica polacco-lituana vissuta nella prima parte del XX secolo e canonizzata da Giovanni Paolo II, promotrice del culto della Divina Misericordia, è stata la fonte ispiratrice della enciclica di Papa Wojtyla Dives in Misericordia. La Kowalska ha descritto nel suo Diario l’esperienza mistica con la quale Dio le ha concesso di sperimentare, prima della morte, l’aldilà. La descrizione dell’Inferno, lasciata da Faustina, non è quella di una landa deserta. Tutt’altro! Ma la mistica descrive anche il Paradiso e il Purgatorio. Di questo Cristo le ha detto che non è voluto dalla Misericordia Divina ma è necessario per soddisfare la Giustizia di Dio, sicché esso è manifestazione somma del prevalere della prima sulla seconda, posto il fatto che, in mancanza di Purgatorio, quasi nessuno potrebbe salvarsi. Orbene, la descrizione lasciataci dalla mistica polacca dei luoghi dell’aldilà è assolutamente accostabile sia a quella della millenaria Tradizione spirituale cristiana sia a quella che, più di recente, ci ha messo a disposizione l’indagine sulle cosiddette Nde (Near-death experiences) ossia le esperienze di pre-morte.
Questo tipo di esperienza, oggi indagata con metodi scientifici, è stata sperimentata ad ogni latitudine ed indipendentemente dalle appartenenze culturali o religiose. È stata sperimentata anche da atei professi, Lungi dall’essere connessa, secondo la tesi di taluni scientisti, con le residue funzionalità cerebrali, quando esse ci sono, come invece avviene per i sogni e il coma, si svolge interamente al di fuori del corpo, Chi ha provato questa esperienza si è visto distante e separato da sé e ha descritto dall’esterno, nei suoi particolari, sia il suo corpo sia l’ambiente circostante come anche le persone che vi si trovavano e ciò che esse facevano. Quindi l’esperienza avviene senza alcuna connessione con la corporeità. Talvolta dura per periodi incompatibili con qualsiasi sopravvivenza cerebrale.
Si tratta di esperienze che presentano una fenomenologia extracorporea del tutto identica, o quantomeno similare, a quella tramandata dalle fonti tradizionali come il già citato Bardo Thodol, il mito platonico di Er, la letteratura mistica cristiana, ebraica e islamica dei viaggi nell’aldilà o le medioevali Ars Moriendi. Il defunto, nel suo “corpo sottile”, che alcune tradizioni chiamano “doppio” in quanto esatta replica psichica, animica, del copro fisico e che contiene l’io cosciente, ossia ciò che tradizionalmente corrisponde allo spirito o anima spirituale, affronta una sorta di giudizio, consistente nella visione simultanea e dinamica dell’intera sua vita terrena, al cospetto di una Luce d’Amore infinitamente accogliente alla quale si unisce, entrando in un “luogo luminoso” simile a un giardino, oppure dalla quale deve allontanarsi, pur non ricevendo da Essa disapprovazione, giacché è il defunto stesso a provare, da sé, pentimento e vergogna di tutto ciò che ha fatto di male e che ora può esaminare, con ben altra consapevolezza, comprendendo la responsabilità per gli effetti provocati a sé ed agli altri e quanto tali “colpe” gli impediscano di attraversare il limes – spesso raffigurato come una barriera o come un fiume (ed anche questa rappresentazione è un elemento molto tradizionale) – che lo separa da quell’Amore infinito (santa Caterina da Genova, nel suo Trattato, ha scritto che sono le anime stesse a gettarsi nel Purgatorio consce della necessità di mondarsi da ogni colpa per riunirsi alla Luce di Dio).
Nelle Near-death experiences ciò su cui il defunto si vede giudicato – o meglio: è invitato a giudicarsi da sé – è in relazione, soprattutto, con due fattori: la conoscenza e l’amore. Tutto lo sforzo che il defunto ha messo nella sua vita per accrescere la sapienza e tutto l’impegno nell’amore verso il prossimo sono, ora, avvertiti come elementi di innalzamento verso l’Alto, verso la Luce. Al contrario, tutto ciò che alla conoscenza e all’amore egli ha opposto durante la sua vita diventa un ostacolo. Tradizionalmente la conoscenza, ovvero la Sapienza o Gnosi, e l’amore – “Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza” (Dante, La Commedia, Inferno, Canto XXVI, vv. 118-120) – sono lo scopo ultimo della vita umana, la via per la comunione con il Divino, benché, riguardo alla conoscenza, bisogna saper distinguere tra la “Gnosi di Dio” e la pseudo-gnosi, o gnosi spuria, del suo Nemico. Quest’ultima è quel “frutto dell’albero della conoscenza” – la tentazione del “sarete come Dio” senza la Sua Grazia –, simboleggiato dal serpente che si morde la coda e che esprime la circolarità ininterrotta dell’eterno ciclo senza via di uscita, che fu proibito in origine al genere umano.
Ma non tutte le esperienze di pre-morte sono serene. In molti casi – sebbene, a quanto sembra, minori rispetto agli altri – sono esperienze dolorose. Ciò accade laddove si tratta di vite vissute in un’esistenza estremamente e radicalmente negativa, nell’odio quasi senza amore, e in particolare nei casi di suicidio. Nelle esperienze dolorose, il defunto ha sperimentato un vissuto post mortem privo di Luce e terrificante nelle pene che si è trovato ad affrontare. Per i suicidi, soprattutto, la sofferenza riguarda il dolore provocato ai propri cari, nonché il ciclico ripetersi della dinamica psicologica del problema del quale, togliendosi la vita, essi volevano liberarsi.
In conclusione, tanto la Tradizione quanto la mistica e la più recente indagine sulle esperienze di confine, se nulla tolgono all’infinita Misericordia di Dio che può farci azzardare la speranza che l’inferno sia vuoto, attestano, tuttavia, che difficilmente esso lo è. Pregare affinché tutti si salvino non è sbagliato ma dobbiamo avere consapevolezza che non tutti, per loro libera scelta, si salveranno.

UN POST SCRIPTUM A COPERTINO, IN FORMA DI LETTERA A PAPA FRANCESCO
di Franco Cardini
Beatissimo Padre,
questa è una lettera del tutto fittizia: non mi permetterei mai di rivolgermi epistolarmente alla Santità Vostra, e se lo facessi non mi affiderei certo a un mezzo informatico come questo.
Non mi stupirei se l’amico Copertino si stupisse del fatto che i “Minima Cardiniana”, che ospitano sovente i suoi scritti, si siano aperti anche a uno come questo, esplicitamente antibergoglista. So bene che, amicizia a parte, sono molti tra coloro che di solito mi onorano della loro stima a rimproverarmi il mio “bergoglismo”. Altri me lo hanno rinfacciato apertamente: e non ho mai replicato loro, fedele al principio del 
Don Giovanni mozartiano: “No, non mi degno di pugnar teco”. S’incrocia la lama solo con i propri pari: e certi tangheri che lanciano provocazioni per potersi poi sentir gratificati dall’attenzione rivolta loro non avranno da parte mia la soddisfazione di sentirsi presi sul serio.
Il caso di Copertino, sia chiaro, non rientra in questi: anzi, in realtà la lettera formalmente indirizzata alla Santità Vostra è in realtà rivolta a lui. E non è una replica, perché sotto il profilo storico e teologico sento di potermi affermare largamente d’accordo con quanto egli dice. Faccio solo notare che l’Islam è alquanto vicino al parere della Santità Vostra, in quanto il suo “Inferno” è piuttosto un Purgatorio: alla fine dei tempi, difatti, esso si svuota. La misericordia divina, difatti, non ammette che resista alcun peccato umano meritevole di dannazione eterna.
Sia chiaro che di queste cose si può parlare anche se si è e si tiene ad essere assolutamente ortodossi: nonostante quel che sembrano affermare le Scritture (ma l’esegesi su ciò come su millanta altre cose resta aperta) e che senza dubbio sostiene la tradizione, si può ben ritenere che l’Inferno sia vuoto per il fatto che nulla di quanto lo riguarda è argomento di dogma; e anche perché il cattolico fedele al Magistero della Chiesa sa bene di non poter dubitare solo di quanto è assicurato dal dogma; e non è materia di dogma né l’esistenza dell’Inferno, né – soprattutto – il fatto ch’esso abbia degli ospiti. Il perché è, per un cattolico, molto semplice: mentre non si può dubitare che un canonizzato sia un beato, chi canonizzato non è 
può esser dannato per l’eternità, ma su ciò alcuna certezza è impossibile. Noi non possiamo affermare che Dio non ha concesso la grazia della contrizione a nessun’anima: non è quindi cosa probabile (nel senso etimologico di tale aggettivo) che Dio abbia condannato chicchessia all’inferno.
Ma, Beatissimo Padre, debbo confessarLe umilmente che c’è qualcosa che mi turba nell’assunto delle Santità Vostra che l’inferno sia vuoto; e il mio dubbio investe, in un modo molto rozzo, quel campo della pastorale cui la Santità Vostra è molto più sensibile di quanto non lo sia di fronte agli argomenti teologici. La fede retrocede, Beatissimo Padre: la Santità Vostra lo sa benissimo; e aumenta il numero degli anziani, quindi di quelli che sono in crescente pericolo di perderla.
La scongiuro, Beatissimo Padre: facciamo in modo che l’ignobile, degradante sentimento della paura non possa venir facilmente abbandonato; e il crescere dell’idea diffusa che “l’inferno non esiste: l’ha detto anche il papa” potrebbe contribuire potentemente a rilassare i freni inibitori nei confronti del peccato. Teniamocela stretta, questa paura: potrebbe salvarci dalla morte eterna.

[1]Cfr. Jean Verdon, La notte nel Medioevo, parte terza, pp. 241- 261, Milano, Baldini & Castoldi, 2000.