Dostoevskij contro l’Occidente
di Marcello Veneziani - 21/08/2022
Fonte: Marcello Veneziani
Fu becero, meschino e intollerante censurare Fedor Dostoevskij dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Ma diciamo la verità: la censura contro di lui non sarebbe dispiaciuta all’interessato, perché rispecchia i suoi pensieri. In effetti nella furia dettata dallo zelo ignorante di cancellare un grande, ci avevano preso. Dostoevskij è il più acuto critico dell’Occidente e il vero precursore dello spirito russo panslavista, ortodosso, anti-occidentale; i suoi scritti sono la giustificazione più alta della linea di Putin, zar di tutte le russie, compreso quella sovietica. Di Dostoevskij di solito conosciamo versioni addolcite, tra saggi, biografie e sceneggiati; poco prima che scoppiasse il conflitto in Ucraina ricordo una lezione scialba su Dostoevskij, in verità assai modesta, di Gianrico Carofiglio all’Ambasciata russa a Roma, in cui il magistrato-narratore trattava lo scrittore russo come un suo precursore…
Ma Dostoevskij, quello vero, non spacciava brodini e tisane, non amava rassicurare i suoi lettori, soprattutto occidentali. Scriveva ad esempio nel suo Diario, nel 1877: “Da due secoli ci perseguita questa vergogna di essere considerati asiatici d’Europa” e invece l’Asia, vaticinava, sarà “la nostra principale via d’uscita”. “Il sole si è mostrato ad Oriente e per l’umanità è ad Oriente che inizia un nuovo giorno”. “Se sapeste che innato ribrezzo, divenuto odio, ha suscitato in me l’Europa…” E poi: “L’avvenire dell’Europa appartiene alla Russia”; più chiaro di così? Il suo nemico interno era l’occidentalismo, liberale e progressista, fiorito in Russia con Pietro il Grande, lo zar “nichilista” e illuminista che voleva sradicare i russi dalla loro cultura.
Per far felici coloro che parlano di Putin come di un fascista russo, ecco una citazione ad hoc di Dostoevskij: la nostra società russa “fa pensare più di tutto a quell’antico fascio di verghe, forte soltanto se sono legate insieme”. Anche il populismo, nato non a caso in Russia, viene santificato dallo scrittore nelle sue lettere: “Chi perde il proprio popolo e l’anima popolare perde anche la fede patria e Dio”. Il Cristo Russo, precisava, è al principio della nostra Ortodossia.
Criticando “il sudiciume d’importazione europea”, esaltando il panslavismo e definendosi mistico e sognatore, Fedor si riteneva rivoluzionario per conservatorismo e reputava necessaria la Russia alla sua scrittura (lo scriveva soggiornando a Firenze, giudicando folli gli emigranti russi che si trasferivano da noi). Il suo sogno mistico era l’unione di tutti i popoli guidati dagli slavi, una volta superata l’antica separazione tra intellettuali e popolo. “Tutto il destino della Russia- scriveva – consiste nell’Ortodossia, nella luce dall’Oriente, che scorrerà a Occidente verso l’umanità accecata, che ha perduto Cristo”. E non faceva mistero della traduzione bellicosa dei suoi sermoni: “Meglio sguainare una volta la spada che soffrire all’infinito”. “L’eroismo dell’auto-sacrificio con il proprio sangue per tutto quanto riteniamo sacro, è certo più morale di tutta la catechesi borghese”. Se contrapponeva l’ortodossia al cattolicesimo, riteneva il protestantesimo ai confini con “il vero e proprio ateismo”.
Dostoevskij criticava pure il nascente socialismo e difendeva “il diritto alla proprietà, alla famiglia e alla libertà” contro cui insorgevano i rivoluzionari, sacrificando gli uomini al futuro, sottomettendoli con violenza, spionaggi e “ininterrotti controlli del potere più dispotico”. Preveggente… Il comunismo per lui era una perversione del cristianesimo.
Per Dostoevskij l’amore per l’umanità è impossibile senza la fede comune nell’immortalità dell’anima. Ma chi troppo ama l’umanità in generale, avvertiva, di solito è poco capace di amare l’uomo in particolare; come chi ha tanta compassione verso il malvagio (ladro o assassino) molto spesso non si cura della sua vittima.
Pur amando Roma antica e le città italiane, Dostoevskij disprezzava il regno d’Italia “un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore universali, cedendola al più logoro principio borghese” “la sua unità non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale e per di più piena di debiti non pagati…” E aggiungeva: “Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta… l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale(…) La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale”. Stessa sorte ha avuto l’Europa, di cui deplorava la subordinazione alla borsa e al credito internazionale. Una critica ante litteram all’Italia di Draghi e all’Europa finanziaria. E poi la sua visione geopolitica dei tedeschi fatalmente legati alla sorte dei russi. E non c’era ancora il problema del gas…
I pensieri che ho citato sono tratti dal Diario e dalle Lettere; è uscita ora una succinta spremuta di quelle pagine col titolo accattivante “La bellezza salverà il mondo” (ed. De Piante, a cura di Claudia Sugliano con introduzione di Luca Doninelli). La visione di Dostoevskij spiega la divergenza tra Russia e Occidente con una profondità sconosciuta agli attuali osservatori. Ma lui non si considerava un grande e arrivava a dire che se fosse stato benestante come Ivan Turgenev “che possiede 2000 anime” (ossia servi della gleba a sua disposizione), non scriverebbe in fretta e per denaro ma si dedicherebbe a un’opera della quale “fra cento anni si parlerebbe ancora”. I cent’anni sono passati da un pezzo, e delle sue opere, non di una sola, se ne parla ancora…
* (Dedicato ad Aleksandr Dugin che ieri ha perso la figlia in un attentato contro di lui, compiuto dai “buoni” contro i russi cattivi)